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Formula Magica

Giacomo Guidetti

 

La situazione era già abbastanza caotica, eppure Crispino continuava imperterrito a battere col tacco della scarpa sulla testa del chiodo che avrebbe dovuto sostenere, appeso alla parete, il cactus di zia Mafelda, ed era inutile che la signora gli spiegasse che non bisognava far entrare il chiodo nella pianta, che la poverina doveva già sopportare le punture delle sue stesse spine; era inutile, dicevamo, che gli si facesse capire che era anche tempo sprecato e che il chiodo poteva servire ad altro, perché Crispino era testardo come suo padre e nessuno gli faceva mai cambiare idea.

Anche Marisa, la gatta bianca e nera di zia Mafelda, era piuttosto preoccupata: da tre giorni Crispino non faceva che rubarle il latte dalla scodella, ed essa, poverina, non aveva mai avuto modo di reclamare.

Comunque la cosa più preoccupante era che zio Onofrio era sceso di casa proprio tre giorni prima per comprare due toscanelli e non era ancora tornato, e Licinia, la vecchia governante, era ancora vicino ai fornelli nell'attesa che il padrone le dicesse se fosse necessario scaldare gli spaghetti che erano ancora sulla tavola.

Crispino, quando della povera pianta non fu rimasto che il vaso, buttò all'aria tutto e si precipitò nervoso e scontento nella sua stanza in fondo al corridoio, si spogliò, indossò il pigiama e si mise a letto per dormire.  Nemmeno ebbe chiuso gli occhi che si ricordò che doveva finire di leggere il libro Madame Bovary; allora accese il lume sul comodino, tirò fuori dal cassettino un volume rilegato e si mise a leggere con viva attenzione. Zia Mafelda era preoccupata, perché Crispino non andava quasi mai a dormire alle undici della mattina, specialmente perché non sopportava di restare digiuno. Crispino mangiava come un maiale, e nonostante ciò era magro da far spavento; di abbondante in lui c'era solo il lungo ciuffo di capelli biondi e lisci che gli scendeva sulla fronte, per il resto era la personificazione della Carestia: guance infossate, occhi incavati, braccia lunghissime ed esili come spilli, gambe altrettanto lunghe e magre, e un torace da atlante anatomico del sistema scheletrico.

Quando zia Mafelda ebbe bussato alla sua porta, Crispino gettò per aria il libro e urlando disse: “Avanti!”  Zia Mafelda era una donna esile e piccola, e all'apparenza molto timida.  Entrò nella stanza del nipote e gli chiese con voce affettuosa:

“Come mai sei tanto nervoso, caro?”

“È perché non me ne va mai bene una! Questa è la ragione.” rispose Crispino che si alzò poi dal letto e si mise a camminare in su e in giù per la stanza con le braccia all'indietro. 

“Ma non devi prendertela tanto per delle sciocchezze,» cercò di confortarlo zia Mafelda, «Sai che ti fa male agitarti tanto.

“Lo so, ma non posso farci niente se me la prendo a cuore per tutto”.

“Devi stare più calmo, su, ora ti preparo una bella tazza di caffè bollente, come piace a te; ma devi stare più calmo, su, più calmo”. Ed uscì dalla stanza mentre Crispino si ripeteva a bassa voce “Più calmo, più calmo, come se fosse facile essere più calmi; è una parola essere più calmi quando tutto ti va storto. Già, è facile dirlo: più calmo, più calmo, bah…, più calmo…” Poi sedette sul letto e riprese a leggere.

Nel frattempo Licinia continuava ad essere preoccupata perché ancora non sapeva se il signor Onofrio preferisse ancora gli spaghetti, che continuavano a stare sulla tavola coperti da un piatto, o il risotto come la signora Mafelda.  Dopotutto anche il giorno prima era stata in ansia nel dubbio fra gli spaghetti e il minestrone, e due giorni prima fra gli spaghetti e i maltagliati coi fagioli. Ora, poiché il dilemma sorgeva con il risotto, ritenne opportuno mettere da parte anche questo, e semmai il signore avesse ancora preferito gli spaghetti, l'avrebbe conservato con il minestrone e i maltagliati per il maiale di sua sorella che viveva in campagna. Zia Mafelda trovò appunto Licinia alquanto pensierosa e non poté fare a meno di chiederle il perché.

A Licinia sembrava poco conveniente dire le vere ragioni e si sentì costretta a mentire:

“È successo la settimana scorsa, io ero andata da mia sorella e le avevo portato un dolce che ho comprato qui all'angolo e che volevo dare a mia sorella perché è stata la sua festa e io non sapevo che cosa regalarle e non sapevo se preferiva qualcosa da mettere indosso o qualcosa da mettere nello stomaco e alla fine ho pensato che qualcosa da mettere nello stomaco costava di meno di qualcosa da mettere indosso e allora ho pensato di comprare un bel dolce che ho visto nella vetrina del pasticciere qui all'angolo e che doveva essere molto buono e che non l'ho pagato neanche molto. Così fra una cosa e un'altra sono andata da mia sorella che sta in campagna e le ho portato il dolce.”

Zia Mafelda si aspettava che Licinia continuasse, ma quando si fu accorta che non sarebbe stato così le domandò:

“E voi state preoccupata perché avete portato un dolce a vostra sorella?”

Si, rispose Licinia, “perché mia sorella preferiva qualcosa da mettere indosso e allora …” Ma poi si accorse che la storia non era convincente, anche se non le veniva niente di più sensato. “E poi... se le dicessi che è morto mio cognato?”

“Gesù!” fece Mafelda, “Poveretto! E come è morto?”

“Non lo so. Il fatto è che non è morto.”

“Non è morto?”

“No che non è morto. Se lo fosse, forse sarebbe per un tumore, oppure… un cancro! E di certo lo seppellirebbero vicino alla madre”.

“Ha un tumore?”

“Ma no, non ce l'ha. Almeno così so io.”

“Ma non mi avete detto che è morto?”

“Ho detto: se le dicessi che è morto?”

“E che significa?”

“Significa: se le dicessi. Ma non l'ho detto. Anzi ho detto che non è morto.”

“È malato, però.”

“È sano come un pesce. Almeno così so io.”

“Ma che mi state dicendo, Licinia!”

“Io non sto dicendo niente. Anzi a dire il vero ho detto il contrario.”

“Insomma siete preoccupata perché vostra sorella ha avuto un dolce, e non vi importa niente della salute di vostro cognato. È così?”

“È più o meno così. Non posso preoccuparmi della salute di chi sta bene. Ho già troppe preoccupazioni per la testa.”  Così si era esaurito il dialogo.

Zia Mafelda decise allora di dedicarsi finalmente a sperimentare la ricetta del dolce di finocchi che aveva trovato sull'ultimo numero della sua rivista preferita. Memore però dell'insuccesso ottenuto dal purè di fragole la settimana prima, pensò bene di prepararne una sola porzione per sé stessa.  Il guaio era che non riusciva a trovare pentole e tegami sufficientemente piccoli, che i pochi che aveva finivano inesorabilmente per le pappe di Marisa.  Pensò allora di farseli prestare dalla vicina, facendo però attenzione a che Crispino non se ne accorgesse, che sarebbe andato su tutte le furie.  “Non si chiedono in prestito queste cose”, avrebbe di certo detto come tutte le altre volte, “Se si ha bisogno di queste cose le si va a comprare, non è giusto farsele prestare. Che modi sono!”  Poteva approfittare che era nella sua stanza e forse dormiva. Avrebbe fatto tutto nel massimo silenzio.

Si recò presso la porta della vicina in punta di piedi e si mise ad aspettare che questa aprisse per caso, per evitare di suonare il campanello. Ma Crispino intanto usciva dalla stanza per sollecitare il caffè bollente promesso dalla zia, e chiedeva a Licinia: “Che fine ha fatto la zia? È fuggita?”

“Non ancora, dev'essere in giro per la casa.”

“A che fare?”

“Non lo so io a che fare, domandalo a lei.”

“Come faccio a domandarglielo se non può rispondere?”

“Domandaglielo quando torna.”

“Che glielo domando a fare quando torna?  Io lo voglio sapere adesso. Quando torna è una domanda inutile.”

“Allora non glielo domandare.”

“E come faccio a saperlo?”

“Uffà, Crispino! Domandaglielo al portiere, che sa sempre tutto.”

“E va bene. Però non ti offendere se ti dico che sei ignorante.” Poi continuò a rimuginare: “Che lo domando a fare al portiere! Non sa mai niente. Dove può essere andata la zia?  In camera sua?” e si recò presso la stanza della zia, che aveva la porta chiusa.  Bussò con le nocche. “Zia sei dentro?  Sei qui dentro, zia?  Zia! Zia, sono Crispino, perché non rispondi?”

Intanto zia Mafelda era ancora sul pianerottolo quando passò il signor Bencasati, che abitava al piano di sopra.

“Buongiorno, signora!”

“Buongiorno, signore!”

“Cosa c'è, non le aprono? Forse non c'è nessuno.”

“No, no, ci sono. Ci sono.”

“Ah, ma allora è perché non sentono il campanello. Come al solito avranno la radio accesa a tutto volume. Lo so ben io che me li sento tutto il giorno. È meglio farsi sentire per bene.” E si attaccò al campanello finché non venne ad aprire la signora, nella disperazione di Mafelda che aveva fatto di tutto per non fare rumore. 

“Scusi,” disse il signore, “ma la signora era qui che aspettava. Avrà suonato chissà quante volte. Certo, con la radio accesa…”. 

La vicina era perplessa, non sapeva se rientrarsene sbattendo la porta o far finta di niente. “Cosa c'è?” chiese. 

“Niente” disse Mafelda ormai annientata, “niente. È solo che … che … non ricordo se il mese scorso le ho poi restituito il macinino.  Così ero venuta a chiederglielo.”

“Ma si che me l'ha restituito. Tutto qui?”

“Tutto qui, grazie” concluse Mafelda avviandosi verso l'uscio di casa con le mani sulle guance, come se dovesse riparare il volto dagli schiaffi.  Non riuscì ad entrare, che si imbatté in Crispino, il quale, avendo sentito il suono insistente del campanello, s'era precipitato a dare un'occhiata.

“Zia, perché non mi rispondevi?”

 “Quando?”

“Poco fa. Ti chiedevo perché non mi rispondevi e tu non me lo dicevi, e io continuavo a chiederlo.  Anche adesso te lo chiedo. Te lo chiedo finché non mi rispondi. Perché non mi rispondevi?”

“Andiamo dentro, Crispino!” E lo spinse all'interno chiudendosi alle spalle la porta con un inusuale vigore che la lasciò sorpresa.  “Non ti rispondevo perché non potevo risponderti,” disse severamente, “e tu non devi farmi domande quando non posso risponderti.”

“Ma adesso puoi rispondermi!”

Zia Mafelda sentiva di stare per perdere la calma, fatto abbastanza raro, così ricorse al solito sistema per tenere a bada il nipote, che era quello di affidargli un compito:

“Non hai ancora sistemato i lacci delle scarpe sinistre.”

“Perché quelle sinistre? E le destre?”

“Perché oggi tocca alle scarpe sinistre! Domani a quelle destre.”

“E non posso fare metà delle sinistre e metà delle destre?  Mi dà fastidio avere una scarpa a posto e una no.”

“E va bene,” concesse la zia, “fai metà delle sinistre e metà delle destre. Domani però fai le altre!  Mi raccomando: che le parti libere dei lacci siano di uguale misura sui due lati.”  Crispino si avviò ad assolvere l'incarico affidatogli.

Mafelda rinunciò per quel giorno al dolce di finocchi e si apprestò a portare avanti un lavoro che aveva iniziato da almeno un anno: le rivestiture in stoffa dei volumi dell'enciclopedia, con un bel tessuto morbido di flanella a disegni tanto carini che aveva avuto in regalo e che diversamente non avrebbe saputo come impiegare, progettate in forme a bustina con tre bottoncini per tenerle chiuse. Aprì la vecchia macchina da cucire a pedale che teneva in un angolo morto del corridoio, prese il necessario dal ripostiglio e si sedette al lavoro.

Suonarono alla porta. Licinia si recò ad aprire sperando si trattasse finalmente del signor Onofrio.  Era invece la signora Genova, cugina di Mafelda, col figlio Luigino di dieci anni, marchiato per sempre col soprannome di Egligino, che gli era stato affibbiato per scherzo quando era molto piccolo giocando sulla sinonimia dei pronomi lui-egli, e del quale il poveretto non si era potuto più liberare. Erano venuti a pranzo, a seguito d'un generico invito fatto qualche settimana prima da Mafelda: “Vieni a pranzo da me, una volta; vieni quando vuoi.”  E Genova l'aveva presa alla lettera senza sentire il dovere di preavvertire.

“Crispino è sempre qui da te?” fece a Mafelda.

“Si, è ancora qui.”

“Oh, meno male. Così potrà giocare con Egligino.”  Genova non teneva in alcun conto che Crispino aveva quasi il doppio dell'età di suo figlio. “Ti ho portato la torta di mele, quella che piace a te!”

Se c'era una cosa che Mafelda non poteva sopportare, questa era la torta di mele. Aveva sparso la voce fra amici e parenti onde evitare che gliela propinassero. Ma tutti ricordavano solo che c'era un legame fra lei e le mele e s'erano convinti che ne fosse ghiotta, così la poveretta non riusciva ad avere altro che torte di mele e pasticcini di mele.  “Grazie, sei molto gentile, ma non ti dovevi scomodare.” disse pensando in cuor suo che davvero meglio sarebbe stato che la cugina non si fosse scomodata affatto, neanche per uscire dalla porta di casa.

“Crispino, Crispino! Vieni a vedere chi c'è!” disse ancora a voce alta girandosi verso il corridoio, ma Crispino era troppo assorto nel suo lavoro e non sentiva. “Egligino, va' a cercare Crispino di là. Accomodati, Genova!” Condusse la cugina nel salotto ricordandosi all'ultimo momento che quella mattina non era ancora stato spolverato.  “Prendiamo un aperitivo?” propose, e prima che l'altra potesse opporre un rifiuto precisò: “È buono! L'ho fatto io.”  Poi, rivolta alla cucina: “Licinia! Licinia, per favore, portateci due Santruglia!”

“Cos'è, è alcolico?” si informò Genova.

“Oh, no! È buono. È un aperitivo non alcolico.  L'ho fatto io.”

“Meno male,” disse Genova, “sai che sono astemia.”

Licinia giunse poco dopo portando su un vassoietto con ringhiera, di quelli che si usavano per servire i rosoli, una bottiglia di cristallo a sezione quadrata piena a tre quarti d'un liquido verde marcio e due calici sottilissimi da vino.

“A dire il vero sarebbe un digestivo,” precisò Mafelda, “ma io l'ho fatto in due versioni, una concentrata e una più diluita come aperitivo.”

“Interessante, e come l'hai fatto?” chiese complimentosa Genova. 

“È un misto di erbe e di odori. È facile da fare.” E mentre versava il liquido nei bicchieri spiegava: “Basta ricordare il nome: SANTRUGLIA. Ogni lettera è l'iniziale d'un ingrediente: Sambuco, Anice, Noce, Tiglio, Rosmarino, Urtica, Ginepro, Limone, Ippocastano.”

“Interessante!” fece Genova mandando giù il primo sorso con una certa riluttanza, “E l'ultima lettera?”

“Ah! La A sta per Acqua.” disse Mafelda.

“Non per Arsenico?” chiese scherzando, ma non del tutto, Genova. 

“No! L'arsenico non si mette!” precisò seria e distrattamente Mafelda; “Si può usare dell'Alcool, che sempre per A comincia, se lo si preferisce liquoroso. Ne vuoi ancora?”

“No!” fu la pronta risposta, “No, grazie; ho paura che mi spezzi l'appetito.”

Genova s'era subito resa conto d'aver detto qualcosa di troppo, ma si accorse che Mafelda non la ascoltava affatto, era presa da qualcos'altro. In effetti Mafelda era preoccupata per non sapere come giustificare l'assenza del marito a pranzo. Non era la prima volta che Onofrio usciva e non tornava per qualche giorno, ma in genere, tranne quelli di casa, nessuno veniva a saperlo.  Stavolta era diverso, non tanto per la cugina in sé, quanto per la sua fama di lingua lunga. Così, mentre la cugina parlava di questo e di quello, non faceva che ripassare a mente come avrebbe affrontato la situazione.

Farò finta di niente finché non me lo chiede: 'Dov'è Onofrio?' Oh, Onofrio sta per arrivare. Ha dovuto fare delle commissioni. Sarà qui a momenti. Oh, Onofrio sarà qui a momenti. È uscito per fare delle commissioni.  Oh, Onofrio sarà qui a momenti.  Sta per arrivare per fare delle co … No! Oh. Onofrio … Oh! Onofrio è già quasi come se fosse qui.  Sai, ha dovuto fare delle commissioni!  E se mi ponesse la domanda in modo diverso?  'Come mai Onofrio ci mette tanto tempo ad arrivare?'  Oh, sai, Onofrio è un perditempo!  No. Oh, sai, Onofrio aveva da fare delle commissioni e … e … e ci vuole certo del tempo.  'Ma come mai non abbiamo il piacere di vedere Onofrio?'  Ma che impicciona!  Oh, sai Onofrio è molto indaffarato in questo periodo. È uscito per fare delle commissioni e … e non tarderà molto. Anzi credo proprio che stia per arrivare.  Già, e poi? Oh, sai, Onofrio … Oh, sai Onofrio è andato a casa d'un parente che sta male!  No, se no mi chiede chi è il parente.  Oh, Onofrio …”

Le venne in mente che sarebbe stato necessario far partecipi del piano sia Licinia che Crispino, che non venisse loro in mente di dire le cose come stavano davvero.  “Scusami un attimo, Genova, devo andare in cucina a controllare certe cose.”  Si recò lestamente da Licinia, che era sempre vicino ai fornelli, e a voce talmente bassa da non farsi udire per niente bisbigliò qualcosa. Licinia, per non farsi al solito rimproverare di non aver sentito, finse di avere capito e annuì con la testa, poi ripassò in mente le poche sillabe che aveva afferrato per cercare di decifrare: …ora …friò …c'è… tarda… missioni… mi raccomando!  “Mi raccomando!” questo l'aveva capito benissimo, che era l'unica cosa detta a volume regolare.  Poi Mafelda aveva aggiunto:” Devo dire la stessa cosa a Crispino.” Questo tagliava la testa al toro! Sarebbe bastato chiedere a Crispino, per sapere.

Mafelda intanto, passata per la stanza del nipote, tornava in salotto, così Licinia ebbe modo di chiamare il giovane per sapere:

“Cosa ti ha detto la zia?”

“Che t'importa di cosa m'ha detto? È un segreto.”

“Ma lo devo sapere anch'io!”

“No che non lo devi sapere. Se è un segreto, è un segreto:”

“Crispino, lo devo sapere anch'io, la zia l'ha detto anche a me!”

“E allora perché me lo chiedi?  Se te l'ha detto lo sai già.”

“Si, ma volevo capire se avevo capito bene. Di che missioni parla?”

“Missioni?  Quali missioni!  Licinia, sei un'intrigante!”

“Insomma Crispino, la zia ha detto che dovevamo sapere una cosa, io e te, in segreto. Io non ho capito perché la zia parlava troppo piano. Allora me lo devi dire tu, se no dico alla zia che non me l'hai voluto dire!”

“E fai bene! Così la zia capisce che quando mi comunica un segreto si può fidare.”

Egligino, intanto, incuriosito dall'aver visto zia Mafelda parlare nell'orecchio di Crispino, aveva origliato alla porta della cucina. Non aveva potuto afferrare granché, ma ne aveva dedotto che c'era in corso una qualche missione segreta.  Propenso al mistero e al dramma, come spesso i bambini della sua età, ripassò in mente gli ultimi film che aveva visto per cercare qualche attinenza.  Ciò che per una ineccepibile logica aveva potuto ricavarne era che non essendo stati messi a parte del segreto né lui né la madre, la missione avrebbe dovuto compiersi contro di loro.  Questa conclusione, se da un lato lo impauriva, dall'altro lo eccitava tremendamente, e si mise subito ad indagare rovistando nei luoghi più strani in cerca di qualche indizio.

Crispino, che non gradiva affatto il ruolo di intrattenitore, pensando che il bambino avesse iniziato un gioco da solo, lo lasciò fare e si rimise a leggere. Egligino si sentì finalmente incontrollato e poté fare una serie di scoperte sicuramente interessanti.

In un cassetto pieno di cianfrusaglie nella stanza di zia Mafelda, l'unico non destinato a biancheria d'un comò ottocentesco, in mezzo a scatole da caramelle contenenti bottoni, clips, strass e spilloni, trovò una scatola da sigari contenente delle caramelle; un astuccio di pelle per arnesi da manicure contenente delle lenti smontate di occhiali da vista; un astuccio di pelle per occhiali contenente un certo numero di matite, tutte dello stesso colore verde; una scatoletta per liquirizie contenente monetine fuori corso; alcune bomboniere ancora chiuse con veli, nastrini, confetti e bigliettini; una scatola da cioccolatini piena di tappi di sughero e altre cose non dissimili.  Insomma quello che normalmente ci si aspetta di trovare in un cassetto del genere.  Ma ciò che colpì la fantasia di Egligino fu un minuscolo blocco-notes con scritte a matita delle cose assolutamente incomprensibili, benché fossero in buona calligrafia.

Sul primo foglietto c'era:

Lazio - Roma: 0 - 0

Glicine: terra normale da giardino. Annaffiature regolari. Potare annualmente.

m. 1,20 asta

Peppe  3502114

Sul secondo foglietto c'era solo scritto:

ERPE

Sul terzo:

1° - mescolare un terzo di tabacco biondo e due terzi di tabacco scuro.

Quest'ultimo ebbe su Egligino l'effetto d'un lampo: chi fumava la pipa? Poi argutamente pensò: “Delle cose scritte devono avere un senso, altrimenti a che serve scriverle?  E qual è il senso se non quello che gli diamo nel momento che le leggiamo? Allora tutto ciò deve essere la soluzione del problema: Che fine ha fatto lo zio Onofrio.  Dunque: Lazio è sbagliato!, serve sicuramente per depistare, in italiano si dice Lo zio. O no?   Però se fosse Lazio come nome geografico sarebbe Lazio meno Roma, cioè il resto del Lazio. Latina? Rieti? Frosinone? Frosinone, che fa FR.  Zero meno zero non vale niente, e allora si può toglierlo.  Bravo! Chi si è pensato tutto ciò? Io!  E questa è andata. Anzi è andato perché è maschile. Se Lazio è andata, lo zio è andato; si dice così.  È andato, certo, ma dove?  Già, dove. Poi vediamo: GlicineGli, il cine  si può togliere, che a quest'ora i cinema sono chiusi. Il resto pure: quando mai lo zio si è occupato delle piante!  m. 1,20 asta: questa pare una emme. Quindi pare, emme, asta. E 1,20 ?  Forse è l'ora.   Poi Peppe.  Che strana parola, che vuol dire Peppe?  Eppe è il nome della lettera P.  Sul secondo foglio c'è scritto ERPE, ma potrebbe anche essere lo stesso Eppe scritto male, con la R al posto della P.  Ma che senso ha? P! Ed eppe è una parola che si può rovesciare, e pure se fosse peep si tornerebbe sempre a pe.  E la somma delle cifre dà 16!  La sedicesima lettera in italiano è R. Ecco svelato il mistero della R.  Il conto torna. Torna!  Voce del verbo tornare: ecco il senso!  Allora riepilogando: Lo zio, o no? Fr. Io. È andato.  Dove? Gli. Pare m, asta. Pe, R, tornare.  In conclusione: Lo zio Onofrio è andato dove gli pare ma sta per tornare.  Evviva! Questa è la soluzione!  E che ore sono? Le una e venti.”

Mentre si complimentava con sé stesso lo chiamarono dalla stanza da pranzo, che era pronto in tavola.  Richiuse lesto il cassetto e rapidamente si recò nel luogo del desinare; poi, come ebbe varcato la soglia, con soddisfazione chiese a voce alta: Ma zio Onofrio dov'è?”

Zia Mafelda si sentiva mancare, che, benché avesse ripassato la parte decine di volte, temeva di non riuscire più a sostenerla.  Ma subito, da dietro la porta che dava sull'ingresso, si sentì una voce rimbombante: “Sono qui!”

E Onofrio entrò, esattamente all'una e venti, con il suo vestito grigio scuro col panciotto, di foggia non proprio modernissima ma comodo e ben fatto, come egli amava sempre sostenere.  Mafelda ricordava d'averlo visto uscire con un altro vestito, ma in quel momento le sembrò un dettaglio insignificante.

Genova, che fino a quel momento non ci aveva nemmeno pensato, chiese:

“Ciao, Onofrio. Dove sei stato?”

“A comprare due toscanelli!” fu l'ovvia risposta.

Egligino si convinse che le parole e i numeri trovati nel cassetto fossero una formula magica per far apparire e scomparire zio Onofrio, soprattutto quell' ERPE scritto da solo sul secondo foglietto. Ma Crispino si alzò dalla sedia: “L'avevo detto che oggi non ne va mai bene una.  È assurdo!  Avrei dovuto immaginare che finiva così. Ma se l'avessi saputo non ci sarei stato fin dal primo momento.”  Disse, poi si avviò verso la porta ed uscì.

Allora Egligino capì che la formula era bivalente: facendo riapparire qualcuno ne faceva scomparire un altro, e fu davvero contento d'averla imparata.


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