Qualcuno si è mai chiesto quale sia la parola italiana più famosa
nel mondo? La più usata nelle lingue straniere? Oppure quella che
più di ogni altra contraddistingue l'essere italiani agli occhi
degli stranieri? Sicuramente possiamo considerare "ciao", "mamma",
"spaghetti", "pizza" alcune delle parole italiane più conosciute
all'estero. Come è noto, "ciao" viene dal dialetto veneziano e per
esteso significa "schiavo", nel senso di "servo vostro". In ungherese,
ancora oggi, si può salutare qualcuno dicendo "szervusz" (pronuncia:
servus). Si vede che i veneziani arrivarono fin là.
Con la parola "spaghetti" gli italiani sono conosciuti negli USA.
Gli spaghetti così come la pizza sono, in realtà, stati inventati
dai cinesi. Ci rimane "mamma". Ma in realtà la parola italiana più
conosciuta nel mondo non è "ciao" e nemmeno "spaghetti", "pizza"
o "mamma", infatti se provate a chiederli a un cinese o a un arabo
non le conoscerà. La parola italiana più usata nelle lingue straniere,
in quasi tutte le lingue straniere, è di origine araba ed è mafia.
Anche cinesi e arabi la conoscono. Un mio amico toscano mi racconta
ancora che un giorno, viaggiando tra i Masai del Kenia, al momento
di dichiarare di essere italiano, si sentì chiedere: "Mafioso?".
Quei Masai erano impazienti di vederne uno, lui si arrabbiò tantissimo.
La stessa cosa gli accadde tra i Turkana in Etiopia. Non c'è da
esserne orgogliosi.
Non voglio incolpare i siciliani del fatto che la conoscenza della
lingua italiana all'estero passi attraverso una parola con significato
certamente negativo. Anch'io sono siciliano e non mi sento colpevole
della fama della mafia nel mondo, ma non ne sono orgoglioso. Vorrei
tuttavia provare a giocare con questa parola, per vedere se in fondo
c'è un po' di confusione sull'attribuzione alla mafia di qualche
carattere tipico della Sicilia e di quella brutta categoria dello
spirito che alcuni scrittori siciliani si sono inventati, la sicilianità,
alla cui esistenza abbiamo finito per credere anche noi siciliani.
E questo è davvero imperdonabile.
Cosa significa "mafia"? Il Vocabolario della lingua italiana
di Nicola Zingarelli riporta, come origine etimologica la parola
araba mahjas che significa "millanteria". E con lo Zingarelli
è d'accordo il Devoto-Oli. D'accordo si dichiara anche il D'Anna,
ma con qualche riserva. E forse ha ragione ad avere qualche dubbio.
Riporto altre due possibili origini etimologiche dall'arabo: da
Ma afir, che era la stirpe nobiliare araba che occupò Palermo,
e da mu afah, dove mu significa "integrità", "forza",
"prosperità" e afah "proteggere" o "assicurare". Questo per
la gioia del nostro direttore Alberto Scarponi, dato il nome della
testata questa rivista.
In dialetto piemontese mafiun significa "uomo piccino" e
mentre nel dialetto fiorentino con mafia si vuol indicare
"povertà" o "miseria". Cosa c'entrino i piemontesi o i fiorentini
con la Sicilia non è dato sapere. Il Dizionario Enciclopedico
Italiano della Treccani addirittura ci dà qualche coordinata
topografica: la mafia indicherebbe la valentia, la superiorità,
la dote di coraggio e intraprendenza riferite agli abitanti del
quartiere palermitano del "Borgo". Che esagerazione! Si è vero che
i palermitani sono un po' spacconi e che gli abitanti del Borgo
sono i più palermitani dei palermitani, ma mi sembra che si stia
esagerando.
Zingarelli, Devoto, Oli avranno mai visto un mafioso? Forse no.
D'Anna che ha un nome di origine siciliana è più perplesso e allora
chiediamo un parere a qualcuno che di mafia se ne intendeva, anche
troppo. Tommaso Buscetta: in Cosa Nostra "non c'è mai stata quella
solennità, quella formalità che si vede nei film.... Mi viene da
ridere, certe volte, quando vado al cinema e trovo scene di questo
genere... Il fatto è che gli uomini d'onore molto difficilmente
sono loquaci. Parlano una loro lingua, fatta di discorsi molto sintetici,
di brevi espressioni che condensano lunghi discorsi. L'interlocutore,
se è bravo o se è anche lui uomo d'onore, capisce esattamente cosa
vuole dire l'altro. Il linguaggio omertoso si basa sull'essenza
delle cose. I particolari, i dettagli non interessano, non piacciono
all'uomo d'onore. Io stesso sono fatto in questo modo. Non sono
abituato a parlare più di quanto è necessario per dire quello che
devo dire. Nel corso della vita ho sviluppato una psicologia che
non mi fa comunicare facilmente e in modo spontaneo con gli altri.
E che mi fa detestare chi si esprime in modo prolisso e sopra le
righe". Quindi non pare che ai mafiosi piacciano i millantatori.
Ma leggiamo cosa dice Buscetta della spacconeria, parlando per contrasto
del mafioso Salvatore Greco: "Non aveva l'apparenza del mafioso.
Era piccolo, minuto, educato. Per questo veniva chiamato cicchiteddu,
uccellino. Non parlava con atteggiamento arrogante, 'sgarrista'.
Sembrava una persona come tutte le altre, gentile, discretamente
istruita, un po' dimessa". Quindi, almeno in questo caso ma anche
in tanti altri, l'apparenza mafiosa non corrisponde all'essenza
dell'essere mafioso.
Ne concludo di non poter essere d'accordo con questa origine etimologica,
perché è evidente l'incongruenza tra il significato suggerito dai
vocabolari e l'effettivo comportamento mafioso: il mafioso per definizione
non è persona che si vanti, anzi tende a non apparire, a non essere
visibile, a non esserci. Non c'è alcuna intenzione in me di suscitare
sorpresa. Contesto, è vero, una asseverata e diffusa analisi etimologica,
ma vorrei ricordare che della mafia abbiamo una conoscenza approfondita
soltanto a partire dal 1984, cioè da quando proprio Buscetta cominciò
a raccontare l'interiorità di quel mondo fino ad allora tanto sconosciuta
da non immaginarne neanche l'esistenza. Ecco perché, forse, Zingarelli,
Devoto, Oli e compagnia cadono nell'errore di scambiare l'apparenza
con l'essenza. "Se non ci fosse differenza tra l'apparenza e l'essenza,
non ci sarebbe la scienza", ricordava Marx. D'altra parte il cinema
sulla mafia ha creato un'immagine difficile a modificarsi, che magari
descrive un cambiamento nel modo di fare del mafioso quando egli
decide di rendersi visibile. Arlacchi descrive così questa situazione:
"La trasformazione della cultura e dell'ideologia del mafioso conseguente
al suo inserimento nei gangli più importanti della vita economica
permette al suo 'stile di vita' di presentarsi come modello da emulare".
Insomma il Corleone de Il Padrino è proprio un tipo in gamba, se
avessi vent'anni lo definirei un "figo" o il tipo "giusto" da frequentare.
Così nasce un mito e come si sa i miti si vendono, mentre la verità
dei fatti non interessa a nessuno.
A noi qui interessa giocare a scoprire altri significati delle
parole, perché, forse non ci diranno tutta la verità dei fatti,
ma almeno arricchiranno il loro rebus. In una poesia di Rafael Alberti
c'è scritto: "Ho tolto la maschera a una parola/ e muti siamo rimasti/
l'uno di fronte all'altra".
A chiedere a un arabo mediorientale cosa significa "mafia", lui
ci risponderebbe senza la minima incertezza: "Non c'è". La nostra
prima reazione sarebbe allora, naturalmente, di girarci per vedere
se sta parlando con qualcuno dietro di noi, ma vedendo che siamo
soli gli domanderemmo perplessi: "Cosa non c'è?". E lui serafico:
"Mafia? Non c'è". A quel punto noi, credendo di aver capito, cercheremmo
di far capire anche a lui che la mafia c'è, è vero che non si vede,
ma in effetti è presente, anzi è sempre presente, è la più presente.
Al che lui ci obietterebbe con calma: "Mi hai chiesto cosa significa
'mafia' in arabo? E significa proprio 'non c'è'". Così, mentre continuiamo
a pensare che nella realtà la mafia non si vede, ma c'è (eccome!),
abbiamo conquistato una nuova etimologia: la frase o espressione
dell'arabo parlato, e non di quello letterario, ma fi
ah significa "non c'è" o "non esiste" (con l'ah finale
con valore rafforzativo, come a significare "ho già detto", "ripeto").
Più esattamente: ma vuol dire negazione o relazione a qualcosa,
mentre fi indica l'"interno" o l'"attorno" ("in", "dentro", "a",
"presso" "per"). Con tale espressione si indica dunque una negazione
relativa all'interiorità di qualcosa o la sua non esistenza in un
contesto o in un ambiente. La frase ma fi ah è affine alla parola
araba mafisch, che significa "niente" o "nulla".
Nel greco antico, che ha influenzato profondamente la formazione
dei termini teoretici arabi, si trova che ma ha un significato
negativo e proviene dal sanscrito sma. Nel dialetto dorico
del greco antico questa parola è ancora presente come ma,
diventa invece mé nel più diffuso attico con il significato
di negazione o rovesciamento nel contrario. Se passiamo alla parola
greca fusis ("natura" o "qualità costitutiva" o "ordinamento
naturale" o "disposizione morale") si scopre che essa deriva dal
sanscrito fu (essere). Poiché il dialettico attico divenne
successivamente il greco ellenistico che nelle regioni dell'Asia
Minore entrò in contatto con la lingua araba, possiamo concluderne
che gli arabi abbiano elaborato il proprio concetto di "non essere"
o "nulla", quello che esprimono nella locuzione ma fi
ah, traendolo di lì. Se non volessimo scomodare i greci,
potremmo ritenere che il passaggio si avvenuto direttamente dal
sanscrito, dato che in tutte le lingue indoeuropee la radice f
è collegata sempre all'essere e alla natura delle cose.
Ricostruire poi il passaggio al dialetto siciliano è particolarmente
facile, visto che gli arabi hanno occupato per due secoli la Sicilia
e in particolare la parte dell'isola dove oggi è più forte la presenza
mafiosa, quella occidentale. Immaginiamoci come sia passata la parola
mafiah nelle lingue neolatine. Seguiamo un gruppo di soldati
normanni, impegnati in una rappresaglia contro la resistenza araba
durante la loro occupazione della Sicilia. (Qualche studioso si
ostina ancora oggi a ritenere che "mafia" sia proprio il termine
per indicare la resistenza araba all'invasione normanna, anche se
chiamare "invasione" l'arrivo di qualche centinaio di ragazzoni
del Nord-Europa è un'altra esagerazione. Non entriamo però in particolari,
perché finiremmo lontani. Torniamo ai nostri.) Bussano alla porta
di una casa, magari isolata nella campagna siciliana. Oggi nessuno
abiterebbe isolato nella campagna siciliana, ma allora erano gli
abitanti di quella casa a fare paura e non ad avere paura. Chiedono
nella loro lingua metà germanica e metà francese, dove sia il capofamiglia,
probabilmente un partigiano, un guerrigliero, un resistente, come
diremmo oggi. Ancora non sanno che è un mafioso, forse se lo avessero
saputo non avrebbero bussato. La risposta della moglie è: "Ma fi
ah". Noi sappiamo che significa: "vi ripeto che non c'è, che non
è qui, che non sta qui attorno". Ma i ragazzoni in divisa metallica
non lo sanno ed è l'ennesima volta che se lo sentono ripetere quel
giorno. Nessuno dice loro: "Er ist nicht da", oppure "Il n'est pas
ici". Evidentemente c'è qualcosa essi intendono che
si chiama mafia e che gira da quelle parti e che ha sgozzato il
loro compagno. "Sarà stata questa maledetta mafia", è la conclusione
più ovvia per chi è stato tirato su a salsicce di maiale, che a
mangiarle in quel caldo c'è da farsi scoppiare il fegato, prima,
ma poi anche il cervello. Una etimoglia che soddisferà certamente
anche i nostri studiosi della mafia: millanteria, coraggio e resistenza
qui stanno insieme, perché ci vuole coraggio a rispondere a dei
soldati, incazzati per l'assassino di un compagno, che il probabile
assassino non c'è.
Nessuna meraviglia inoltre che ci siano state le donne all'origine.
Infatti, la prima volta che la parola viene usata è in un documento
del 1658 ed è associata ad una donna che svolgeva pratiche magiche.
Dal 1855 fino al 1863, tuttavia, la parola "mafia" venne usata in
un'opera di teatro, I mafiusi de la Vicaria di Gaspare Mosca,
nell'accezione di "spavalderia". Questo significato è evidentemente
un persistente vezzo drammaturgico, se ricordiamo cosa diceva Buscetta
a proposito della rappresentazione cinematografica della mafia.
L'etnologo Giuseppe Pitré, da parte sua, sostiene che alla metà
dell'Ottocento era usata nei quartieri popolari per intendere "bellezza,
baldanza, orgoglio, graziosità, perfezione, eccellenza" (G. Pitré,
Usi, costumi, credenze e pregiudizi del popolo siciliano,
Firenze, Sansoni, 1939, II, pp. 289-290). Ecco da dove viene l'errore
del Dizionario Enciclopedico Italiano Treccani! Che il Pitré
usi la parola "mafia" in accezione positiva non deve scandalizzare,
visto il suo aperto "sicilianismo", che lo spingeva a frequentazioni
di cui oggi pochi si vanterebbero. Pitré parla, addirittura, della
mafia come del senso dell'essere proprio dei siciliani, della loro
natura. Per cui noi siciliani saremmo tutti mafiosi. Io, personalmente,
vorrei escludermi da questo circolo eletto. Benché c'è da dire che
le cose sono complicate: va ricordato infatti Vittorio Emanuele
Orlando, uomo politico siciliano liberale, presidente del Consiglio
del Regno d'Italia, che nel 1924, durante la campagna elettorale
che lo vedeva schierato al fianco dei fascisti, gridò in piazza,
durante un comizio: "Se essere mafioso significa essere un uomo
d'onore e di rispetto, allora io sono mafioso". Sincerità? Buscetta
in ogni caso dice di confermare l'appartenenza di Vittorio Emanuele
Orlando a Cosa Nostra. Comunque il nipote, Leoluca Orlando, attuale
sindaco di Palermo, ha riscattato questo inquietante passato del
nonno (e del padre, avvocato Cascio, difensore di molti mafiosi).
Non si può, però, escludere che all'epoca di Pitré la coscienza
popolare non fosse in grado di cogliere tutti gli aspetti del fenomeno
o, meglio, di discernere le degenerazioni del fenomeno che oggi
ne mostrano l'essenza sostanzialmente negativa. Né sorprenda la
adesione di Pitré a questi valori rovesciati, dove bello o orgoglioso
o eccellente è il violento o il delinquente. Nella storia della
mafia non mancano i casi di intellettuali
ad essa organici (per non parlare dei
politici organici).
Ma non è forse proprio l'essere il contrario di quanto è o esiste
una delle caratteristiche tipiche della mafia? Essa non appare,
ma c'è, non c'è, ma appare. La forza della mafia è stata anche il
suo farsi rappresentare da forme che non corrispondono in fondo
alla sua essenza e gli intellettuali sono rimasti affascinati da
questa apparenza, anche perché la realtà non era certamente attraente.
Come tutti sanno, gli intellettuali sono attratti dal fascino, dalla
suggestione e dalle mode.
Conclusione (rovesciamento logico e storico): la mafia in quanto
tale rappresenta il non essere dei siciliani.