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Parole a Passeggio: Mafia

Antonino Infranca

 

Qualcuno si è mai chiesto quale sia la parola italiana più famosa nel mondo? La più usata nelle lingue straniere? Oppure quella che più di ogni altra contraddistingue l'essere italiani agli occhi degli stranieri? Sicuramente possiamo considerare "ciao", "mamma", "spaghetti", "pizza" alcune delle parole italiane più conosciute all'estero. Come è noto, "ciao" viene dal dialetto veneziano e per esteso significa "schiavo", nel senso di "servo vostro". In ungherese, ancora oggi, si può salutare qualcuno dicendo "szervusz" (pronuncia: servus). Si vede che i veneziani arrivarono fin là.

Con la parola "spaghetti" gli italiani sono conosciuti negli USA. Gli spaghetti così come la pizza sono, in realtà, stati inventati dai cinesi. Ci rimane "mamma". Ma in realtà la parola italiana più conosciuta nel mondo non è "ciao" e nemmeno "spaghetti", "pizza" o "mamma", infatti se provate a chiederli a un cinese o a un arabo non le conoscerà. La parola italiana più usata nelle lingue straniere, in quasi tutte le lingue straniere, è di origine araba ed è mafia. Anche cinesi e arabi la conoscono. Un mio amico toscano mi racconta ancora che un giorno, viaggiando tra i Masai del Kenia, al momento di dichiarare di essere italiano, si sentì chiedere: "Mafioso?". Quei Masai erano impazienti di vederne uno, lui si arrabbiò tantissimo. La stessa cosa gli accadde tra i Turkana in Etiopia. Non c'è da esserne orgogliosi.

Non voglio incolpare i siciliani del fatto che la conoscenza della lingua italiana all'estero passi attraverso una parola con significato certamente negativo. Anch'io sono siciliano e non mi sento colpevole della fama della mafia nel mondo, ma non ne sono orgoglioso. Vorrei tuttavia provare a giocare con questa parola, per vedere se in fondo c'è un po' di confusione sull'attribuzione alla mafia di qualche carattere tipico della Sicilia e di quella brutta categoria dello spirito che alcuni scrittori siciliani si sono inventati, la sicilianità, alla cui esistenza abbiamo finito per credere anche noi siciliani. E questo è davvero imperdonabile.

Cosa significa "mafia"? Il Vocabolario della lingua italiana di Nicola Zingarelli riporta, come origine etimologica la parola araba mahjas che significa "millanteria". E con lo Zingarelli è d'accordo il Devoto-Oli. D'accordo si dichiara anche il D'Anna, ma con qualche riserva. E forse ha ragione ad avere qualche dubbio. Riporto altre due possibili origini etimologiche dall'arabo: da Ma afir, che era la stirpe nobiliare araba che occupò Palermo, e da mu afah, dove mu significa "integrità", "forza", "prosperità" e afah "proteggere" o "assicurare". Questo per la gioia del nostro direttore Alberto Scarponi, dato il nome della testata questa rivista.

In dialetto piemontese mafiun significa "uomo piccino" e mentre nel dialetto fiorentino con mafia si vuol indicare "povertà" o "miseria". Cosa c'entrino i piemontesi o i fiorentini con la Sicilia non è dato sapere. Il Dizionario Enciclopedico Italiano della Treccani addirittura ci dà qualche coordinata topografica: la mafia indicherebbe la valentia, la superiorità, la dote di coraggio e intraprendenza riferite agli abitanti del quartiere palermitano del "Borgo". Che esagerazione! Si è vero che i palermitani sono un po' spacconi e che gli abitanti del Borgo sono i più palermitani dei palermitani, ma mi sembra che si stia esagerando.

Zingarelli, Devoto, Oli avranno mai visto un mafioso? Forse no. D'Anna che ha un nome di origine siciliana è più perplesso e allora chiediamo un parere a qualcuno che di mafia se ne intendeva, anche troppo. Tommaso Buscetta: in Cosa Nostra "non c'è mai stata quella solennità, quella formalità che si vede nei film.... Mi viene da ridere, certe volte, quando vado al cinema e trovo scene di questo genere... Il fatto è che gli uomini d'onore molto difficilmente sono loquaci. Parlano una loro lingua, fatta di discorsi molto sintetici, di brevi espressioni che condensano lunghi discorsi. L'interlocutore, se è bravo o se è anche lui uomo d'onore, capisce esattamente cosa vuole dire l'altro. Il linguaggio omertoso si basa sull'essenza delle cose. I particolari, i dettagli non interessano, non piacciono all'uomo d'onore. Io stesso sono fatto in questo modo. Non sono abituato a parlare più di quanto è necessario per dire quello che devo dire. Nel corso della vita ho sviluppato una psicologia che non mi fa comunicare facilmente e in modo spontaneo con gli altri. E che mi fa detestare chi si esprime in modo prolisso e sopra le righe". Quindi non pare che ai mafiosi piacciano i millantatori. Ma leggiamo cosa dice Buscetta della spacconeria, parlando per contrasto del mafioso Salvatore Greco: "Non aveva l'apparenza del mafioso. Era piccolo, minuto, educato. Per questo veniva chiamato cicchiteddu, uccellino. Non parlava con atteggiamento arrogante, 'sgarrista'. Sembrava una persona come tutte le altre, gentile, discretamente istruita, un po' dimessa". Quindi, almeno in questo caso ma anche in tanti altri, l'apparenza mafiosa non corrisponde all'essenza dell'essere mafioso.

Ne concludo di non poter essere d'accordo con questa origine etimologica, perché è evidente l'incongruenza tra il significato suggerito dai vocabolari e l'effettivo comportamento mafioso: il mafioso per definizione non è persona che si vanti, anzi tende a non apparire, a non essere visibile, a non esserci. Non c'è alcuna intenzione in me di suscitare sorpresa. Contesto, è vero, una asseverata e diffusa analisi etimologica, ma vorrei ricordare che della mafia abbiamo una conoscenza approfondita soltanto a partire dal 1984, cioè da quando proprio Buscetta cominciò a raccontare l'interiorità di quel mondo fino ad allora tanto sconosciuta da non immaginarne neanche l'esistenza. Ecco perché, forse, Zingarelli, Devoto, Oli e compagnia cadono nell'errore di scambiare l'apparenza con l'essenza. "Se non ci fosse differenza tra l'apparenza e l'essenza, non ci sarebbe la scienza", ricordava Marx. D'altra parte il cinema sulla mafia ha creato un'immagine difficile a modificarsi, che magari descrive un cambiamento nel modo di fare del mafioso quando egli decide di rendersi visibile. Arlacchi descrive così questa situazione: "La trasformazione della cultura e dell'ideologia del mafioso conseguente al suo inserimento nei gangli più importanti della vita economica permette al suo 'stile di vita' di presentarsi come modello da emulare". Insomma il Corleone de Il Padrino è proprio un tipo in gamba, se avessi vent'anni lo definirei un "figo" o il tipo "giusto" da frequentare. Così nasce un mito e come si sa i miti si vendono, mentre la verità dei fatti non interessa a nessuno.

A noi qui interessa giocare a scoprire altri significati delle parole, perché, forse non ci diranno tutta la verità dei fatti, ma almeno arricchiranno il loro rebus. In una poesia di Rafael Alberti c'è scritto: "Ho tolto la maschera a una parola/ e muti siamo rimasti/ l'uno di fronte all'altra".

A chiedere a un arabo mediorientale cosa significa "mafia", lui ci risponderebbe senza la minima incertezza: "Non c'è". La nostra prima reazione sarebbe allora, naturalmente, di girarci per vedere se sta parlando con qualcuno dietro di noi, ma vedendo che siamo soli gli domanderemmo perplessi: "Cosa non c'è?". E lui serafico: "Mafia? Non c'è". A quel punto noi, credendo di aver capito, cercheremmo di far capire anche a lui che la mafia c'è, è vero che non si vede, ma in effetti è presente, anzi è sempre presente, è la più presente. Al che lui ci obietterebbe con calma: "Mi hai chiesto cosa significa 'mafia' in arabo? E significa proprio 'non c'è'". Così, mentre continuiamo a pensare che nella realtà la mafia non si vede, ma c'è (eccome!), abbiamo conquistato una nuova etimologia: la frase o espressione dell'arabo parlato, e non di quello letterario, ma fi ah significa "non c'è" o "non esiste" (con l'ah finale con valore rafforzativo, come a significare "ho già detto", "ripeto"). Più esattamente: ma vuol dire negazione o relazione a qualcosa, mentre fi indica l'"interno" o l'"attorno" ("in", "dentro", "a", "presso" "per"). Con tale espressione si indica dunque una negazione relativa all'interiorità di qualcosa o la sua non esistenza in un contesto o in un ambiente. La frase ma fi ah è affine alla parola araba mafisch, che significa "niente" o "nulla".

Nel greco antico, che ha influenzato profondamente la formazione dei termini teoretici arabi, si trova che ma ha un significato negativo e proviene dal sanscrito sma. Nel dialetto dorico del greco antico questa parola è ancora presente come ma, diventa invece nel più diffuso attico con il significato di negazione o rovesciamento nel contrario. Se passiamo alla parola greca fusis ("natura" o "qualità costitutiva" o "ordinamento naturale" o "disposizione morale") si scopre che essa deriva dal sanscrito fu (essere). Poiché il dialettico attico divenne successivamente il greco ellenistico che nelle regioni dell'Asia Minore entrò in contatto con la lingua araba, possiamo concluderne che gli arabi abbiano elaborato il proprio concetto di "non essere" o "nulla", quello che esprimono nella locuzione ma fi ah, traendolo di lì. Se non volessimo scomodare i greci, potremmo ritenere che il passaggio si avvenuto direttamente dal sanscrito, dato che in tutte le lingue indoeuropee la radice f è collegata sempre all'essere e alla natura delle cose.

Ricostruire poi il passaggio al dialetto siciliano è particolarmente facile, visto che gli arabi hanno occupato per due secoli la Sicilia e in particolare la parte dell'isola dove oggi è più forte la presenza mafiosa, quella occidentale. Immaginiamoci come sia passata la parola mafiah nelle lingue neolatine. Seguiamo un gruppo di soldati normanni, impegnati in una rappresaglia contro la resistenza araba durante la loro occupazione della Sicilia. (Qualche studioso si ostina ancora oggi a ritenere che "mafia" sia proprio il termine per indicare la resistenza araba all'invasione normanna, anche se chiamare "invasione" l'arrivo di qualche centinaio di ragazzoni del Nord-Europa è un'altra esagerazione. Non entriamo però in particolari, perché finiremmo lontani. Torniamo ai nostri.) Bussano alla porta di una casa, magari isolata nella campagna siciliana. Oggi nessuno abiterebbe isolato nella campagna siciliana, ma allora erano gli abitanti di quella casa a fare paura e non ad avere paura. Chiedono nella loro lingua metà germanica e metà francese, dove sia il capofamiglia, probabilmente un partigiano, un guerrigliero, un resistente, come diremmo oggi. Ancora non sanno che è un mafioso, forse se lo avessero saputo non avrebbero bussato. La risposta della moglie è: "Ma fi ah". Noi sappiamo che significa: "vi ripeto che non c'è, che non è qui, che non sta qui attorno". Ma i ragazzoni in divisa metallica non lo sanno ed è l'ennesima volta che se lo sentono ripetere quel giorno. Nessuno dice loro: "Er ist nicht da", oppure "Il n'est pas ici". Evidentemente c'è qualcosa – essi intendono – che si chiama mafia e che gira da quelle parti e che ha sgozzato il loro compagno. "Sarà stata questa maledetta mafia", è la conclusione più ovvia per chi è stato tirato su a salsicce di maiale, che a mangiarle in quel caldo c'è da farsi scoppiare il fegato, prima, ma poi anche il cervello. Una etimoglia che soddisferà certamente anche i nostri studiosi della mafia: millanteria, coraggio e resistenza qui stanno insieme, perché ci vuole coraggio a rispondere a dei soldati, incazzati per l'assassino di un compagno, che il probabile assassino non c'è.

Nessuna meraviglia inoltre che ci siano state le donne all'origine. Infatti, la prima volta che la parola viene usata è in un documento del 1658 ed è associata ad una donna che svolgeva pratiche magiche. Dal 1855 fino al 1863, tuttavia, la parola "mafia" venne usata in un'opera di teatro, I mafiusi de la Vicaria di Gaspare Mosca, nell'accezione di "spavalderia". Questo significato è evidentemente un persistente vezzo drammaturgico, se ricordiamo cosa diceva Buscetta a proposito della rappresentazione cinematografica della mafia. L'etnologo Giuseppe Pitré, da parte sua, sostiene che alla metà dell'Ottocento era usata nei quartieri popolari per intendere "bellezza, baldanza, orgoglio, graziosità, perfezione, eccellenza" (G. Pitré, Usi, costumi, credenze e pregiudizi del popolo siciliano, Firenze, Sansoni, 1939, II, pp. 289-290). Ecco da dove viene l'errore del Dizionario Enciclopedico Italiano Treccani! Che il Pitré usi la parola "mafia" in accezione positiva non deve scandalizzare, visto il suo aperto "sicilianismo", che lo spingeva a frequentazioni di cui oggi pochi si vanterebbero. Pitré parla, addirittura, della mafia come del senso dell'essere proprio dei siciliani, della loro natura. Per cui noi siciliani saremmo tutti mafiosi. Io, personalmente, vorrei escludermi da questo circolo eletto. Benché c'è da dire che le cose sono complicate: va ricordato infatti Vittorio Emanuele Orlando, uomo politico siciliano liberale, presidente del Consiglio del Regno d'Italia, che nel 1924, durante la campagna elettorale che lo vedeva schierato al fianco dei fascisti, gridò in piazza, durante un comizio: "Se essere mafioso significa essere un uomo d'onore e di rispetto, allora io sono mafioso". Sincerità? Buscetta in ogni caso dice di confermare l'appartenenza di Vittorio Emanuele Orlando a Cosa Nostra. Comunque il nipote, Leoluca Orlando, attuale sindaco di Palermo, ha riscattato questo inquietante passato del nonno (e del padre, avvocato Cascio, difensore di molti mafiosi).

Non si può, però, escludere che all'epoca di Pitré la coscienza popolare non fosse in grado di cogliere tutti gli aspetti del fenomeno o, meglio, di discernere le degenerazioni del fenomeno che oggi ne mostrano l'essenza sostanzialmente negativa. Né sorprenda la adesione di Pitré a questi valori rovesciati, dove bello o orgoglioso o eccellente è il violento o il delinquente. Nella storia della mafia non mancano i casi di intellettuali ad essa organici (per non parlare dei politici organici).

Ma non è forse proprio l'essere il contrario di quanto è o esiste una delle caratteristiche tipiche della mafia? Essa non appare, ma c'è, non c'è, ma appare. La forza della mafia è stata anche il suo farsi rappresentare da forme che non corrispondono in fondo alla sua essenza e gli intellettuali sono rimasti affascinati da questa apparenza, anche perché la realtà non era certamente attraente. Come tutti sanno, gli intellettuali sono attratti dal fascino, dalla suggestione e dalle mode.
Conclusione (rovesciamento logico e storico): la mafia in quanto tale rappresenta il non essere dei siciliani.


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