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Emilio Villa: Tentazione e temibilità del linguaggio
 

di Cecilia Bello

 

Trattandosi di un autore come Emilio Villa – artista ed intellettuale eslege, sovvertitore degli istituti storiografici dati, dispersore ostinato delle sue opere e delle loro stesse possibili tracce – potrebbe apparire imposizione artificiosa, quando non esterna prevaricazione, il voler ricostruire e fissare cronologie. Eppure una scansione temporale delle opere, una loro collocazione, sia essa seriale o sincronica, si rivela ad ogni buon conto di utilità, pur con i margini d’approssimazione che il lavoro depistante di Villa impone necessariamente di prevedere.
Le due raccolte, Verboracula scritta in latino e fino ad oggi largamente inedita, e le mûra di t;éb;é in greco antico con traduzione d’autore, sono apparse a stampa entrambe nel 1981, l’una in veste decisamente parziale – trentasei testi su settantanove – nel numero 7 della rivista «Tauma», l’altra in un’edizione curata dalla Galleria Multimedia di Brescia, che un anno prima aveva ospitato in esposizione le dieci lastre di plexiglas sulle quali Villa aveva inciso i testi greci. Fatti salvi questi dati oggettivi (cui si deve aggiungere la notizia di un’altra coeva ma più scarsamente diffusa edizione di le mûra di t;éb;é curata dalla Galleria Artein di Roma), le poche indicazioni cronologiche espressamente inserite da Villa, a parte quella generale in epigrafe che data Verboracula 1929-1980, riguardano soltanto alcuni testi di questa raccolta, in sé piuttosto rari e per la gran parte, con ogni probabilità, retrodatati. Malgrado questi sparsi componimenti portino in calce date comprese tra il 1929 e il 1934, è verosimile che essi risalgano ad anni più recenti, quando ormai Villa aveva consumato e radicalizzato il proprio distacco dalla lingua italiana, abbandonata per più complessi, ibridati coacervi di idiomi(1) . Con gli anni Cinquanta Villa sperimenta estensivamente la scrittura in altre lingue: il francese, l’inglese, il provenzale, e uno screzio di spagnolo nelle 17 variazioni su temi proposti per una pura ideologia fonetica, pubblicate a Roma nel 1955 in una cartella contenente opere di Alberto Burri; e poi ancora il francese straordinariamente mescidato, innestato, ortograficamente e foneticamente giocato con spregiudicatezza alla ricerca di una compresente molteplicità di significati in Heurarium, apparso a Roma per le edizioni Ex nel 1961, e comprendente anche due testi in portoghese. Tutta la gran parte della sperimentazione poetica villiana si è poi svolta principalmente sotto il segno della sua personale – affettiva e teorica – avversione alla lingua di una «Ytalya»(2) niente affatto condivisa. Ha rifiutato l’italiano ed ha fatto ricorso a lingue diverse, morte e vive, adottate in senso antitradizionale, plasmate alla stregua di materiali scevri da rigidità storiografiche, eppure, sempre, lingue fatte tra loro interagire con grande sapienza etimologica.
La consuetudine di Villa con il latino e il greco risale certamente alla sua primissima adolescenza, agli anni degli studi seminariali, proprio quel periodo tra il 1929 e il 1934 cui Villa attribuisce alcuni testi di Verboracula. Per una corretta e più completa discussione delle reali o possibili date di stesura di questi testi, credo comunque che si debba tenere conto di alcune possibili “spie” stilistiche. Le poesie che riportano in calce le date più lontane si rivelano – in termini sintattico-lessicali, sonori e ritmici – di impianto in certo senso più classico, o quanto meno più classico rispetto agli altri testi della raccolta. Alle precedenti osservazioni devo aggiungere che è possibile addirittura riconoscere alcuni esametri ed alcune clausole ritmiche tipiche della versificazione o dell’oratoria latine. In Divinum scelus (datato 1929), ad esempio, e mi limito a citare gli esametri dattilici più facilmente riconoscibili e “piani”, compaiono: «mûtà lòcôs tërr‚ cœlûmque¹ët têmpòrà vôlvëns», «trânsvòlàt êt lïngˆs iàcùlântür sîdèrà flôrës», esametri, entrambi, di percepibile classicità, virgiliani o oraziani nella clausola finale in cui ictus ed accenti coincidono, secondo una tendenza pressoché costante nel periodo aureo della letteratura latina. Ma altri esametri ancora è possibile individuare in Corpus ae[s]tatis XIX ed in Dies ae[s]tatis XIX (1933), addirittura quattro sui sei versi che costituiscono Tunc truncus (1930), ed altre clausole ritmiche anche in Pensilina (1932), elementi che possono essere intesi come rivelatori di una armonia e letterarietà di misura o di respiro. Forse, queste cadenze prosodiche francamente classiche, negli altri testi di Verboracula rarissime o inesistenti, unite ad una minore sperimentalità nel trattamento di sintagmi e lessemi, potrebbero portare a non escludere recisamente una datazione “alta”, o potrebbero quanto meno indicare questi testi come i più antichi, i primi scritti in latino da Villa. E comunque, al di là delle effettive date di stesura, è significativo che a quegli anni Villa abbia voluto riallacciarsi, dichiarando apertamente in epigrafe all’opera la stretta vicinanza tra il sermo verboraculare e il suo sermo adolescenziale. La raccolta, questa «sancta verborum satura, satura atque nisus mentis», appare «non tanto accordata all'uso antico» del latino, quanto piuttosto «quasi uguale» al suo idioletto giovanile, quando per studio o per goliardia parlava latino dal mattino alla sera: «suppar est sermonis adolescentis mei in ecclesiastico dioceseos mediolanensis seminarii». Come a rivendicare, all’interno di una già peculiarissima, e per certi fruitori forse controintuitiva, scelta della lingua latina, una ulteriore straniante connotazione: non un latino classico e trasparente si ha in questi versi licenziati nel 1981, bensì il latino dell’uso privato, colloquiale, informale di un vivace seminarista lombardo nostro contemporaneo, per assiduità di studio tanto familiarizzato con questa lingua da piegarla creativamente a forme inedite.
Sebbene in un autore qual è Villa, studioso e traduttore di idiomi scomparsi come il greco antico, l’ugaritico, l’accadico, si possa ipotizzare una frequentazione del latino scritto costante negli anni (due altri testi sono datati 1969), probabilmente gran parte dei Verboracula può essere collocata tra la fine degli anni Settanta ed i primi anni Ottanta, momento di palese e direi strutturale ricorso al dettato oracolare in lingue morte. Del 1979 è Geometria Reformata, straordinario, lungo testo latino agitato da furore divinatorio e steso a mano direttamente sulle pagine bianche di un omonimo catalogo di tavole di Claudio Parmiggiani(3); degli anni 1980-1984 sono le Sibyllae, un centinaio di testi(4) con forte valenza enigmatica, stesi in un latino di concrezione icastica e plurisignificante al modo degli antichi responsi.
Queste diverse opere, tra le quali va considerata la contemporanea versificazione greca di le mûra di t;éb;é, scrittura, anch’essa, profetico-escatologica, mostrano alcuni caratteri comuni che permettono di leggere la produzione villiana tra la metà degli anni Settanta e la metà degli Ottanta sotto il segno di una rinnovata e problematica ricerca/discussione delle origini, una ricerca che per il tramite del linguaggio – e delle sue insidie – mostra le ferite, le possibili trappole del rapporto dell’uomo con il divino. La complessa tematica delle origini è stata affrontata da Villa, negli anni, con una certa ricorrenza: accanto all’interesse per le fasi aurorali di certe culture mediterranee e minorasiatiche, per i loro testi mitologici e sacri (la traduzione di una tavoletta del poema cosmogonico babilonese-accadico Enuma eliš, la traduzione dell’Odissea(5)), Villa si è occupato anche dell’arte dell’uomo primitivo, con particolare attenzione al pantheon figurale preistorico ed agli aspetti rituali; ha quindi tradotto – discutendo e volutamente eludendo «il teologumeno della rivelazione»(6)– il Genesi, purtroppo ancora inedito, malgrado la persistente mancanza di una versione a-confessionale e laica della Bibbia, che dia conto sensibilmente, come quella di Villa ha inteso fare, di alcune possibili suggestioni da testi fenicio-cuneiformi, e delle stratificazioni del testo in quanto «spontanea registrazione ed uso di temi che funzionavano come apparato dei culti, dei riti, delle ricorrenze, delle azioni liturgiche, totemiche, religiose, al fine di ottenere il ritmo e la continuità delle energie che servono a stabilizzare e sdrammatizzare l’esistenza, il rango del divino, la passione umana, il ruolo delle divinità di ogni tribù o nazione»(7) . Villa ha poi dedicato numerosi testi poetici al tema delle origini innestato nell’essenza prima del linguaggio – basti, fra tutti, la ben nota Linguistica che esordisce con «Non c’è più origini. Né Né si può sapere se. / Se furono le origini e nemmeno»(8)–, ha realizzato alcuni «oggetti di poesia», tra cui le Idrologie (in collaborazione con Cegna e Craia) che stringono insieme diversi aspetti della questione: teogonia, cosmogonia, logos originario. Sempre Villa ha continuato a riferirsi problematicamente al linguaggio: ad esso ha guardato come ad un concreto veicolo di stilemi o lacerti culturali nelle diverse trasmigrazioni o sopravvivenze etimologiche tra una civiltà ed un’altra; ma con esso si è anche aporeticamente confrontato: in certo senso ha tentato – sfidato, quasi – il linguaggio sul terreno della sua presunta derivazione divina.
Tanto Verboracula, quanto le mûra di t;éb;é mettono in scena primariamente la lingua stessa su cui si fondano, la sua eccedenza, il suo evidentissimo, estroverso scarto dalla norma. E ripropongono vistosamente il problema “costitutivo” del linguaggio in quanto verbo che dal sacro procede e s’incarna, e al sacro tendenzialmente tornerebbe ad attingere, se non fosse costretto a patire la sua ormai palese inadeguatezza a ricostruire questo rapporto. Il modo che ha Villa di trattare il linguaggio – l’impeto divinatorio che rende oscuro il suo dettato, le proiezioni polisemiche, il livello a volte beffardo dell’ambiguitas – rivela la distanza che separa senza possibilità d’appello il linguaggio dall’essere delle cose. Distanza dolorosa e paradossale, se si considera quanto, almeno in certe durevoli culture del Mediterraneo, il linguaggio sia stato collegato alla genesi stessa dell’universo, al vero essere, quindi, delle cose. La scelta di una scrittura che rievochi le antiche divinazioni e si proponga in forme di difficile lettura, scopertamente enigmatiche o sibilline, implica la negazione o lo sbarramento del passaggio transitivo del significato nel significante. Enigma ed oracolo procedono ad un tempo sul doppio, ossimorico registro dell’esibizione e della reticenza, della rivelazione epifanica e dell’occultamento. Giocando sulla (e contro la) trasparenza semantica, enigma ed oracolo tendono ad esibire il significante e a manipolare, velare o propriamente dissimulare e nascondere il significato. E nel far questo portano in scena il dramma del linguaggio incapace di comprendere – anche nel senso fisico di contenere – le cose.
Villa che scrive negli spazi bianchi di Geometria Reformata su ispirazione della omerica dea della sciagura: «ex Labiis / deae ATHS / omnia accepi / omnia traham / quae novi quae scripsi», Villa che scrive il discorso denso, la satura multivaria di Verboracula, ricca di registri diversi e di “primizie”, Villa che scrive le Sibyllae dove càpita, affidandole al caso appena nate autografe su cartoncini di riporto, ed infine il Villa che graffia su trasparenti lastre di plexiglas versi in greco antico, e offre, almeno nell’allestimento originale di le mûra di t;éb;é, una traduzione italiana scritta su un foglio di carta strappato in pezzi poi mescolati e chiusi in una bustina di plastica trasparente attaccata all’angolo della lastra, è certamente un poeta che usa in modo inquieto e provocatorio il suo strumento espressivo, che non vuole tanto percorrere la strada della persuasione quanto quella dell’enunciazione enigmatica o oracolare, enunciazioni che sempre vanno decrittate, che minacciano e/o promettono un premio o una ricompensa a chi si provi ad interpretarle. Si tratta comunque di una scelta forte da parte di Villa: l’enigma(9), domanda rivolta all’uomo da un dio o da un essere spaventoso, implicava il più delle volte una secca e impietosa alternativa tra vita, in caso di risposta corretta, o morte, in caso di mancata o erronea soluzione; e l’oracolo, vaticinio richiesto dal supplice, aveva un immenso potere perlocutorio e fascinante, un valore potenzialmente esemplare poiché predizione/determinazione del destino. L’enigma funziona come una sfida e come una trappola linguistica, l’oracolo si propone come concessione, dono di un dio, risposta del dio ad una domanda umana, eppure anch’esso può funzionare come una trappola, può essere congegnato in modo tanto ambiguo da diventare, se male interpretato, causa di rovina inesorabile per più generazioni. Emblematica di questa “terribilità” della parola è certamente la raccolta le mûra di t;éb;é, che nella sua implicita ricchezza di rimandi culturali non può non rievocare sia la Sfinge che tormentava i tebani con il famoso enigma sciolto da Edipo sia l’oracolo di Delfi, il più noto e venerato santuario di Apollo, tante volte interrogato dai sovrani di Tebe, e tante volte, per la sottile ambiguità delle sue risposte, frainteso o non rispettato. E basti, per tutti, l’esempio dello sciagurato Laio e del suo non meno sfortunato figlio Edipo, figura rappresentativa del rapporto spietatamente dubbio ed equivoco che corre tra l’uomo e la parola: Edipo, in perfetta buona fede, da un lato male interpreta il responso dell’oracolo di Delfi, dall’altro risolve con abilità l’enigma della Sfinge, provocandone il suicidio e liberando i tebani dal suo flagello. Ma l’umana reazione di Edipo alle due temibili manifestazioni della parola – oracolare ed enigmatica – non lo salva, anzi lo precipita nel suo fato drammatico e paradossale di uomo giusto e pio macchiatosi di parricidio e di incesto.
Villa che di continuo si richiama ad Apollo tremendo arbitro di parole, che ci annuncia di aver scritto i versi della Geometria Reformata «lauri / fumis / incitatus» come le antiche sacerdotesse del dio, pronuncia un discorso non aperto, né diretto, né lineare; predilige una forma di plurivocità o di obliquità dell’enunciato, e non a caso Lossia, “L’Obliquo”, era il soprannome che i greci in rare ma significative occasioni davano ad Apollo, il dio che incarnava la potenza della parola nella duplice accezione, poetica e predittoria.
Nella loro aprioristica, costitutiva distanza dalla norma linguistica, Verboracula e le mûra di t;éb;é, hanno a che vedere, fin nelle loro minime componenti linguistiche, direttamente con il problema della verità e della contingenza: la parole cachée di Villa, il “possibile” adempimento di un destino ambiguamente profetizzato, la “possibile” giustezza o conformità dell’arcano senso di un enigma, implicano per contro due concetti eraclitei: l’impossibilità di fissare, nell’ininterrotto fluire del tutto, una qualsivoglia verità, e la tendenza della natura, della physis ad occultarsi. Sebbene l’edizione a stampa di le mûra di t;éb;é riportasse, già nel 1981, la versione italiana dei testi greci, credo non vada dimenticata la prima, emblematica volontà di Villa di stendere su una superficie trasparente i versi greci, e all’opposto di chiudere entro un contenitore trasparente i frammenti rimescolati della versione italiana corrispondente. È stata negata, nel caso dell’esposizione delle lastre, una intelligibilità lineare e completa del testo italiano. All’alba degli anni Ottanta, è principalmente alle lingue morte, e alla loro programmatica e franca inattualità di strumenti in disuso, che Villa ha affidato, con movenze inedite o rinnovate, la propria voce poetica.
Rispetto a le mûra di t;éb;é, che è raccolta più breve, compatta e monocorde, Verboracula mostra ora nella sua interezza una notevole molteplicità di registri che toccano direttamente il livello fisico del linguaggio: dall’ironia sottile alla soluzione apertamente ludica, dalle cadenze di litania ai testi visivi, disegnati da linee e parole, dalla fiaba mitica rivisitata e corretta con implicazioni erotiche o misteriosofiche, alla dissacrazione della parola o della verità imposta dal dogma, dall’eco del dramma di Narciso, alla proposta d’interpretazione filologico-semantica – veramente in bilico sul margine del sacro – dei nomi di antichissime divinità. Verboracula si apre con un testo in caratteri maiuscoli, sorta di iscrizione epigrafica, lapidea in cui sùbito spiccano alcuni termini emblematici e della raccolta e di tutta la poesia villiana: «OS APERIAT», lo iato, l’apertura della bocca per la possibile emissione della voce; le radici materne occulte e sanguigne «MATRIS DECYPHRET / VENTREM», e la decifrazione, la decrittazione dei segni; una ambigua insolescenza della parola, «VERBI INSOLESCENTIS», una parola “che esce dal consueto e si fa insolente”, oppure, anche, una parola “che si rafforza e cresce”, nell’accezione del verbo insolesco usata da Tertulliano in riferimento a vox. Già questo primo testo rivela una grande ricchezza di rimandi culturali: il riferimento all’eone, «OSSUARIA AEONIS ORA», chiama ancora in causa Tertulliano e lo gnosticismo, ed introduce anche il tema del linguaggio quale tramite tra l’umano e il divino (tale era la caratteristica dell’eone nel pensiero gnostico). Il testo si chiude poi nel segno di un’affermazione problematica: l’azione del seppellire o dello scavare, «FODERE», l’inquietante immagine del cenotafio costruito al discorso, al sermo, un monumento sepolcrale vuoto, di funzione esclusivamente celebrativa: «COENOTAPHION FODERE QUEAM / SERM ONIS». Il latino di Villa rivela immediatamente, fin da questo testo, caratteri propri: l’ortografia è piegata ad una forzata caratterizzazione dell’etimologia, la lingua appare connotata da veri o falsi grecismi, che concorrono comunque a dare solennità, ad esaltare la patina arcaica da un punto di vista sia fonetico sia grafico. Sempre in questo primo testo che sembra assolvere alla funzione di vestibolo, di protasi all’intera raccolta, già sono visibili almeno un «COENOTAPHION» con dittongo eccessivo, iperlatinizzante, ed un «DECYPHRET» non lontano dal costituire un dÿnaton etimologico, dal momento che pare congiungere “cifra”, che deriva dall’arabo sifr, con l’antica sonorità greca del verbo krÿptw, “nascondo”. Villa sembra procedere nel senso di una ipercaratterizzazione latina o greca; per questo compaiono forme con aspirazioni forzate e non etimologiche come «vherba» (peraltro ricorrente anche in Geometria Reformata), o forme non attestate nella classicità come ad esempio «lacryma», in Holocaustulum eros, che risalendo ancor più indietro del latino arcaico lacruma, rievoca etimologicamente il corrispondente greco lakruma.
Ma moltissime sono, in termini più lati, le particolarità linguistiche di Verboracula: scelte lessicali, varianti morfologiche, costrutti sintattici, andamenti ritmici sono tutt’altro che classici; se di una certa classicità latina è possibile parlare, questa riguarda solo innesti brevissimi, sintagmi o clausole minime (ad esclusione, com’è ovvio, degli esametri di cui sopra si diceva). Possiamo agevolmente individuare ablativi assoluti, un grande uso di participi presenti e futuri, alcuni congiuntivi esortativi o ottativi, forme interrogative retoriche, addirittura qualche lacerto d’autore – o forse eco, volontaria o involontaria è difficile a dirsi –, come nel caso dell’espressione «in piscem desinat», di Ultima ora, che inverte i termini di quella usata da Orazio nell’Ars poetica (v. 4, «desinat in piscem») a proposito dell’opera d’arte non unitaria che “finisce male”, e divenuta poi proverbiale. Il latino di Villa permane ibridato, impuro: presenta forme latine impossibili per motivi geografici o cronologici o etimologici, o anche latinizzazioni di termini moderni come «aztequiis», «neuroelectricum», «electromagneticum», «citrullum»(10); termini innestati l’uno nell’altro come «congingivalia», «libedibidinis», «vulvlabilintus», «vulvnus» (tra “vulva” e “ferita”, vulnus), neologismi da parole composte, semplicemente unite tra loro come «imagocrux», «cruxgremii», «homotopo»; diminutivi autentici o neoformati secondo un modo della tarda latinità come «macula», «bacula», «vacula», «bricula».
Il latino di Verboracula accoglie ancora un’ultima scaglia di italiano in Theatrulum, «intuta progenies, cari bambini / siete invitati ad assistere buoni / allo spettacolo ‘Lacus Iactatus / Contrariorum’»; presenta un gran numero di grecismi, o di dirette e semplici traslitterazioni dal greco in caratteri alfabetici latini («eikon», «anthropophagae», «ymenoptera»), o anche di sintagmi greci tout court («oh! tÁj melaina / ntux selanhj», “oh! il disco nero della luna”, «tÁj galaqhnÁj kÒrhj», “della fanciulla lattante”, In Helicone); poi, forse non a caso in un testo che ha per titolo Holocaustulum eros, ricorre anche all’ebraico, come a rafforzare, a tradurre in sonorità ancora più arcaiche un sintagma latino: «a magnis aquis, mimmaim rabbím», “da molte acque”, ma anche, forse, a rendere linguisticamente più tangibile un possibile e tremendo rimando storico allo sterminio: «urge ad fauces tempora monstruosae memoriae». In questa raccolta affiora anche la straordinaria conoscenza che Villa ha delle scritture e culture mesopotamiche, e di quella sumerica in particolare: quattro poesie intitolate a divinità antiche – Artemis, Hercules, Hermes, Leto – sono fondate e ruotano intorno ad ipotesi etimologiche di ascendenza sumerica. Villa propone una lettura in sumero delle sillabe che costituiscono i nomi delle divinità, in uno stretto legame, ancora tra lingua e divinità, quasi alla ricerca di una eventuale origine linguistica delle figure divine e dei caratteri a loro attribuiti. I nomi degli antichi antropomorfi oggetti di culto vengono così proposti ad una lettura “in sumero”, «leges sumerice» (“leggerai in sumero”). Il nome Artemis viene scomposto in una sequenza di logogrammi sumerici e di loro equivalenti accadici, che ricostruiscono, tradotti poi in latino, alcune caratteristiche per tradizione proprie della dea ed altre nuove ne ipotizzano:

leges sumerice arade . me . dim . sa

ara4, seu akkadice namru, h.e. splendescens

splendit splendida splenduit

aut sîtu, h.e. exiens (luna) in coelo,

exitus (coeli) luna

de3, seu la’abu, h.e. fax, lucens falx,

flamma lucis ignis

me, seu šamšu, h.e. coelum et ordo coeli

dim, seu pi, h.e. facies

ša, seu urû, h.e. vulva

Interpretazione etimologica, direi, piuttosto che semplice ricerca o ipotesi di un nome: se «ara4» (o il suo corrispondente accadico «namru») significa “to shine”(11), Villa finisce per dilatarne il senso in una annominazione, una ulteriore figura etimologica, ovviamente allitterante: «h.e. [hoc est, “cioè”] splendescens / splendit splendida splenduit». Analogamente «me» che indica le forze soprannaturali, che significa “divine decree” o “the phenomenal area of a deity’s power”, è reso da Villa con un puntuale ed insieme poeticamente vasto «coelum et ordo coeli». Dagli ulteriori attributi scaturisce poi, nella seconda parte di questo testo, un dettato latino per nulla rarefatto, ma concreto e fitto, acceso di bagliori, cromatismi e rapidi trapassi dinamici, una tessitura complessa con echi di classicismi, basti per tutti «crinibus micans extinguitur equus», assai vicino all’espressione virgiliana «micat equus auribus». Come avviene per Artemis, anche il nome Leto (Latona, madre di Artemide e di Apollo), viene fatto risalire al sumero, a «NI4 TIL utpote quae / dingir NINTILLA», dove dingir è la parola sumerica, frequentissima nelle iscrizioni e nei testi, che significa “dio”, e «NINTILLA» viene poi interpretata così: «h.e. Domina Potnia Vitae / [...] h.e. Palmula Ridens in Ara / h.e. Costa Telum Sanguen Lilium», una sequenza, quest’ultima, in cui mi pare si possa riconoscere un timbro cristologico: “Costato, Lancia, Sangue, Giglio”. E nell’ultima parte del testo – nello spessore e nella varietà di rimandi culturali tipici dei testi villiani – una sequenza di allitterazioni sulla liquida “l” può rievocare una leggenda minore che vuole la dea trasformata in lupa da Zeus: «et sectilis lupus regnet inultus / [...] Leto scugnitia laeta / subacidi piscis pondere / ablato, Leto adlupata / lusu spasmodico levi / lustralem feram sumerice / mordet».
Anche le altre due poesie intitolate ciascuna ad un dio – dingir –, Hercules e Hermes, giocano su due livelli, una divisione sillabica grafica delle parole latine, ed una possibile ipotesi di traduzione, «trans lat io / sum er ice», che chiama in causa ancora altre divinità mesopotamiche: Ennugi, nell’Hermes villiano «EN . NU. GI.», è antichissima divinità delle acque nominata in una tavoletta assira rinvenuta a Tel-el-Amarna e riguardante il diluvio universale; Enmekar, in Hercules «EN . MER . KAR», era il leggendario re di Uruk, nonno dell’eroe Gilgamesh e da questi spodestato. Questo insistere linguisticamente sulle connotazioni delle divinità è, da parte di Villa, un probabile modo per arretrare ancora rispetto al logos, per risalirlo fino al primitivo mythos: non tanto quindi teologia, discorso fondante e rivelatorio intorno alle divinità, quanto piuttosto racconto, mitologia percorsa (o azzardata) attraverso sopravvissute cellule etimologiche. Evidentemente ancora a contenuti mitologici straniati si riferiscono, in Verboracula, testi come In Helicone, Demetra demens, e, quanto meno nel titolo suggestivo di predizioni (e minaccioso di enigmi), la serie delle diverse Pythica vana, Pythica acies, Pythica arbor, Pithyca res. Testi molto diversi fra loro: dalla grafica disseminazione sulla pagina di sillabe sciolte ma ricomponibili in aleatori significati (o percorsi di significato) di Pythica vana ed in parte di Pythica arbor, alle sequenze bimembri degli ossessivi omoteleuti affilati, schierati di Pythica acies, alla lunga e “seduttiva”, quanto spesso pungente e goliardica fiaba allegorica sul povero Orfeo, In Helicone, mossa tra toni macabri e faceti: «captae feminae, numfai Sorores, / plenis glubentes manibus obtortum piscem / defuncti Orphei», dove ad essere spellato a piene mani è l’«obtortum piscem» del defunto Orfeo. Nella molteplicità tematica e retorica di Verboracula, almeno due caratteri ancora emergono in modo significativo: una certa beffarda “provocazione matematica” che di nuovo mette in questione la/le verità – le singolari, ironiche proposte di quesiti algebrici di Problema e Problemata superioribus algebriae umbrae, e le opposizioni binarie sul numero, «numen numerus» o «mysticus numerus», di Matheseos anatomia, pitagorica, dubbiosa e problematica “anatomia della conoscenza” – e la predilezione, peraltro costante nella poesia di Villa, per una strutturazione visiva del testo, che qui raggiunge esiti di veri e propri disegni di parole. Oltre al percorso geometrico ma piuttosto lineare di Pythica res, in cui la sequenza delle parole è indicata da frecce, Verboracula comprende anche un testo perfettamente circolare nella disposizione concentrica delle sillabe segmentate – sorta di primigenio omphalos, ombelico testuale –, Ne operietur opus operum omne; comprende poi un testo in oggettiva figura di totem, Totam/em, emblema del linguaggio e delle sue debolezze, chiuso laconicamente dalla caduta del senso, «succidit sensus», dal venir meno del nome e dalla fuga della sillaba terminale o germinale, «nomenque cessat, letalis aut fetalis syllaba fugit». Sempre disposizione a fuoco centrale nella pagina hanno due dei tre Saltafossum, ludica latinizzazione d’un nome che molte diverse connotazioni regionali scherzose(12), oltre ad indicare l’astuzia di dare per certa una cosa ipotetica, per indurre qualcuno a dire o a compiere qualcosa che non vorrebbe. E sono accezioni – tanto quelle regionali giocose, quanto quella dell’astuzia – pienamente congruenti con tutti e tre i testi, ma forse più facilmente esemplificate dal terzo Saltafossum, che a partire da «somnium», accesso univoco al testo, prevede poi molteplici percorsi (o salti) interni, uno dei quali sfociante in un assunto basilare quasi epigrammatico: «quoniam omnis Res debet esse / ea Res ipsa simulque adversa sui». Alla straordinaria varietà di toni, temi e soluzioni stilistiche di Verboracula, si contrappongono l’omogeneità, la compattezza e la compiutezza di le mûra di t;éb;é, opera niente affatto ludica, escatologica e, nei termini in cui sopra si discuteva, enigmatica. Villa che scrive o incide parole su trasparenze, è evidentemente autore che già attraverso la scelta dei materiali pone in questione la trasparenza del linguaggio (chiarezza, perlucidità, visione/lettura che trapassa il supporto materico), o in termini più generali della comunicazione o della interpretazione. Certamente le mûra di t;éb;é è per sua natura, fin dal titolo, ricca di rimandi culturali, secondo la pratica, carissima a Villa, dell’iperdeterminazione. Il titolo intanto, ed è forse un rigurgito di goliardia, gioca con caratteri e segni di interpunzione, senza che questi finiscano poi, però, per assumere significati speciali o misteriosi. Tuttavia, il rimando a Tebe è già in sé polivalente: molte erano nell’antichità le città con questo nome. Tra le più antiche è certamente quella egiziana, città di culti secolari e sede, per un certo tempo, del governo sacerdotale di Amon, chiamata dai greci, per distinguerla dalla loro propria Tebe in Beozia, la “Tebe dalle cento porte”. Ma la città cui Villa con ogni probabilità si riferisce è proprio la greca “dalle sette porte”, famosa polis fondata da Cadmo su consulto dell’oracolo di Delfi; città di sciagura, di pestilenze e di incesti, guerre fratricide e condanne di consanguinei. È città emblematica della trasgressione di Laio al vaticinio della Pizia, della non mai premiata abilità nella parola di Edipo, delle maledizioni e del suicidio di Giocasta, della guerra dei Sette e dello scontro mortale tra i due fratelli Eteocle e Polinice, della pietas di Antigone e della sua condanna a morte da parte dello zio. Ma Tebe è anche città dalle mura prodigiose, sorte magicamente dalla melodia del suo re Anfione, espertissimo musico figlio di Zeus, capace di attirare e disporre le pietre col suono della propria lira. Mura di sfida al divino, mura su cui ebbe la sfrontatezza di salire Capaneo «dispettoso e torto» per lanciare la sua sfida a Zeus, che implacabile abbatté il bestemmiatore con un fulmine. Per più ragioni Tebe appare legata al potere della parola e dei segni che la tracciano, ma una in particolare è essenziale: il suo fondatore Cadmo importò, secondo una leggenda, l’alfabeto fenicio in Grecia. Tutte queste possibili determinazioni mitologiche o culturali sono per lo più rimandi sotterranei, non affiorano a chiare lettere nei testi di le mûra di t;éb;é; uno solo, e mi sembra offrire la chiave di lettura a tutta l’opera, è veramente menzionato da Villa. Nel testo 10, apertamente chiamando in causa i tebani, Villa rievoca l’antico potere della melodia, del canto: «la melodia / a Tebe nell’antichità a volte / fece crescere le mura, / della città: prodigiose! // altre volte / quelle stesse mura, come i confini / del mondo, la melodia distrusse». Questi dieci testi greci, scritti in un limpido ed asciutto ionico-attico, senza commistioni né forzature morfologiche, ma con molte predilezioni per le forme del dialetto ionico usato nella prosa e nella poesia scientifica, filosofica, medica, sembrano riproporre il fondante problema della voce del poeta, del suo eroso/vivo ruolo di vate. In discussione è naturalmente il potere della poesia, la sua presunta capacità di tracciare i confini del mondo e di abbatterli per un accrescimento di conoscenza, per un rischio assunto. I testi mi paiono trattare con sostenutezza un problema in Villa profondamente autoreferenziale e basico, il rapporto del poeta con il reale e la presa della parola sulle cose. È un problema anche storicamente determinato: compare un io che è probabilmente soggetto autoriale, «tutti fanno la siesta i tebani / nel pomeriggio assolato, nella piazza, / io mangio il gelato»; vengono messi a confronto la melodia di ieri, capace di costruire e abbattere mura, con la musica di oggi, in certo senso esornativa, incapace di stornare il male: «Oggi invece la melodia / rende splendente l’epidermide / delle donne, e la pelle / degli animali, fino a quando / la musica sospingerà il transito / verso il Sacro Malanno» (testo 10). Il tono serio e profetico dell’opera è evidentissimo nella versione italiana d’autore, ricca di maiuscole a sottolineare figurazioni caricate di senso, immagini semanticamente pregnanti: «il Segnale-Testimonio», «la Fatale Conformità», «il Principio dell’Atmosfera», «il grande Dispiegamento della Sporcizia», «la Cieca Verosimiglianza della Definizione e dell’Incombenza», e ricca anche di aperture liriche, di concessioni estetizzanti ricercate e di grande finezza: «scintillata così d’improvviso, / indistinta, come l’imprecazione / della gabbiana ferita al seno / da una tremenda incertezza della vista» (testo 2); «Ahi indolente sguardo, / ahi fragile pupilla, / ahi, òstrica enorme!» (testo 4); «e le sostanze primigenie / e le ragazze mattutine» (testo 7). L’inclinazione oracolare, percorsa da un diffuso pessimismo, è data dall’uso del futuro in asserzioni che sembrano non lasciare adito a dubbi: «ecco che l’urlo del cuore / di qualcuno lo devasterà: / e senza il Cane, il tempo esatto / verrà, quando l’ombra totale / sarà discesa sopra il fico / che non matura mai» (testo 7). Pur se perfettamente analogo in termini di significato, il dettato greco appare tuttavia lessicalmente più scabro e contenuto, più lapidario, forse in osservanza anche alla primitiva incisione su plexiglas. Comunque il Villa di le mûra di t;éb;é continua a praticare, a sondare il rapporto della parola col sacro, il potere della «Voce dell’Ombelico» (testo 2), della voce delle origini o del centro delle cose (cÁa 'Omzalj, “ombelico della terra” era chiamata Delfi, e Ñmz» era la voce divina, per eccellenza apollinea); il livello della scrittura è alto ed enigmatico, talvolta metapoetico, come nel testo 6, invocazione alla Pizia pura e impura, tessitrice di segni “ben ritorti”, “mutevoli”, «aggrovigliate Rune», «·oànaj», anacronistica, straniante traslitterazione in caratteri greci del termine latino tardo che indica gli antichi difficili segni alfabetici germanici. La Pizia divinatrice «sospende in alto il nebuloso abisso», i significati delle sue predizioni si annodano e mordono come serpenti, come «le bisce sorelle», e altrettanti serpenti sono «le anime mortali / in se stesse ravvoltolate e annodate». La copertura del senso immediato, il sovrabbondante ricorso ad icastiche immagini emblematiche che naturalmente sono tanto più ricche quanto più variamente interpretabili – «il Cane alato» (il Cane alato di Zeus, l’aquila; o forse la costellazione di Orione) –, dà alla scrittura di le mûra di t;éb;é, una notevole cifra di assolutezza e di sentenziosità. Da quest’opera significativamente autoriflessiva può venire alla luce quanto irrisolto, fecondamente problematico sia il rapporto di Villa con la propria stessa voce poetica, e quanto piena di consapevolezza sia stata la sua volontà di esplorare con il linguaggio i fondamenti delle cose, il suo aver offerto «regolare testimonianza / al deserto, fino a suscitare / e a reprimere il coraggio / di trovare ancora, con la voce / e per destino, il passaggio gelido / dei Fondamenti delle cose, là dove / il Giaciglio dell’Oblio, raggiunte / le divine simulazioni, serpeggia, / e la Ragnatela dei sussurranti / millenni, indefinita si stende, / ellisse del Ragno che gioca» (testo 3). Qui sembra che la voce poetica – vox clamans in deserto – si faccia carico di una dialettica serrata fra trascendenza e contingenza, tra profonde radici, essenze delle cose e dinamismo della mutazione, scorrimento perpetuo e costrittivo della realtà. Tanto in questo complesso livello dialettico e metaletterario di le mûra di t;éb;é, quanto nelle aggressioni alla sostanza fisica (e originaria) del linguaggio messe in atto in Verboracula grazie ad una serie di diffrazioni etimologiche, la scrittura di Villa sembra porsi sul limitare del temenos, di un possibile “recinto sacro” del linguaggio, e da quel limitare spingersi poi sia verso la base profana della materia verbale, sia verso la rievocazione di una sua originaria, perduta sacralità.


Note:

(1) . Gianni Grana nel suo Babele e il Silenzio: Genio “orfico” di Emilio Villa, Milano, Marzorati, 1991, non ritiene credibili queste datazioni “alte” per motivi di ordine generale (forse di buonsenso) e per motivi di ordine stilistico (certa spazializzazione delle parole), rilevando da un lato la giovanissima età di Villa e dall'altro la sapienza matura, poco goliardica, «di un già deciso calcolo fonetico, di una invenzione linguistica basata su alterazioni lessicali, in un contesto ortodosso agrammaticale» (cfr. pp. 612-13). E già Aldo Tagliaferri, in Parole silenziose, introduzione al volume villiano Opere I, Roma, Coliseum, 1989, analogamente poco convinto dalle date apposte dall'autore, aveva individuato invece in alcuni di questi testi (ed anche in altri non datati) una possibile influenza della poesia concreta conosciuta da Villa durante il suo soggiorno in Brasile, e non aveva escluso quindi una stesura – o quanto meno una rielaborazione – successiva al 1951-52 (cfr. p. 9 e p. 19). riprendi la lettura
(2) . Già sufficientemente autoesplicative mi paiono le varianti ortografiche sarcastiche (ai limiti dell’espressionismo) usate da Villa per scrivere il nome della sua patria di origine: «Ytalya» è tratta da un testo poetico del 1948, La Tenzone, in cui compaiono anche: «ahi potanacia miseria, potanacia! / pfu! Itaglia squaldrana», e «ahi padritaglia, ahi disdetta!». In Comizio millenovecentocinquantatré torna ancora «Itaglia» cui fa significativamente eco, due versi dopo, «freguglia». Ora i due testi sono raccolti in Emilio Villa, Opere I, cit., p. 161 il primo testo, p. 195 il secondo. Esemplare della lucidità con cui Villa guarda al proprio complesso rapporto con l’Italia appare un testo poetico del 1942-43, Il dopoguerra, in cui si legge, nella forma retorica dell’apostrofe diretta: «Ti ricordi, Italia, quella sera, / là seduti sui bordi del mare, / e io ti dissi che in primavera / ci dovevam lasciare?», sempre in Opere I, p. 57. Ma anche a prescindere da queste significative, e scoperte, indicazioni testuali, è stato poi lo stesso Villa a parlare pubblicamente del proprio rifiuto dell’italiano sentito come lingua dell’ordine, lingua imposta dall’esterno, in certo senso “artificiale” in rapporto al più “naturale” dialetto lombardo parlato nell’infanzia. Ma non soltanto su ragioni di matrice biografica si basa la diffidenza nutrita da Villa nei confronti della lingua italiana: oltre ad essere vissuta come «nemica, un segno di schiavitù», essa appare a Villa anche inadeguata alla stessa espressione del pensiero: da Giordano Bruno in giù, da Vico in giù l’italiano non ha più prodotto un pensiero; la nazione non si è ancora culturalmente «ripresa dal fallimento del 1850» e la lingua è rimasta provincialmente confinata in un orizzonte angusto, legata solo «a un mondo piccino, al mondo degli interessi». Queste affermazioni dell’autore, tratte da una conferenza tenuta nel 1984 all’Accademia di Belle Arti “Pietro Vannini” di Perugia, sono ora in Emilio Villa, Conferenza, a cura e con prefazione di Aldo Tagliaferri, Roma, Coliseum, 1997, segnatamente alle pp. 44-45. riprendi la lettura
(3) . Claudio Parmiggiani, Geometria Reformata, 10 Zeichnungen 1977-1978, Zürich, Edition Annemarie Verna, 1979. Il testo poetico di Villa è stato pubblicato per la prima volta su «Baldus», 0, 1990; l’edizione anastatica del catalogo di Parmiggiani recante il testo autografo di Villa, già annunciata nel medesimo numero di «Baldus», fu effettivamente realizzata in settanta esemplari numerati nel corso dello stesso anno: Emilio Villa, Claudio Parmiggiani, Geometria Reformata, con una nota di Mario Diacono ed una acquaforte di Claudio Parmiggiani, Albinea, Collezione Tauma, 1990. riprendi la lettura
(4) . La pubblicazione di questi testi è parziale e piuttosto recente: Emilio Villa, 12 Sibyllae, a cura di Aldo Tagliaferri, Castelvetro Piacentino, Michele Lombardelli Editore, 1995, con saggio introduttivo di Tagliaferri, L’enigma nella poesia e nella poetica di Emilio Villa. Una cartella con cinque incisioni di Emilio Villa ed uno scritto di Aldo Tagliaferri, CBille CBelle, Castelvetro Piacentino, Michele Lombardelli Editore, 1995. Altre quattro Sibyllae – Sibylla (seraphim seraphina), Sibylla (sabina), Sibylla (secreta ex creta creata) e Sibilla cachée – sono apparse a cura e con intervento di Cecilia Bello, Vox Labyrintha. Quattro Sibyllae di Emilio Villa, in «Avanguardia», 8, 1998. Di queste ultime quattro, Sibylla (sabina) è stata poi pubblicata anche nel numero monografico dedicato a Villa da «il verri», 7-8, 1998. riprendi la lettura
(5) . La traduzione della tavoletta del poema Enuma eliš apparve in «Letteratura», 4, 1939; quella dell’Odissea apparve per la prima volta nel 1964, Parma, Guanda, ed è ora disponibile, riveduta, nelle edizioni Feltrinelli, Milano, 1994, con nota introduttiva di Aldo Tagliaferri. riprendi la lettura
(6) . A parte le traduzioni dal Vecchio Testamento che Villa ha pubblicato nel 1947, Giobbe. Cantico dei Cantici, Milano, Il Poligono, solo un brevissimo saggio del Genesi è apparso recentemente sul numero monografico di «il verri» sopra citato. La traduzione è accompagnata sia da una nota informativa di Aldo Tagliaferri, curatore del numero, sia da uno scritto villiano che espone persuasivi criteri e ragioni della sua traduzione. riprendi la lettura
(7) . Ivi, p. 19. riprendi la lettura
(8) . Emilio Villa, Opere I, cit., p. 181. riprendi la lettura
(9) . Rimando qui anche a quanto scrive in proposito Aldo Tagliaferri in L’enigma nella poesia e nella poetica di Emilio Villa, cit. riprendi la lettura
(10) . Niente a che vedere ha «citrullum» con il latino citrus; deriva dal napoletano cetrulo, “cetriolo”. riprendi la lettura
(11) . John A. Halloran, Lexicon of Sumerian Logograms, Los Angeles, UCLA, 1996-1998, dallo stesso luogo il riferimento successivo. riprendi la lettura
(12) . Il Grande dizionario della Lingua Italiana UTET dà come accezioni di “saltafosso” anche “pretesto” e “birichino, scapestrato”; tra le tante accezioni regionali poi si potranno citare: “saltafossi”, che nella zoologia veronese indica una ranocchia salterina, in toscano chamata “saltancone; e “fa on saltafoss” che significa, nel dialetto milanese ben noto a Villa, “tirar giù le calze a qualcuno”, “fare una cavatina d’ingegno” (Angiolini, Vocabolario Milanese-Italiano) riprendi la lettura


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