Questa giornata di studio e di lavoro, di incontro
con la voce di Amelia Rosselli è un'occasione e un evento
per Firenze, una città che spesso chiama evento
ciò che non lo è, o lo è in maniera talmente
opaca e poco originale da risultare segno di vecchiezza, di stasi
culturale da parte di istituzioni talora ottusamente fisse al già
visto e codificato. Pur nel dolore del vuoto e dell'assenza, quest'occasione
è di grande allegrezza. Amelia Rosselli è una di quelle
voci che non avrebbero bisogno di nient'altro se non di conoscenza
amorosa e di approfondimento; voci tanto alte e sublimi da risultare
persino oscure, d'un'oscurità, però, si badi bene,
tutta antiermetica, antiletteraria, antiaccademica,
come cercherò di dire. Avrei infatti anche potuto intitolare
questo intervento La visionarietà antiletteraria di
Amelia Rosselli ma ho scelto l'aggettivo antiermetica
perché più adatto, mio avviso, a un ambiente e a un
uditorio fiorentini. Sono felice d'esser qui, d'essere arrivata
a vedere questa giornata. Lo dico senza nascondere una certa soddisfazione:
in qualche modo, l'incontro odierno si deve a un suggerimento, a
uno spunto che vorrei raccontare: quando, circa un anno
e mezzo fa, presentando al Circolo Rosselli un libro di Rino Capezzuoli,
entrai per la prima volta in quello spazio, molto bello e molto
importante di Firenze, spazio che non conoscevo, vidi sulla destra
della piccola sala due grandi ritratti dei fratelli Rosselli. Mi
commossi molto: le figure di Carlo e Nello Rosselli, così
vive, così tragiche, mi riportarono immediamente alla mente
il nome di Amelia, figura anch'essa così tragica, così
importante. Con naturalezza esclamai: Sarebbe bello che qui
a Firenze, magari in questo spazio, si facesse qualcosa per Amelia
Rosselli (lei era morta purtroppo da circa un anno, allora).
La città di Firenze fin lì aveva taciuto, e magari
avrebbe taciuto chi sa ancora per quanto. Amelia Rosselli non credo
sia ritenuta sua da parte dell'intellighenzia cittadina,
sempre più disattenta, sfiorita. Se si escludono i cosiddetti
anni d'oro, gli anni delle Giubbe Rosse,
dell'ermetismo, di Montale, dei giovanissimi Luzi, Parronchi, ma
soprattutto, aggiungo, gli anni di Gadda, di Palazzeschi, di Landolfi,
di Piero Santi (uno scrittore vergognosamente dimenticato), Firenze
è sempre stata una città avversa a scrittori e poeti
di ricerca, d'avanguardia; ostile al nuovo, alla sperimentazione.
Nonostante riviste come Quartiere, Tèchne
e poi Quasi, Salvo imprevisti, ecc
;
nonostante i poeti visivi, il Gruppo Settanta (e quanto
fortunatamente vi si è poi mosso e vi si muove), Firenze
resta una città ostile a voci altre, diverse;
ostica ad accogliere qualunque libertà stilìstica
(e dunque etica), così come a suo tempo avversa alla grandezza
e novità di un poeta come Dino Campana. Una città
sorda all'esigenza di allargare i propri angusti confini, le proprie
provinciali idiosincrasie, i secolari steccati. Il forte, fiero
cosmo polifonico della voce di Amelia Rosselli pare avvilire, umiliare
l'asfittica pochezza di tanti poetini locali. Entro dunque nel tema
che mi sono proposta: La visionarietà antiermetica di Amelia
Rosselli. Se talora la Rosselli può avere all'apparenza qualche
tono ermetico (o ermetizzante), non è assolutamente possibile
sostenere, come ha fatto Giacomo Magrini nel proprio intervento,
l'esistenza di un suo debito nei confronti della poesia
di Montale. Ho letto a fondo Amelia Rosselli. Credo di aver letto
tutto Montale. Leggo da sempre i poeti e da poeta,
con modestia ma anche con forza, mi permetto di dire che sarebbe
l'ora di smettere di valutare sempre tutto alla luce d'una obbligata,
inevitabile sudditanza di qualcuno verso qualcun altro.
La potenza della parola poetica di Amelia Rosselli è tale
da non poterla certo ascrivere tra gli epigoni dell'ermetismo, un
movimento poco innovatone linguisticamente, nient'affatto profetico,
fortemente letterario. Il voler sempre e comunque trovare padri
a certi autori (ma soprattutto autrici) è un fortissimo limite,
un errore di giudizio, uno svilimento della libertà. Quando
dico libertà, dico prima di tutto libertà
da sudditanze imposte da un'idea (della) critica che obbliga a vedere
in certi autori (ritenuti, dunque, in sé insufficiente, minori,
dipendenti da) sempre l'ombra di qualcun altro (ritenuto
indiscutibilmente maggiore). Amelia Rosselli è
un grande poeta antiermetico, un'autrice che ha scelto una sperimentazione
inesausta, del tutto originale e autonoma, frutto di un acceso e
appassionato immaginario, di ampi studi letterari e musicali, di
scavo psicanalitico, di razionalità coniugata a un irrazionale
urgente e proliferante. Una donna totale, di grandissimo
impegno e ingegno (non l'uno senza l'altro), fuori da
qualunque torre d'avorio, rifuggente dal solipsismo di una cultura
autoreferenziale. La Rosselli è stata un apostolo
della bellezza, della libertà: libertà di parola,
anzitutto, discendente da libertà di pensiero; libertà
d'essere poeta con un profondo bagaglio di amori letterari, che
significano aderenza e passione, non piaggeria e sottomissione a
modelli prestabiliti, a canonizzate voci. In nome di questa volontà
di rendere, proprio da Firenze, minima giustizia e voce a una grande
voce, parlando con pudore e insieme con estrema passione di un poeta
che non c'è più, ecco, in nome di tutto questo, vorrei
condividere alcuni luoghi di lettura che mi hanno particolarmente
coinvolto (ma dovrei citare all'infinito ... ) partendo da quella
sua particolare oscurità (un'oscurità
non-ermetica, appunto), da quel suo non sapere che è
una superiore forma di sapienza e potenza creativa:
[
] Non so se io sì o no mi morirò
di fame,
paura, gli occhi troppo aperti per miracolosamente
mangiare
[
]
lo non so se tra il sorriso della verde estate
e la tua verde differenza vi sia una differenza
io non so se io rimo per incanto o per travagliata
pena. lo non so se rimo per incanto o per ragione
e non so se tu lo sai che rimo interamente
per te [
]
io non
so se tu cadi o tu tremi, tu non sai se io piango
o dispero. Disperare, disperare, disperare, è
tutto un fabbricare. Tu non sai se io piango
o dispero, tu non sai se io rido o dispero.Io
non so se tra le pallide rocce il tuo sorriso.
(da La libellula, 1958)
Da poeta a poeta- in linguaggio sterile, che
s'appropria della benedizione e ne fa un piccolo
gioco o gesto, rallentando nel passo sul fiume
per lasciar dire ogni onestà. Da poeta in poeta:
simili ad uccellacci, che rapiscono il vento
che li porta e contribuiscono a migliorare la
fame. Di passo in passo un futile motivo che
li rallegra, vedendosi crescere in stima, i letterati
con le camicie aperte che si abbronzano al sole
di tutte le tranquillità: un piccolo gesto sfortunato
li riconduce all'aldilà con la morte che sembra
scendere e stringerli.
Ironicamente fasulla, o v'è una verità? ch'io
possa dire anche tua?
Ma nel fiume delle possibilità sorgeva anche
un piccolo astro notturno: la mia vanità, d'esser
fra i primi gigante della passione, un Cristoemblema
delle rinunziazioni [
]
(da Serie ospedaliera, 1963-65)
Leggiamo, dunque, leggiamo Amelia Rosselli: senza paraocchi, senza
prevenzioni, senza paura. Leggiamola nella sua severità preziosa,
nel suo culto per la parola cercata, adorata non come scienza
infusa, ma come grazia e insieme rovello, come
sorte ma anche come acutissima scelta di
tutta una vita. Leggiamola, amiamola nella sua sublimità
umile di fronte alla poesia: nella dedizione, nel coraggio, nel
debito verso la parola e verso nessun altro se non verso i grandi,
riconosciuti, taciti Maestri (che certo non possono essere coloro
che impongono ed esigono ossequio). Leggiamola nel suo apparente
disordine, nella sua notte oscura, nella
sua voce che dice io visionariamente, profeticamente.
Leggiamola nel miscuglio di razionalità e irrazionale, nella
sua ragione musicale, nel suo ritmo come respiro; nel corpo della
sua parola e nelle parole del suo corpo. Leggiamola, amiamola nell'assillo
metrico, nella nera afasia, nel rischio, nel silenzio, nella scabrosità
di una passione inesausta, nella ricerca immortale di tutte
le possibilità (e impossibilità)
della lingua. Lasciamoci travolgere da tanta forza, da tanta tragicità,
grazia e bellezza. Saremo guariti da lei, dall'assoluto della Poesia.
Per un'intervista inedita ad Amelia Rosselli Di Mariella Bettarini
È il 10 dicembre del lontano 1979. Siamo a
Roma, Gabriella Maleti e io, per incontrare Amelia Rosselli e intervistarla
per il volume Chi è il poeta? (interviste a 33 poeti), che
sto curando con Silvia Batisti e che uscirà nelle Edizioni
Gammalibri di Milano nel settembre 1980. Gabriella, che ho conosciuto
da alcuni mesi a Milano, è con me come fotografa/poeta. Scatterà
alla Rosselli decine e decine di fotografie, là, nella casa
romana di via del Corallo. Nel nastro allora registrato si sente
distintimante, metallico e preciso, secco e immortale, al disotto
della voce inconfondibile e grave della Rosselli, il rumore dell'otturatore
della macchina Contax, che scatta, scatta all'infinito. Amelia Rosselli
ci riceve in semplicità nella sua ripida casa romana. Si
siede al tavolo, ascolta di volta in volta le domande che le pongo
(sono le medesime per tutti i poeti invitati), pacata parla, risponde.
C'è un'aria intima e acuta, severità e obbedienza
alla parola, intelligenza penetrante, un'umana alta esperienza.
Gabriella e io ne siamo non poco toccate.
Purtroppo, poi, né intervista né fotografie saranno
utilizzate, poiché la Rosselli non vorrà più
comparire nel volume.
Questa che segue è dunque l"antica" intervista
rimasta inedita per circa vent'anni e riproposta oggi quasi integralmente.
Dico quasi" poiché in vari passaggi del discorso
(segnalati da puntini in parentesi) la voce cupa e bellissima della
Rosselli risulta pressoché inudibile, tanto i toni sono bassi.
Stefano Giovannuzzi ne ha fatto una trascrizione accuratissima e
il più possibile fedele; trascrizione che con emozione e
gioia proponiamo al lettore.
giugno 1999
INTERVISTA AD AMELIA ROSSELLI
Mariella Bettatini: Siamo a colloquio con Amelia
Rosselli, alla quale stiamo ponendo alcune domande per il libro
che uscirà a Milano con la Gammalibri. La prima domanda è
questa: a circa quindici anni dall'uscita del Mestiere di poeta
di Ferdinando Camon e ormai abissalmente lontani da quegli anni
Sessanta che cosa resta, se resta qualcosa, del mestiere di poeta?
E che significa oggi, alle soglie degli anni Ottanta, essere poeti
in Italia? È possibile essere poeti in una società
antiletteraria come la nostra?
Amelia Rosselli: I miei discorsi sarebbero sempre
un po' particolari, perché, piuttosto che generalizzare sul
tema, cosa significa essere poeti nella civiltà di oggi,
mi riesce più facile parlare di incidenti specifici. Veramente
non ho mai saputo perché sono stata scrittrice negli anni
'54, '55, '60 e '70. Oggi so perché non lo sono, ma dare
le spiegazioni è un po' seccante qualche volta.
Direi che son diventata scrittrice senza deciderlo; avevo fatto
studi di musicologia, di composizione e musicologia; ero molto legata
alla musica. Forse sono stata influenzata dall'ambiente romano,
ho frequentato molti scrittori, pittori, senza prendere una netta
decisione riguardo al professionalismo nello scrivere, fino a ventinove
anni e questo per ragioni di necessità, perché mi
accorgevo che gli studi molto specializzati di musicologia non mi
avrebbero mai permesso di trovare lavoro, anzi spendevo piuttosto
che guadagnare. E allora notando che avevo molti manoscritti, istintivamente,
spontaneamente ammucchiati, ho fatto un piccolo calcolo di tutti
i giorni, cioè pubblicare e poi eventualmente trovare lavoro.
Avevo un grande amico in quell'epoca, ed era negli anni Cinquanta,
era Roberto Bazlen, chiamato Bobi, in realtà era un consulente
prima di Einaudi e poi Adelphi ed è quello che ha portato
in Italia molta della letteratura spagnola [... ]. Lui predicava
piuttosto il non pubblicare: per me prendere una decisione di pubblicare
fu quasi blaspheme, blasfemo si dice, scusa. Non era la mia intenzione
far parte di un ceto intellettuale, anche perché non mi consideravo
strettamente intellettuale, evitavo un po' l'esserlo e un pochino
ero in continua corsa contro il tempo, contro la società
stessa, avendo avuto una formazione anglo-americana e francese,
con culture diverse, spesso a livello più basso e avendo
fatto solo il liceo, a parte gli studi specializzati. Non mi sentivo
all'altezza di un ambiente letterario quale io avevo conosciuto
a Roma e non solo all'altezza: non mi piaceva l'ambiente letterario
in quanto borghese, per quel poco che l'avevo conosciuto tramite
Levi e Rocco Scotellaro, avevo conosciuto i salotti e non solo non
capivo molto di quel che dicevano, essendo d'altro ambiente, ma
provavo angoscia e sensazione di rifiuto nei confronti della borghesia,
così netto, da non pensare me stessa in quellambiente.
Dunque, devo dire che, se ho pubblicato, malgré moi, ho pubblicato
per ragioni di opportunità e il più tardi possibile.
Ho cominciato a pubblicare a trentatré anni, mandando il
manoscritto a Vittorini, anche ad altri editori che non risposero,
il primo manoscritto, che era Variazioni belliche: fu il primo libro
compiuto in italiano. E, strano a dirsi, Vittorini mi rispose e
mi chiese ventisei poesie per il Menabò.
Poi per caso ho incontrato Pasolini da Moravia e, sudando freddo,
gli ho chiesto se mi aiutava a pubblicare l'intero libro. A lui
piacque, inaspettatamente: io ero entusiasta del suo lavoro, perché
avevo visto Accattone. Non avevo in realtà molto seguito
i letterati della mia generazione, a parte un ristretto gruppo di
amici. Studiavo continuamente gli inglesi, gli americani, i francesi,
le traduzioni, anche l'italiano classico, ma non l'italiano moderno;
non mi sentivo vicina alla poesia di Pasolini in quell'epoca. La
lessi dopo. Se non ci fosse stato Pasolini, non ci sarebbe stata
pubblicazione, questo è sicuro, perché gli altri tre
o quattro editori non risposero. E se non ci fosse stato Vittorini,
non ci sarebbe stato Pasolini, perché Vittorini appoggiava
sul Menabò, si interessava al libro, che per
qualche ragione lo toccò.
Se mi chiedi qual è la funzione dello scrittore oggi, in
questa società, la sento ancora meno e la vivo artificialmente,
la vivo non per scelta; per scelta di vocazione sì, nel senso
che è stato istintivo [
], ho scritto addirittura cinque
o sei libri, però ne ho pubblicati tre, ne esce un quarto
con Guanda, forse. Ma da giovane non mi sarei mai sognata scrittrice,
anche perché non lo considero un mestiere. Sono stata educata
al guadagno, cioè al doversi mantenere, da una madre abbastanza
severa, inglese, e mi sarei vergognata di chiamarmi scrittrice in
quell'epoca e tuttora me ne vergogno. Non amo la distinzione tra
intellettuale e non intellettuale, mi fa arrossire, sto ancora [...]
corsa dietro una sufficiente cultura, una cultura completa, in modo
da guadagnare in termini ... E, quanto alla funzione dello scrittore
oggi in questa società, anzi è calato il significato.
Forse è un bene. Il significato di guida dell'intellettuale,
che riesce molto meno ad influenzare quella che ora sappiamo essere
una massa e non una borghesia, e non si illude di influenzare la
massa, perché è interessante piuttosto che la massa
si avvicini allo scrittore, non lo scrittore alla massa.
Ho molti amici di origine o piccolo-borghese o figli di impiegati
o operai delle periferie, che ho conosciuti circa, quasi otto anni
fa. Ho visto le loro case, ho visto che non hanno più di
quaranta libri in camera e vedo che scrivono, e vedo che hanno passione
per la poesia, il che mi ha lasciato sempre molto sorpresa. Anche
con un bagaglio culturale ridotto sembrano avere un autentico amore
per la letteratura. Quello che spaventa è che hanno anche
l'amore per la fama letteraria e mi chiedo se non è una forma
di imborghesimento proletario questa, cioè la mimica della
borghesia. Sembra essere, perché lo vedo succedere non in
un gruppo o in un genere e nemmeno in una classe e non solo nella
piccola borghesia, ma tra gli altri, tra operai, gente che fa l'operaio
per la SIP e scrive versi. Solo quello che noto è [...] di
lettore studiando sempre meno e scrivono sempre meno col tempo,
si sposano, fanno un figlio e non hanno più tempo per nulla
e il passaggio al professionalismo, anche se la parola è
laida, non lo scrivere: non so se avverrà mai in un certo
luogo di lavoro è obbligatorio e la famiglia una necessità
per sopravvivere. Oppure loro stessi mancano del nostro spirito
cosiddetto eroico: non ci sposavamo, non facevamo figli, pur di
seguire questa istintiva vocazione. Almeno questo fu nel mio caso.
In loro non c'è questo eroismo e nella massa di oggi che
si interessa all'arte non c'è questo eroismo e, se ci sono
casi singoli, sono casi rari, come lo sono sempre stati.
M.B.: La seconda domanda si riallaccia alla prima e direi che in
parte forse la risposta è già qui: Il rapporto fra
scrittura e biografia, fra versi e vita, una "vita in versi",
tra uomo, donna e poesia, tra letteratura e storia di sé,
tra individuo e poeta. Vorremmo che ci parlassi di questo. In che
modo interagiscono, a tuo parere, questi due elementi, questi due
inevitabili ed indissolubili poli, all'interno di una dinamica quotidiana,
personale, familiare, storica, anche in relazione ai problemi economici,
pratici, del lavoro quotidiano, quello che, per intenderci, dat
panem?
A.R.: Il grosso difetto della letteratura femminile
o un pochino femminista oggi è quello di essere orgogliosa.
È la pecca numero uno del femminismo letterario. lo ho letto
insieme a delle femministe dei libri [
] e mi è dispiaciuto
vedere questo tema di fondo. [
]. Non sanno uscire dalla loro
vita privata. La denuncia è sempre, se non dell'uomo, dell'infelicità
della vita [
] e la poesia è anche [... ]. Se non sublimano,
non esiste. Per me tanto vale che venga a raccontarmi i suoi fatti
privati, anzi forse mi son più utili, lei è più
utile a me allora a quattr'occhi che non pubblicandomi versi che
[...] sulla sua vita privata. Anzi, è il più grosso
problema, perché, vedi, è l'uscita dallio, e
perfino è l'uscita dal rapporto col pubblico italiano, come
uscirne e come raggiungere almeno unobbiettivazione, una sopraelevazione,
come uscire da se stessi. Nessuno ha voglia di scrivere di sé,
salvo che trasfigurando l'esperienza e nascondendosi quanto più
possibile dietro le scene evitando addirittura la parola l'io".
E spesso io ho avuto il problema di evitare la parola "tu".
Se tu parli a un "tu" in una poesia, tu parli se non a
un tuo amore, certo a un tuo compagno o una tua compagna e il rapporto
è a due, dunque non necessariamente da pubblicarsi, anzi,
da non pubblicarsi. Se il rapporto diventa plurale, si può
parlare di un discorso ad un pubblico; se non è al plurale,
tanto vale non farlo.
M. B.: Dunque, l'ultima domanda, la più lunga
ed è questa: a tuo giudizio, il testo basta a se stesso oppure
no? Il lettore ha o non ha diritto a conoscere l'uomo, la donna-poeta,
la sua realtà pretestuale ed extratestuale? Quale rapporto
indica in definitiva fra la carta, quella stampata, i libri, la
faccia esterna, pubblica, nota, e la carne, la persona, la faccia
interna, privata, ignota? Per superare il mito del poeta e l'eventuale
automitizzazione non ritieni che sia importante che chi legge versi
conosca anche l'uomo, la donna, l'individuo e non soltanto il testo?
Sappia il corpo e le sue manie, smanie, acciacchi, dolori, persecuzioni,
vite e morti, non soltanto l'olimpica testa, produttrice somma di
testi? È una domanda polemica.
A.R.: No, se l'avessi fatta a Pasolini questa domanda,
ti avrebbe risposto come ha risposto sempre, sia tramite i versi
e sia tramite la sua vita, però parlando di sé, ma
così universalmente da riuscire a toccare proprio ... Purtroppo
era anche un suo lato debole, perché parte della sua ultima
poesia, secondo me tecnicamente inidonea, proprio perché
c'è questo rotolarsi nel proprio fango, ma fango in senso
morale. Solo perché è morto quegli ultimi libri si
svegliano, danno qualcosa, ma è una ben patetica luce. Non
si può confrontare il film Accattone o Le ceneri di Granuci
con nessuno degli ultimi libri, che non mi entusiasmavano proprio
per quel lato confessionale. E adesso in America c'è addirittura
una scuola poetica chiamata "confessionale" e non so perché
la trovino tantoo originale, perché ... è una scuola
che non solo c'è stata sempre, è una scuola che fa
paura ai dilettanti. Figurati a chi si è posto il problema
da quando ha cominciato a scrivere, se confessare la vita privata
o no. Io no, non sono per niente di quel parere; mi pare anzi che
le piccole note biografiche che gli editori ci chiedono per i libri
sono prodotti che servono al pubblico, oppure le interviste, pian
pianino ... Se vogliono saperne di più, l'autore è
a disposizione del pubblico, ma non è detto che debba esserlo
la sua poesia, non è schiavo del pubblico e non è
detto che il pubblico voglia la sua vita privata. Non sappiamo nemmeno
questo. Abbiamo veramente sondato il pubblico, quale pubblico, quale
tipo di gruppo, e l'abbiamo sondato? Abbiamo mai chiesto al pubblico
se voleva anche fatti intimi o risposte universali? Cosa che importa
attenzione e sul chiedere, oltre che dare, ma [
] intimi. Ho
notato, per esempio, quando abbiamo fatto le letture la prima volta
per un grosso pubblico, quest'estate al mare, Roma, a Castelporziano,
che il pubblico si impazientiva con qualsiasi atteggiamento privatistico
o esibizionistico, commercialistico: perfino fischiavano e sbattevano
fuori i troppi fotografi, la televisione, il poeta che faceva il
dialoghino col pubblico, per poi chiamarlo fascista perché
li fischiava. Io ho sentito da parte del pubblico, che non era un
pubblico terribilmente interessante, perché era per metà
borghese, essendo tutta gente che poteva andarci in macchina, per
un terzo gente che era già al mare e per pigrizia è
rimasta là, e ci sarà stato un ottavo del pubblico
popolano e questionante, che chiedeva una sostanza al teatro in
tutte le sue creature. Ma l'ambiente [
] e violentemente fischiavano
qualsiasi cosa non fosse dono di contenuto, dono di ricerca e risposta.
Era un pubblico, direi grosso modo un pubblico piccolo-borghese,
tirando una media. La mia netta sensazione è stata questa.
Ho letto per ultima, o verso la fine della prima sera e sono riuscita
a seguire, a sentire il pubblico [
], so soprattutto e nettamente
questo: che volevano qualcosa di serio, un po' di cibo spirituale;
gli si dava spettacoletti o insulti o scherzi, con ragazze drogate
o ballerine; si è molto irritato ed ha sbattuto molte sedie.
E appena gli davi qualcosa di serio, erano zitti ed ascoltavano
con attenzione. Io non sottovaluto il pubblico, anzi mi ha divertito
un pubblico così, mi è piaciuto il suo non volere
l'eccesso di pubblicità che c'è stato.
Comunicazione presentata, insieme all'intervista
inedita, al Convegno di Studi Un'apolide alla ricerca del linguaggio
universale (a cura di Stefano Giovannuzzi), organizzato a Firenze
presso il Gabinetto Viesseux il 29 maggio 1998, i cui atti sono
raccolti nel n. 17 (1999) dei Quaderni del Circolo Rosselli.