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I radiodiscorsi di Ezra Pound
 

di Mario Lunetta

 

In una lettera a Eugenio Montale da Rapallo (23 gennaio 1929), Ezra Pound scrive al poeta di Ossi di seppia, in un italiano incerto ma con mille ragioni da vendere:

La cosa che non vedo in Italia è un uomo che vuol comprendere lo stato della letteratura contemporanea, o di portar in Italia le cosiddette riforme, o piuttosto le invenzioni (metodi, tecniche) che designavano gli ultimi 20, 50 o 70 anni della letteratura all'estero (...) A me che ho veduto America venire dalla coda quasi alla cima contemporanea, è difficile capire questa tardezza. Non intervenire, non fare scoperte, questo si capisce. Ma non venire al livello conosciuto, e non fare sforzi di farlo, questo non capisco. Mi pare come non avere luce elettrica ecc. nella vita materiale.

Parole dure, ma piuttosto sante. La nostra letteratura, e in particolare la nostra poesia di quegli anni, dopo la veloce burrasca futurista, è tornata a flirtare con le Memorie Sospese e i Sentimenti Del Tempo, e la massima trasgressione che si permetta (con l'eccezione decisamente straordinaria del Pavese di Lavorare stanca, 1936) è quella finzione edulcorata di surrealismo che si chiamò ermetismo, e fissò il canone per un altro venticinquennio.

Pound appare quasi scandalizzato di questa paralisi, che per carità di patria possiamo chiamare ritardo. E' innamorato dell'Italia, conosce la nostra grande letteratura fino al Cinquecento, pare ignorare Leopardi e Foscolo ma in compenso deprezza fortemente Manzoni, a cui dà del noioso se paragonato ai contemporanei inglesi e francesi: e sta per imbarcarsi, probabilmente anche per gusto di malintesa novità e di modernizzazione avventuristica, nel più micidiale abbaglio della sua generosa esistenza: la cotta per Mussolini e il suo regime industrial-ruralistico costruito sull'obbedienza e il secco privilegio di classe. Forse Pound, altrove così dotato di spirito critico perfino implacabile e di un sense of humour sovente al vetriolo, non vede, oltre alla scemenza pecoreccia delle parate fasciste, l'impostura strutturale di quella finta novità che era la cosiddetta economia corporativa, e cade ingenuamente nella trappola. La compromissione col fascismo, in lui che era naturalmente ben più vicino a certi spiriti anarchici che a qualsiasi autoritarismo, fu quella di un cacciatore di novità letterarie e sociali, che nel mussolinismo credette di vedere la sola alterativa permessa dai tempi al predominio del potere bancario e all'ambigua "rivoluzione" del New Deal rooseweltiano. Nei confronti della letteratura italiana ufficiale dell'epoca (i Papini, i Panzini, i Bacchelli, i Baldini, i Cecchi) il poeta americano provava un disprezzo assoluto. Ciò non era comunque sufficiente a fargli analizzare la figura e l'operato di Mussolini senza le lenti d'ingrandimento di una mitologia semplicistica. Scrive Piero Sanavio in un saggio di grande intelligenza dedicato all'autore dei Cantos (Marsilio, 1977):

Alla base dell'insistente ma non inspiegabile ammirazione di Pound per Mussolini, che sopravvisse all'umiliazione di incontri ripetutamente richiesti dal poeta, e altrettanto ripetutamente invece rifiutatigli dalle gerarchie del PNF (tranne che in un caso: nel 1933), c'era anche un dato psicologico. Alla lunga, risultò forse più importante di tutto ciò che Pound s'era convinto o aveva deciso di voler scorgere nel fascismo italiano. Non era dissimile da una inevitabile lealtà di classe o, per essere meno caritatevoli, da certe affinità elettive. Doveva dirsi che come lui, dal magma della storia, estraeva il tessuto dei Cantos e gli dava forma, così "il Capo" imponeva alla prote hulle che era l'Italia di quegli anni, non più squallida dell'attuale in verità, solo più viareggina, il sigillo della propria directio voluntatis: calvo e grasso oramai (Mussolini), corto di fiato, ma tuttora abbastanza vitale nelle fotografie propagandistiche a torso nudo o in camicia nera. Ezra e il duce, insomma, e certo era questo il tono del discorso che il poeta faceva a se stesso, erano due specialisti. Ognuno operava nel campo che più gli era proprio, il che non rendeva illegittimi però gli allargamenti di competenza. Così, dalla letteratura il primo sconfinava naturalmente nella politica e l'economia mentre l'altro, dalla politica, si spostava se non alla letteratura perlomeno all'agiografismo dell'autobiografia e l'uso sapiente dei mezzi di comunicazione di massa. La prosa dell'uomo di Predappio, il quale in politica, secondo una prassi nazionale, aveva fatto della delinquenza comune uno strumento di potere, era giudicata assai favorevolmente da Pound che vi trovava "lo stile dell'epoca", come scriveva. E' possibile che non si sbagliasse, dato che si trattava di una triste epoca.

L'impegno di Pound a favore del fascismo è documentato tra l'altro dai 120 radiodiscorsi tenuti tra il 21gennaio 1941 e il 25 luglio 1943 per il programma "American Hour" di Radio Roma indirizzato agli ascoltatori di lingua inglese. Essi furono la causa impropria dei tredici anni di internamento nell'ospedale psichiatrico St. Elizabeth's di Washington, che segnarono profondamente l'equilibrio mentale del poeta. Molti dei suoi amici letterati consideravano il Pound fiancheggiatore del fascismo un ciarlatano squinternato; eppure, in omaggio al suo antico altruismo e al suo consolidato talento di poeta e di critico, grandi autori come Mac Leish, Gabriela Mistral, Frost, T S. Eliot e Hemingway si impegnarono per il suo rilascio. Tra le lettere di Hemingway, irrefrenabile epistolografo, ce n'è una, bellissima, indirizzata appunto al vecchio amico Ezra (19. 7.56). Vi si legge, con emozione:

Non sopporto che tu ti trovi imprigionato mentre altri che hanno operato contro il loro paese in Inghilterra sono stati liberati. Per te quel che hai fatto non era peccato dato che ci credevi. Per me si è trattato di un grave peccato. Ma tu hai pagato molte migliaia di volte. Durante la guerra ho anche dovuto stare all'ascolto-radio, e qualche volta quand'ero di turno ti ho sentito. Non mi piacevi affatto e alcune volte mi piacevi ancor meno. Ma ho scritto ad Allen Tate quando divenne ovvio che stavamo vincendo e che avremmo dovuto tutti decidere cosa fare quando saresti rimasto travolto. Scrissi a Tate che se ti avessero impiccato io sarei salito sul patibolo e mi sarei fatto impiccare a mia volta. Tate disse che avrebbe fatto lo stesso.

Mai prima d'ora pubblicati in Italia, cinquanta "pezzi" di Pound hanno da poco visto la luce da noi per le Edizioni del Girasole di Ravenna (Pound, Radiodiscorsi, pp. 275, £ 25.000), con introduzioni contrapposte di Andrea Colombo e di Piero Sanavio. L'interesse del libro non è solo di archeologia filologico-ideologica. In realtà, i radiodiscorsi poundiani sono orazioni anomale, che contaminano una quantità di generi, come sempre capita nelle scritture del poeta americano. Interessanti sul piano strettamente tecnico-retorico, quindi; ma più ancora per l'odore del tempo che si portano dentro intensamente, per la vis polemica dell'autore, che si produce spesso in capriole stupefacenti, infine per la grazia furiosa con cui Pound difende le sue idee o propone i suoi paradossi non soltanto letterari. Pound è convinto di parlare ai suoi concittadini "da patriota", insomma come colui che ha scoperto il trucco dei poteri forti inglesi e americani dominati da due "canaglie" come Churchill e F.D. Roosewelt, e che sente il dovere di scendere in campo per denunciare l'inganno.

L'Italia di Mussolini e la Germania di Hitler sono a suo parere denigrate dalla propaganda e aggredite sul piano economico e militare. Pur dando il giusto credito alla critica serrata che il poeta conduce al rapace capitalismo statunitense e all'imperialismo britannico; pur accettando (cum grano salis) la grande metafora dell'usura come male universale per cui non sarebbero certo privi di responsabilità i finanzieri ebrei (e evidentemente la "sindrome Céline" trova bon accueil nei fantasmi ossessivi del poeta), è davvero impossibile trovare convincenti asserzioni come questa: "Sì, un tempo eravamo giovani e più giovani, e molti tra noi s'innamorarono della Rivoluzione russa. La diagnosi marxista si avvicinava abbastanza alla verità. Il rimedio NON funzionò. E la rivoluzione venne tradita. Un'altra rivoluzione, dei giovani, NON è stata tradita. Sta progredendo verso ciò che volevano i comunisti in buona fede". "altra rivoluzione", quella "dei giovani", è naturalmente quella fascista, di cui, beata ingenuità, Pound non vede l'intima natura di modernismo reazionario. Siamo al 6 novembre 1941. Poche settimane dopo Pound dice: "Come scrittore io non mi sono dato a nessuno e mi offro a tutti gli uomini. Come critico è da 30 anni che tengo sotto osservazione UOMINI dall'ingegno insolito, e non parlo solo di scrittori. I geni esistono in tutti i campi dell'agire umano. Per quanto riguarda il genio di Mussolini e Hitler non sono l'unico a notarlo". E ancora: "Hank Wallace ha illustrato l'INTERESSE. L'oro. Non c'è altro che unisca i governi: l'Inghilterra, la Russia, gli Stati Uniti d'America. Ecco l'interesse: l'oro, l'usura, il debito, il monopolio, l'interesse di classe, e possibilmente l'indifferenza e il disprezzo per l'umanità. Ora, se voi sapete qualcosa sull'Europa e l'Asia di oggi, sapete che la GERMANIA antepone l'uomo alla macchina. Se non sapete questo, non sapete NULLA. Il regime di Stalin considera l'umanità ZERO, materia prima. Consegna i necessari carichi di MATERIALE umano fino ad esaurimento. Questo è il risultato LOGICO del materialismo".

Cascano proprio le braccia. L'accecamento di Pound nei confronti del nazifascismo è, prima che colpevole, puerile. Il suo "anticapitalismo" non riesce a vedere fino a che punto siano figlie del capitalismo le soluzioni autoritarie di Mussolini e di Hitler, intrise fin nel midollo di violenza di classe. Il 22 maggio 1943, appena due mesi prima dell'ultima riunione del Gran Consiglio che mette in minoranza il duce, Pound scrive, penosamente:

Ogni riforma sociale, ogni comma delle leggi tedesche sui poderi, ogni iniziativa italiana per migliorare la vita del popolo, dovrebbero essere sacri. Sto parlando di un aspetto delle rivoluzioni nazista e fascista. Prima venne la rivoluzione fascista e ogni aspetto di quel nuovo ordine sociale, che continua le battaglie per i diritti dell'uomo, le NOSTRE quattro rivoluzioni, dovrebbe essere sacro. Dovremmo difenderlo, così come dovremmo difendere l'habeas corpus, e i nostri diritti di vivere liberi, e così via. Non c'è vera libertà senza libertà economica. E NON c'è libertà durevole che non riconosca i DOVERI dell'uomo libero. Era l'essenza della santità mazziniana, o la chiave per quell'opposizione storica abbastanza impraticabile. E quando cito 'La libertà non è un diritto ma un dovere' come ho fatto l'altro giorno con un giovane funzionario, gli si aprirono nuove prospettive; si chiedeva che razza di animale avesse davanti. E disse: 'Sì, QUESTO è il vero Mussolini'.

E' chiaro. Basterebbero certe affermazioni a far parlare non di tradimento, ma semplicemente di perdita del ben dell'intelletto. Ma i tempi in cui tutto ciò avveniva erano tempi di guerra: e una guerra mortale contro il fascismo non poteva preoccuparsi di troppe sfumature. Pound, con tutti i suoi deliri di visionario in buona fede e di onesto cittadino del mondo che aveva scambiato l'imbecillità e l'orrore per un nuovo Eden, pagò anche per questa tremenda contingenza. Nei radiodiscorsi, osserva Colombo, il "fascismo" di Pound "assume contorni sempre più anarchicheggianti, se non addirittura, di sinistra nei passaggi dove viene preso in considerazione l'atteggiamento anti-usura non solo di Marx, ma anche di Stalin". Una notazione che può valere, con tutte le specifiche diversità, anche per Céline.

Anche Sanavio sottolinea questa contraddizione ("Pound indubbiamente vide il fascismo italiano con qualcosa di più che una semplice simpatia ma con altrettanta simpatia aveva considerato gli esperimenti economici della repubblica sovietica di Baviera, di brevissima vita; le ipotesi utopistiche dei socialisti del New Age; le teorizzazioni bancarie di Mazzini che metteva in rapporto con quelle del movimento del Social Credit di C.H. Douglas; la Carta costitutiva del Monte dei Paschi di Siena: ecc."). Una certa qual confusione, si deve pur riconoscere. Ma allora, in questa molto relativa Babele di aspirazioni e di progetti, dov'è il "fascismo" del grande poeta americano? Si sarebbe tentati di rispondere, molto alla sbrigativa, che semplicemente non c'è: e che al suo posto ci sono una quantità di fantastiche illusioni e di madornali equivoci. Sanavio, dal suo canto, ne dà una spiegazione articolata e magari provvisoria, ma in forte misura convincente, quando scrive:

Cosa avevano in comune il primitivo fallocentrismo di un maestro di scuola di Predappio e l'interesse poundiano nelle rivolte contro la società patriarcale, dall'eresia càtara alle corti d'amore e, attraverso Cavalcanti, Dante e lo Stil Novo, interesse che lo avrebbe portato a riconoscere nel culto della madre del dio cristiano l'insorgere dei vecchi riti per la Grande Madre mediterranea che la Chiesa per secoli aveva osteggiato? Ancora: come erano conciliabili la simpatia umana per Mussolini, la fiducia in uno stato corporativo come via d'uscita dai conflitti sociali, i lunghi flirt con il partito comunista americano, la collaborazione alla rivista "New Masses", gli occasionali ammiccamenti a Stalin? Per quale cecità Pound poté credere che il 'programma di Verona' contenesse davvero proposte economiche innovatrici? Una risposta sta nel fatto che mai esistette un'ortodossia fascista poundiana come non esistette un sistema economico poundiano ma piuttosto l'angosciata, contraddittoria ricerca, costellata di entusiasmi e delusioni, di una ipotesi politico-economica che potesse offrire sostegno alla poetica illusione del poeta di dar vita a una koinè dove tutte le culture si potessero riconoscere – una nuova e ideale Ecbatàna "dalle terrazze del colore delle stelle". Era un'utopia tardo medievale che Pound sognava. Un'altra risposta sta in certe sue contraddizioni di partenza, il voler conciliare rivolta e conservazione un'eredità jeffersoniana che egli identificava come lo specifico culturale del suo paese.

"Ho perso il mio centro a combattere il mondo", è scritto in un appunto dei Cantos. E il sigillo alla sua opera e alla sua vita è in quel terribile distico del Canto LXXVI, che dice "Formica solitaria da un formicaio distrutto / dalle rovine d'Europa, ego scriptor".


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