Prossimità critica al linguaggio ordinario: per squadernarne
i soggiacenti paradossi. Prossimità critica al nomos basileus,
alla legge sovrana o norma fondamentale della polis, per interrogarne
i presupposti, verificarne o revocarne in dubbio i "fondamenti".
È nelle pieghe di questo doppio movimento che si radica la funzione
socratica della filosofia come peculiare prodotto del "politico":
invenzione originale della cultura ellenica successivamente trapassata
a patrimonio della civiltà occidentale. Il politikón - aggettivo
sostantivato - rappresenta dunque, al pari della filosofia, un
evento occidentale per antonomasia: un tratto che distingue questa
civiltà da tutte le altre (i cui ordini organico-gerarchici non
contemplano la politicità come sfera autonoma). Si potrà anche
considerare tale passaggio come sintomo di décadence rispetto
al suo antecedente tragico. Ma al prezzo di coinvolgere nell'accusa
l'essenza stessa della filosofia così come l'Occidente l'ha concepita:
"salvezza nella razionalità", "salvazione nel Logos". Di questa
conseguenza radicale si fa carico Nietzsche nella sua spietata
requisitoria anti-socratica del Crepuscolo degli idoli. Nietzsche
vede lucidamente l'intima necessità che collega l'atteggiamento
di Socrate alla forma dialettica del pensiero: a quel procedere
che, scomponendo i termini del linguaggio (la diairesis), scende
di grado in grado, come una sonda, fin negli intimi recessi del
"discorso", per attingere ai nuclei di inconfutabile "evidenza"
- dunque di "verità" - che giacciono depositati sui fondali del
senso. Ma, in questa stessa forma, egli scorge - per l'appunto
- una "patogenesi": il luogo d'origine di quel grande malanno
dell'Occidente che è la devianza dalla Vita, e che consiste ai
suoi occhi nel credere alla "razionalità a ogni costo", in opposizione
a ogni volontà e a ogni istinto. L'effigie di Socrate viene così
da Nietzsche inchiodata e "crocifissa" come punto iniziale di
una serie rettilinea nel corso della quale la filosofia occidentale
diviene un'assiomatica onto-teo-logica sempre più astratta e distaccata
dalle pulsioni vitali. In pagine che si possono leggere come freudiane
ante litteram, il pensatore di Zarathustra sembra interpretare
la serena accettazione della condanna da parte di Socrate come
un vero e proprio apogeo della pulsione di morte. E pulsione di
morte sarebbe inoltre, nella sua essenza, la forma del pensare
dialettico: unica arma in possesso degli "spiriti deboli". Perciò
- egli conclude, come a voler serrare in un cerchio l'intera orbita
della cultura occidentale - "gli ebrei erano dialettici". Poiché
è davanti agli occhi di tutti, è inutile insistere sull'importanza
della posta in gioco quando ci si confronta con la diagnosi contenuta
nel Crepuscolo degli idoli. Ci sembra tuttavia opportuno rilevare
che il rischio che corre chi, affrontando la riflessione nietzscheana,
trascura proprio il peso delle conseguenze che scaturiscono da
una supina accettazione delle premesse di quel ragionamento. Assumere
tali premesse come valide non lascia margine alcuno a qualsivoglia
interrogazione sul Logos: semplicemente, ne impone un rovesciamento
speculare. Di qui la necessità di individuare, senza esitazioni
e timori, gli equivoci in cui Nietzsche è incorso nella sua valutazione
della dialettica. Alcuni sostenitori del "pensiero negativo" lo
hanno già fatto in chiave autocritica, ammettendo che proprio
i testi più celebri della polemica di Nietzsche nei confronti
della tradizione filosofica testimoniano una sua profonda e pervicace
incomprensione della dialettica di Hegel. È giunto ora il momento
di radicalizzare e portare a compimento questa traccia analitica,
segnalando il vistoso fraintendimento nietzscheano della dialettica
socratica. Esso ci appare evidente sotto un duplice aspetto. Sul
piano squisitamente concettuale, innanzitutto. Nel condannare
il personaggio-Socrate con argomenti degni della più vieta antropologia
criminale positivistica (lèggere per credere: "mostro nell'animo,
mostro nell'aspetto"), Nietzsche tesse un elogio della grande
sofistica, capace di scorgere l'innocente inafferrabilità del
divenire e della vita dietro la parete di cristallo delle convenzioni
linguistiche. Ma, dove risiede l'innovazione socratica rispetto
al pensiero ontologico e cosmologico precedente, se non appunto
nel riproporre la questione della verità - ben oltre ogni sistematica,
"costruttiva", visione del mondo - come un processo di interna
destabilizzazione e rottura dei linguaggi e dei codici convenzionali?
È però soprattutto sotto il secondo aspetto, quello etico-pratico,
che il fraintendimento nietzscheano di Socrate si palesa in tutta
la gravità delle sue implicazioni. È proprio tale fraintendimento
che impedisce a Nietzsche di cogliere - malgrado il riconoscimento
del carattere conflittuale, di agon, della dialettica - come solo
con Socrate, e solo nel rapporto ambivalente che Socrate intrattiene
con le convenzioni della polis, si disegni per la prima volta
uno spazio autonomo del filosofo rispetto alle figure portanti
dell'assiomatica sociale: i governanti (detentori della forza)
e i sacerdoti (detentori del sacro e custodi della sacralità delle
leggi). Come aveva genialmente intuito Merleau-Ponty, vita, processo
e morte di Socrate simboleggiano la storia dei difficili rapporti
del filosofo con "gli dèi della città, e cioè con gli altri uomini
e col rigido assoluto di cui essi forniscono l'immagine". Socrate
non è un rivoluzionario, un eversore delle leggi: se fosse tale,
sconvolgerebbe di meno, giacché il suo ruolo si risolverebbe o
in una mera testimonianza, qualcosa di cui ciascuno si dimentica
quando ritorna ai propri affari, o - peggio ancora - in una eversiva
destituzione di fondamento di ogni legge, il che equivarrebbe
a una ripetizione rovesciata della banalità della tirannide. L'inaudita
forza dell'atteggiamento socratico sta viceversa nel rispettare
la legge, anzi nel dire al cospetto dei giudici: "Ateniesi, io
credo come nessuno di coloro che mi accusano". È la forza incapsulata
nel messaggio subliminale di chi crede di più, proprio in quanto
crede diversamente dai custodi della legge positiva e dell'ordine
costituito. È in questo senso che Senofonte fa dire a Socrate:
bisogna obbedire alle leggi, se si vuole continuare a sperare
che esse cambino. Ed è sempre il medesimo senso che sostiene le
parole del canto del Mosè e Aronne di Schönberg (molto opportunamente
collocate da Massimo Cacciari in esergo al suo libro Icone della
legge): "E invece poni mente: che vi sia una Legge: ciò dovresti
salutare quale miracolo! E che vi sia chi si ribella, non è che
trita banalità".