Esiste un ritmo naturale: l’acqua che cade, goccia a goccia, da
un rubinetto, lo sciabordio delle onde sulla battigia...
Esiste un ritmo, anch’esso naturale, ma interno al nostro corpo:
il battito cardiaco, le pulsazioni del sangue nelle vene... È il
ritmo che regola la nostra stessa vita: ove quel ritmo si corrompa
c’è la malattia, ove cessi c’è la morte.
Esiste un ritmo che si impara, a furia di fatica e di allenamenti,
ma una volta appreso diventa così naturale che neppure più ci si
accorge che esso è stato così duramente acquisito: l’atleta che
corre i 400 metri ad ostacoli e che tra un ostacolo e l’altro deve
compiere quindici passi, e quindici passi compie. Se in un segmento
di pista non riesce a tenere quel ritmo, se va, come si dice, fuori
ritmo, compromette il salto dell’ostacolo, si sbilancia, o addirittura
lo urta, quell’ostacolo, penalizzando la propria performance. Ma
poiché quel ritmo è frutto di allenamenti, c’è sempre la possibilità
di migliorarlo: l’atleta che riesce a farne tredici, di passi, tra
un ostacolo e l’altro (ma sempre tredici, appunto) migliorerà magari
il record del mondo (anche Dante, per uscir fuor di metafora, dovette
inventarsi un nuovo metro e un nuovo ritmo, per scrivere la Commedia:
dovette correre non con i due passi, mettiamo, del suo maestro Brunetto
Latini, che scriveva in distici a rima baciata, ma con i tre della
terza rima, che appunto dovette inventarsi).
Esiste un ritmo artificiale, ma funzionale, essenziale al funzionamento
di un certo meccanismo: il ticchettio dell’orologio, uno stantuffo,
una macchina perforatrice, il codice Morse per la telegrafia: punto,
linea, punto...
Esiste un ritmo, anch’esso artificiale, ma funzionale al senso.
Ad esempio quando disponiamo in un certo ordine le parole nella
frase: L’ho fatto io; oppure: io, l’ho fatto. Cambia
il ritmo, ma cambia anche il senso del messaggio.
E con ciò siamo entrati nel codice linguistico, che è quello che
qui oggi ci interessa. Il ritmo della lingua è naturale e artificiale
al tempo stesso. È essenziale alla comunicazione (l’ho fatto
io) e tuttavia è capace di comunicare un di più di informazione
(io, l’ho fatto: cioè l’ho fatto proprio io, sono orgoglioso
di averlo fatto io, o quant’altro può significare in diversi contesti
comunicativi). Fermo restando che il codice linguistico è comunque
artificiale, immotivato come ci ha spiegato Jakobson e prima ancora
Saussure, fondato su una convenzione tra i parlanti, possiamo distinguere,
all’interno della lingua, un ritmo “naturale” (lo dico tra virgolette),
finalizzato esclusivamente alla comunicazione, dunque puramente
denotativo (corrispondente a quello che Roland Barthes chiama il
“grado zero” della scrittura): l’ho fatto io; da un ritmo
“artificiale” che comunica e aggiunge un supplemento di comunicazione,
denotativo e connotativo al tempo stesso: io, l’ho fatto.
La lingua è dunque senso e ritmo, natura e artificio, necessità
e lusso. Come ogni artificio, può riprodurre la natura. Immaginate
le gocce che cadono da un rubinetto e pensate alla fontana malata
di Palazzeschi: “Clof, clop, cloch / cloffete, / cloppete, / clocchete,
/ chchch... / È giù, / nel cortile, / la povera / fontana / malata;
/ che spasimo! / sentirla / tossire. / Tossisce, / tossisce, / un
poco / si tace... / di nuovo / tossisce”.
Qui adesso dovremo parlare del ritmo poetico, ma sarà bene insistere
subito sul fatto che ogni atto linguistico si fonda su un ritmo.
Come diceva un vecchio studioso di retorica francese, a proposito
delle figure retoriche: si fanno più metafore in un giorno di mercato
che in un’opera d’arte.
È ritmo la lingua che parliamo. È ritmo la lingua che scriviamo,
sia che scriviamo in prosa sia che scriviamo in versi. La diversa
natura di questi ritmi (e il diverso modo in cui noi li riconosciamo
e li percepiamo) è data soltanto dal di più di artifici che via
via si pretendono per formare quei ritmi: il ritmo della lingua
che parliamo, il ritmo della prosa, il ritmo della poesia. Artifici
che, come subito vedremo, fra l’altro, non sono fissi e immutabili
ma cambiano continuamente nel tempo. Dire dunque che “il verso è
fondato sul ritmo” (definizione che ancora ricorre in qualche manuale
di metrica, sia pure con qualche aggiunta o integrazione o correzione)
è una pura sciocchezza. Come se la prosa non possedesse un suo ritmo:
«Quel ramo del lago di Como che volge a mezzogiorno»..., e non c’è
bisogno di continuare.
E tuttavia noi percepiamo “Quel ramo del lago di Como”, ecc. come
prosa (fra poco vedremo qualche altro esempio); mentre percepiamo:
“Nel mezzo del cammin di nostra vita, / mi ritrovai per una selva
oscura”, ecc. come versi.
Si tratta dunque di definire il verso, anche in rapporto alla prosa:
impresa che sarebbe molto più facile se l’uomo si fosse espresso
sempre e soltanto in versi (o sempre e soltanto in prosa): il che
per fortuna non è avvenuto; impresa che è invece resa ancora più
difficile dal fatto che a un certo punto della storia (all’inizio
del Novecento) è avvenuta una rivoluzione tale che tutti i canoni
precedenti sono saltati in aria, è nato il verso libero, si è costituito
(ed è ormai già da tempo divenuto tradizione) il cosiddetto canone
novecentesco. E allora la definizione di verso deve essere tale
che vi debba rientrare tanto il verso di Dante Alighieri che quello,
mettiamo, di Ungaretti.
Insomma, ancora nella metà inoltrata dell’Ottocento sarebbe stata
accettabile una definizione del verso come la seguente: “Il verso
è un segmento di un certo numero di sillabe, con una certa disposizione
di accenti che ne determina il ritmo, legato dalle omofonie finali
che chiamiamo rime ad altri segmenti uguali o omogenei”.
Tre, dunque, i connotati del verso: metro, cioè misura; ritmo,
cioè (in accezione ristretta, anzi ristrettissima come vedremo fra
poco)disposizione regolata degli accenti; rima, cioè parallelismo
fonico fra le terminazioni dei versi. La rima è ancora, a quel tempo
(dico nell’Ottocento, nella metà inoltrata dell’Ottocento), essenziale
alla definizione del verso: sin dalle origini della letteratura
italiana, Rime si sono intitolati molti canzonieri; e rima
è, per sineddoche, sinonimo della poesia stessa. In Purg.
XXIV 51: nove rime dice Dante riferendosi ai componimenti
stilnovistici; e in Purg. XXVI 99 Guinizzelli chiama rime
d’amore le poesie d’argomento amoroso; in Inf. XIII 48
persino l’Eneide di Virgilio è detta, con evidente anacronismo,
rima; e Petrarca, Rvf. I 1: “Voi ch’ascoltate in rime
sparse il suono”.
Ma da un certo punto in poi, già a partire dagli ultimi decenni
del secolo scorso, tutte queste nozioni entrano, come ho detto in
crisi: i tre elementi costitutivi del verso tradizionale non bastano
più a definirlo: i versi possono benissimo essere non legati dalla
rima, possono avere un numero variabilissimo e non precostituito
di sillabe, e, quanto al ritmo, lo ripeto, esso non può bastare
da solo a definire il verso dal momento che, com’è ovvio, anche
la prosa possiede un suo.
In queste condizioni, la più attendibile definizione del verso,
in opposizione a ciò che diciamo prosa, rischia di essere quella
più lapalissiana e apparentemente più banale: verso è quella linea
che va a capo prima che si arrivi al margine destro del foglio.
E’ una definizione che può lasciare perplessi, e può persino prestarsi
a facili ironie, ma in fondo è quella più vicina all’etimologia
della parola “verso” (versus indicava, nel latino rustico,
il giro dell’aratro, dunque una linea che gira, che va a capo, in
opposizione a prorsus, ‘che va in linea retta’), ed è anche
la definizione che meglio dà conto del valore che in poesia (e
soprattutto nella poesia contemporanea) assumono le pause, gli spazi
bianchi. E’ il principio della segmentazione, del suddividersi
del discorso in unità (unità versali, versi) che non necessariamente
coincidono con unità logico‑sintattiche. In altri termini,
i testi in versi, a differenza di quelli prosastici, sono costruiti
e si presentano suddivisi in segmenti delimitati da pause che non
obbligatoriamente coincidono con le pause del discorso sintattico.
Noi, oggi (noi, voglio dire, con la coscienza metrica che oggi
possediamo: che è una coscienza diversa da quella che possedevano
i lettori dei secoli passati; non più povera: semplicemente diversa),
noi oggi non riconosciamo più come poesia un testo moderno che
non vada a capo nel modo che s’è detto, mentre nella poesia tradizionale
l’a capo può anche mancare, come disposizione grafica: i versi
della Divina Commedia li possiamo scrivere anche uno appresso
all’altro, di seguito sulla stessa linea, anche senza barre o punti
di separazione (come infatti avviene in molti codici medievali),
e però noi li riconosciamo immediatamente come versi; mentre non
riconosciamo come versi, ad esempio, quelli di Bastimento in
viaggio di Dino Campana se li leggiamo, come è possibile leggerli,
nella versione in stesura continua che lo stesso Campana ne ha
fatto (al massimo ci appaiono come prosa lirica, come poema in
prosa; e non a caso prosa lirica e poema in prosa sono generi propri
del Novecento). Al contrario, noi percepiamo come poesia (nel
senso di non‑prosa) anche un articolo di giornale, se ci viene
presentato trascritto come se fosse una poesia.
Sono stati fatti molti esperimenti in proposito; celebre è quello
pubblicato da Jean Cohen in Strutture del linguaggio poetico,
un libro del 1966 tradotto in italiano nel 1974 e edito da Il Mulino
di Bologna. Cohen riporta un piccolo frammento di un articolo di
giornale, ma lo scrive “come se” fosse una poesia, andando a capo
nel modo seguente:
Ieri, sulla Nazionale sette
un’automobile
correndo a cento all’ora s’è schiantata
su un platano
i suoi quattro occupanti sono tutti
morti.
E commenta: “Evidentemente, questa non è poesia. Cosa che dimostra
chiaramente come il procedimento preso isolatamente, senza l’aiuto
di altre figure, non è in grado di costruirla. Ma, diciamolo pure,
non si tratta già più di prosa. Le parole si animano, la corrente
passa, come se la frase, solo in virtù del suo taglio aberrante,
stesse per risvegliarsi dal suo sonno prosaico”.
Tutto ciò pone naturalmente sul tappeto problemi assai complessi
e su cui, direi, non c’è il minimo accordo da parte degli studiosi:
alcuni dei quali, tuttavia, confondono la cosiddetta poeticità
con la metricità. Ma è di questioni metriche che noi dobbiamo parlare,
e sarebbe un errore capitale non tenere distinti i piani del discorso.
Sul piano della metricità, è poesia tanto quella di Dante quanto
quella, mettiamo, di “Trenta dì conta novembre”, con quel che segue;
mentre non è poesia, che so, l’Addio ai monti dei Promessi
Sposi semplicemente per il fatto che non si tratta di un discorso
versificato. Allo stesso modo, un verso completamente aritmico noi
lo percepiamo come verso – sia pure magari come verso “sbagliato”
– in un contesto versificato, mentre un perfetto endecasillabo,
con tutti gli accenti al posto giusto, non lo percepiamo come verso
al di fuori di tale contesto. Se io dico: “I metodi attuali della
critica”, voi pensate al titolo di un libro (è infatti il titolo
di un libro); se dico: “Letteratura dell’Italia unita”, voi pensate
al titolo di una splendida antologia curata dal compianto Contini,
gran maestro della materia che qui stiamo trattando; non pensate
che entrambi sono endecasillabi, endecasillabi con tutte le carte
in regola. Se, viceversa, aprite un libro di Ungaretti e leggete,
al centro di una pagina completamente bianca, queste sole parole:
“D’altri diluvi una colomba ascolto”, voi lo riconoscete immediatamente
come verso, un canonico endecasillabo anch’esso; lo riconoscete
come verso perché è in un libro di versi, perché si trova all’interno
di un discorso versificato (è la poesia intitolata Una colomba,
in Sentimento del tempo, e porta la data del 1925). Allo
stesso modo, se state leggendo un brutto libro di un cattivo poeta,
voi potrete dire che quel certo verso è brutto, è sgangherato,
è completamente aritmico, ma sicuramente lo considererete un verso:
è, infatti, un verso, e se vi sembra brutto, sgangherato, aritmico
e sbagliato è perché ci sono delle ragioni metriche che vi portano
a considerarlo tale.
La differenza dunque tra il ritmo del verso e quello della prosa
sta nel principio di segmentazione: “nessun elemento tecnico, ‘concreto’
distingue da solo, in modo decisivo e sempre valido, il verso dalla
prosa, se non la segmentazione del discorso: una realtà cui rimanda
l’indizio grafico dell’a capo (indispensabile al verso libero),
e che può esistere perché esiste un contesto culturale entro il
quale si ammette, come cosa scontata, la distinzione tra verso e
prosa. [...] Ridotto alla sua caratteristica più generalizzabile,
il discorso in versi si fonda su una struttura duplice: da un lato
la struttura semantica e sintattica, che lo articola in frasi (unità
di significato), dall’altra quella metrica, che lo articola in segmenti
non motivati dal significato (versi, unità metriche). I versi e
le unità metriche in genere possono obbedire a regole rigorose,
oppure essere di forma anche completamente libera, identificabili
solo perché autore e pubblico concordano sul principio della segmentazione:
in entrambi i casi tale segmentazione è una forma di scansione del
tempo reale o ideale del testo” (Beltrami).
Rispetto alla prosa, il verso si configura come una sorta di “violenza
organizzata”. La segmentazione versale è infatti extralinguistica,
e in tal senso “artificiale”, fissata e accettata in base a una
convenzione letteraria: tanto è vero che la fine del verso può anche
cadere fra elementi del discorso legati in maniera molto stretta
dal punto di vista logico e grammaticale”. Che è quello che avviene
con l’enjambement, o spezzatura: termini che indicano la
non coincidenza fra la fine del verso e la fine della frase, cioè
tra la pausa metrica e la pausa sintattica, ribadendo con ciò la
natura del verso come «scarto in rapporto alle regole del parallelismo
del suono e del senso che regna in ogni prosa» (Cohen).
Anche l’enjambement è dunque una figura del ritmo, sebbene
nella metrica tradizionale il principio regolatore del ritmo sia
visto essenzialmente nel succedersi variamente combinato di sillabe
toniche, di sillabe atone e di pause, per cui gli accenti si distribuiscono
nei versi secondo figure convenzionali rispondenti al principio
della periodicità (con ripresa, per definire le varie scansioni
del verso, dei termini della metrica greco-latina: ritmo giambico,
trocaico, anapestico, dattilico... ritmi ascendenti e ritmi discendenti...
versi sinarteti e asinarteti, ecc.).
«La metrica libera ha lasciato cadere non il ritmo, ma questa periodicità
come principio fondatore» (Menichetti), e però, quasi a far da contrappeso,
ha valorizzato tutti quegli altri elementi che un tempo venivano
studiati come “elementi facolativi”, quasi come “valori aggiunti”
e che invece diventano costitutivi della nozione stessa di ritmo
poetico: la rima stessa, una volta che non è più obbligatoria, diviene
elemento tanto più forte, essa stessa figura del ritmo. E il vuoto,
la pausa, il silenzio, assume lo stesso valore del pieno, della
scrittura, della continuità.
Pensate soltanto al primo Ungaretti, all’Ungaretti dell’Allegria,
a quei suoi versicoli di cui una pratica critica insensata e ancora
dura a morire tenta di sottolineare il ricomporsi in endecasillabi,
in settenari, quasi a volerlo ricondurre a una tradizione e come
se questo gli potesse dare una dignità che altrimenti non avrebbe.
Per cui si dice, ad esempio, ecco, sentite: “Si sta come / d’autunno
/ sugli alberi / le foglie”, nonostante siano quattro versi, suonano
come due perfetti settenari... Il fatto è che Ungaretti non ha voluto
scrivere due perfetti settenari, ha preso un doppio settenario (metro
antico, di tradizione persino più antica dell’endecasillabo) e l’ha
scomposto in quattro versi, e quei quattro versi non suonano affatto
come due settenari: gli spazi bianchi, le pause, il silenzio suonano
ancora di più del pieno delle sillabe e delle parole, parlano ancora
più delle parole che riempiono quei quattro versi, ci dicono esse
stesse il senso di solitudine, di annientamento, di precarietà,
di morte imminente del soldato al fronte. Non va sottolineato il
ricongiungersi di Ungaretti a una tradizione (il che, oltretutto,
è ovvio per lui come per qualsiasi altro poeta), ma il valore di
rottura rispetto a quella tradizione che con la sua operazione egli
compie.
Tutto, dunque, diventa funzionale al ritmo, e tutto è determinato
dal ritmo. Per Shapiro e Beum, due metricisti americani, il ritmo
«è la qualità totale del movimento di un verso», e il senso
stesso è figura del ritmo perché “è impossibile percepire veramente
il ritmo di un verso senza averne in un certo modo colto il senso”.
Già Osip Brik, della scuola dei formalisti russi, aveva definito
il verso come “unità ritmico-sintattica originaria”, cioè come una
combinazione di parole costrette ad ubbidire contemporaneamente
a due tipi di legge: quella della sintassi prosastica e quella della
sintassi ritmica. “Questa combinazione si distingue da quella puramente
sintattica per il fatto che le parole sono inserite in un’unità
ritmica determinata o verso, e da quella puramente ritmica, in quanto
in essa le parole si combinano non solo in base alle caratteristiche
foniche, ma anche a quelle semantiche”.
Ne deriva che “il verso [...] non esiste che come rapporto di suono
e di senso. Esso è dunque una struttura fono-semantica” (Cohen).
Così anche Bertinetto: “Io ritengo, in effetti, che il ritmo possieda
nel testo poetico una dimensione autonoma, cioè sia caratterizzato
da un semantismo specifico [...]; ma credo anche che nessun verso
possa essere letto senza che si faccia riferimento al suo significato”.
Non esiste un ritmo indipendente dal significato. “Altrimenti –
osservava Eliot – potrebbe esservi una poesia di grande bellezza
musicale ma priva di senso, come a me non è mai accaduto di leggere”.
Persino nei casi-limite (Eliot ricordava la “poesia assurda” di
Edward Lear, i suoi limericks), “l’ ‘assurdità’ non consiste nella
mancanza, bensì nella parodia del senso, e questo è il suo significato”.
Così è possibile spiegare la differenza tra metro e ritmo. Il ritmo
è qualcosa di concreto, che si esprime nel verso concretamente realizzato
e nel rapporto che i versi di un componimento intrattengono tra
loro. Il metro, al contrario, è qualcosa di astratto, “la regola
che astrattamente regge il verso e che si è, attraverso una serie
ininterrotta di applicazioni, composta in tradizione; la metrica
è un complesso di istituzioni ricavate dal concreto della poesia,
e alle quali ci si è adeguati nella misura in cui sembravano volta
per volta rispondere alle esigenze espressive. Ma ogni realizzazione
contempla un margine di libertà rispetto alla regola, quando non
uno scarto vero e proprio, ed è solo a proposito di questa realizzazione
che si può propriamente parlare di ritmo” (Esposito).
Il ritmo dunque si innesta sul metro, e il verso si realizza solo
quando il metro si “riempie” per così dire del ritmo. Possiamo dunque
definire la poesia come ritmo regolato dal metro. Ed è il ritmo
che fa la differenza.
Vi sembrano, ad esempio, uguali questi due versi: «Tanto gentile
e tanto onesta pare» e “fior’, frondi, ^ herbe, ^ ombre, ^ antri,
^ onde, ^ aure soavi” (Petrarca)? No, evidentemente. Eppure sono
entrambi due canonici endecasillabi. Ma nel verso di Petrarca le
sillabe grammaticali sono ben sedici, costrette alla misura endecasillabica
da ben cinque sinalefi, le parole sono tutte bisillabe e tutte sostantivi
(più l’aggettivo finale), e tutte e otto le parole di cui è composto
il verso portano un accento forte e di pari intensità.
Se soltanto pensiamo all’endecasillabo, cioè a un verso che si
definisce come un verso di dieci posizioni, con l’ultima obbligatoriamente
accentata (cui possono seguire una, nessuna o due sillabe, a seconda
che si tratti di un endecasillabo piano, tronco o sdrucciolo), anche
soltanto a considerare la posizione degli accenti, e anche prendendo
in considerazione soltanto i cosiddetti endecasillabi canonici (che
prevedono un secondo accento sulla quarta o sulla sesta posizione)
si ricavano, secondo i calcoli di un antico metricista, Levi, ben
276 possibilità di combinazioni ritmiche diverse.
Senza contare tutte le attestazioni di endecasillabi cosiddetti
non canonici, con accento di 5a, tipo i montaliani “in
ogni ombra umana che si allontana | qualche disturbata Divinità”
che fatichiamo persino a sentire come endecasillabi proprio perché
quel modello ritmico, sia pure attestato sin dalle Origini, non
si è costituito in tradizione.
E qui stiamo parlando soltanto di accenti, mentre abbiamo detto
che non solo da questi è generato il ritmo. In un verso famoso come
quello che conclude il canto di Paolo e Francesca – “E caddi come
corpo morto cade” – è chiaro che alla realizzazione del ritmo concorrono
anche altre figure: non solo la scansione giambica, con gli accenti
disposti sulle sedi pari del verso, ma l’allitterazione quadrimembre
sul suono /k/, la figura etimologica (caddi / cade), l’assonanza
tra due parole a contatto (corpo morto), il fatto che esso
sia isolato rispetto al verso precedente (che si conclude col punto
fermo), il fatto infine che esso sia l’ultimo verso del canto e
dunque capace di propagare nel silenzio che segue il proprio suono,
il tonfo del corpo che cade.
E con ciò il discorso, necessariamente sommario, si sposta sulle
figure foniche, che non sono altra cosa rispetto al ritmo, ma sono
esse stesse, come credo di aver già detto, elementi del ritmo, nell’accezione
larga che qui ho proposto, intendendo come ritmo la totalità dei
fenomeni fonici e sintattici: l’insieme, cioè, di quelli che Beccaria
chiama “elementi di ‘relazione’” (metro, sintassi) e degli elementi
“qualitativi” (l’allitterazione, il timbro, la rima, ecc.). Perché
su una cosa almeno non credo possano sussistere dubbi: in poesia,
“il significato del discorso non è mai in grado di accogliere tutto
il senso (né lo è il significante da solo). Il senso poetico si
compie nella combinazione di un significato calato in convenzioni
ritmiche vincolanti e di un significato liberato in suoni e figure
ritmiche” (Beccaria).
Questi “elementi qualitativi” non avremo, ovviamente, il tempo
di discuterli tutti. Non sarà possibile non dico approfondire ma
nemmeno cominciare un discorso sui fenomeni allitterativi, sui quali
proprio Gian Luigi Beccaria ha scritto pagine fondamentali nel volume
che si intitola L’automomia del significante. Ma almeno dovrà
essere fatto qualche accenno sulla rima, la figura fonica per eccellenza
non solo nella poesia tradizionale, dove era obbligatoria, ma anche
nella poesia novecentesca dove, proprio perché non è obbligatoria,
quando c’è assume una risonanza ancora maggiore.
A dire la verità le polemiche sulle rima iniziano molto prima del
Novecento e del verso libero, anzi trovano la loro massima esplosione
nel Settecento, in epoca illuminista, quando infatti si afferma
l’endecasillabo sciolto. La polemica, allora, era tra quanti ritenevano
la rima elemento ancora necessario alla poesia (tra gli altri, ad
es., Baretti e Quadrio: “bisogna confessare che la rima nelle poesie
italiane è così necessaria, che senza essa [...] il verso rimane
tanto simile alla prosa che non pare verso”) e quanti, invece, ne
rifiutavano le regole coercitive: la rima, secondo quella scuola
di pensiero, “contrastava con la ragione e contrastava anche con
le norme della poesia classica, nella quale essa è assente, ed appariva
quindi come un indizio di barbarie perdurante, un segno di inferiorità
per le lingue moderne, che rispetto alle lingue classiche non potevano
farne a meno. La polemica nel ‘700 fu così alimentata da due motivi:
da una parte i classicisti sostenevano l’origine barbarica della
rima, attribuendone l’invenzione ai Goti e agli Arabi, dall’altra
i razionalisti sentivano la rima come un fatto irrazionale, in quanto
vincola il poeta e lo costringe ad unire due parole che non hanno
legami concettuali” (Fubini).
Un secolo dopo, così Leopardi esprimeva (in Zibaldone, 13
ottobre 1821), in termini di proporzioni matematiche, la sua opinione
in proposito: “Ne’ versi rimati, per quanto la rima paia spontanea,
e sia lungi dal parere stiracchiata, possiamo dire per esperienza
di chi compone, che il concetto è mezzo del poeta, mezzo della rima,
e talvolta un terzo di quello e due di questa, talvolta tutto della
sola rima. Ma ben pochi sono quelli che appartengono interamente
al solo poeta, quantunque non paiano stentati, anzi nati dalla cosa”.
È anche sulla base di queste riserve sulla rima che si spiega la
nascita della grande canzone libera leopardiana: nella quale la
rima, quand’anche non abolita del tutto, si rarefà e soprattutto
si colloca in sedi non prefissate.
Eppure anche Leopardi non può fare del tutto a meno della rima,
e persino oggi, alla fine di questo nostro secolo che aveva decretato
la morte della rima, si è affermata una scuola di poeti (i cosiddetti
neometrici) che hanno provveduto alla rivalutazione di questo fondamentale
istituto. Insomma pare che la poesia stessa italiana, in se stessa,
non possa fare a meno della rima. Lo ha detto anche Montale:
Le rime sono più noiose delle
dame di San Vincenzo: battono alla porta
e insistono. Respingerle è impossibile
e purché stiano fuori si sopportano.
Il poeta decente le allontana
(le rime), le nasconde, bara, tenta
il contrabbando. Ma le pinzochere ardono
di zelo e prima o poi (rime e vecchiarde)
bussano ancora e sono sempre quelle.
Vediamo brevemente quali sono le funzioni della rima.
Innanzi tutto, la rima assolve a una funzione mnemotecnica (si
pensi, in questo senso, alle filastrocche, o ai proverbi; alla capacità
di certi contadini semianalfabeti o addirittura analfabeti, di ricordare,
soprattutto in Toscana, interi canti della Divina Commedia;
e recentemente ho letto che il povero Bassani, sottoposto a un imbarazzante,
penoso, crudele processo per determinarne le capacità di intendere
e di volere, non ricorda più neppure quali libri abbia scritto,
ma congeda i periti psichiatrici che lo interrogano recitando loro
qualche verso di Dante).
La rima assolve poi anche ad un’importante funzione metrica: dal
momento che i vocaboli in rima contengono l’ultimo accento dei rispettivi
versi, essa segnala che il verso è finito, si è concluso il periodo
ritmico: nella versificazione anisosillabica delle origini e nei
testi in cui si succedono liberamente versi di varia misura, la
rima rappresenta in pratica l’unico segnale in tal senso; quando
è collocata all’interno di un verso, la rima (rimalmezzo) sottolinea
la cesura, e in questo caso la sua funzione demarcativa è ancora
più forte, dal momento che la fine del verso è comunque marcata
anche a prescindere dalla presenza della rima.
Inoltre, poiché collega i versi in strutture determinate, la rima
assolve al compito di strutturazione strofica; essa, cioè, “pausa,
ordina e organizza la forma” (Menichetti), e infatti molte forme
strofiche si definiscono non solo in base al numero e al tipo dei
versi ma anche alla rima (la terza rima dantesca, l’ottava rima,
ecc.); e non solo organizza le strofe ma può anche collegare le
strofe tra di loro (si pensi, ad esempio, alla rima-refrain
che chiude tutte le stanze della ballata, o alla geminazione delle
strofe caratteristica dell’ode e della canzonetta): insomma può
anche avere una funzione interstrofica.
Ma la funzione più importante della rima è evidentemente quella
fonica. Sistematica o no, “la rima si carica in poesia di una speciale
pregnanza, in quanto portatrice di reiterazione fonica; pur non
essendo indispensabile al funzionamento metrico, essa cioè incarna
in modo particolarmente evidente uno dei tratti più tipici e costanti
del metro, l’iteratività” (Menichetti). La rima dunque istituisce
un sistema regolare di concordanze foniche associando parole in
base alla ripetizione dei suoni, sulla base del principio del parallelismo,
della periodicità, della ricorsività.
Ma la rima non è un fatto astrattamente fonologico: essa instaura
un rapporto fra le parole che rimano insieme; suoni e significati
sono congiunti e perciò la rima crea un immediato rapporto di senso
fra le parole collegate, assolvendo a una funzione semantica. “Quantunque
la rima sia basata, per definizione, sulla ricorrenza regolare di
fonemi, o gruppi di fonemi equivalenti, considerare la rima soltanto
dal punto di vista del suono sarebbe una semplificazione arbitraria.
La rima implica necessariamente una relazione semantica fra le unità
che rimano fra loro” (Jakobson), sottolineandone, in contrasto con
l’identità del suono, la divaricazione del senso.
La casistica è immensa: si passa dalle cosiddette rime identiche
(come Cristo, che in Dante, nella Commedia, non può
rimare che con se stesso), alle rime parallele ai significati (la
vita : smarrita, l’oscura : dura, per
rimanere ancora a Dante), alle rime devianti per associazione di
parole semanticamente a contrasto, con effetti di sorpresa o di
comicità. Si cita sempre, a proposito, il Nietsche : camicie
di Gozzano, ma c’è già uno stupefacente repertorio nel Carducci
di Juvenilia, che fa rimare appaio con salumaio,
fantasia con castroneria, altare con russare,
persone con indigestione, ecc. In questo senso, il
tanto bistrattato Carducci è stato il primo che sistematicamente
ha introdotto nella poesia italiana, e nella sede privilegiata della
rima, parole solitamente considerate indegne di entrare in poesia:
persino cavolfiori,in rima addirittura con amori,
per non parlare del cesso in rima con dimesso. È da
qui che inizia il corrodimento di quella tradizione stilnovista
e petrarchista che aprirà la strada all’esperienza dei crepuscolari
e di tanta parte della poesia novecentesca.
E proprio perché tutto è già stato sperimentato e tutto è stato
dissacrato, la rima può, nella poesia del Novecento che l’ha respinta,
non solo rifiorire, ma rifiorire nelle sue forme più semplici ed
elementari, quasi ricominciando il gioco dall’inizio, e con lo stesso
effetto di sorpresa che le rime scioccanti di Carducci potevano
generare in un lettore ottocentesco. Ecco allora Caproni: “Per lei
voglio rime chiare, usuali: in are. / Rime magari vietate, / ma
aperte: ventilate. / Rime coi suoni fini / (di mare) dei suoi orecchini.
/ O che abbiano coralline / le tinte delle sue collanine. / Rime
che a distanza / (Annina era così schietta) / conservino l’eleganza
/ povera, ma altrettanto netta. / Rime che non siano labili, / anche
se orecchiabili. / Rime non crepuscolari, / ma verdi, elementari”.
E prima di lui, Saba: “Amai trite parole che non uno / osava. M’incantò
la rima fiore / amore, / la più antica difficile del mondo”.
Lo stesso Saba ha dato una definizione della rima, e soprattutto
della funzione semantica che essa assume, del suo peso e della sua
necessità, in termini che è difficile non condividere: “La rima
può essere ovvia come fiore amore, o creare impensati accostamenti.
Ma solo allora è perfetta, quando, se volti in prosa il componimento,
non puoi sostituire, senza danno del significato, le parole che
rimano”.
Altro ancora ci sarebbe da dire, ovviamente, e molto più in profondità,
sulla rima e sulle altre figure foniche.
Non c’è tempo di farlo. Preferisco allora dedicare gli ultimi minuti
di questa conversazione a un fenomeno che viene solitamente taciuto
o sottovalutato nei trattati di metrica: quello cioè dell’esecuzione.
Noi siamo abituati a pensare al verso come a qualcosa che è stato
fissato una volta per sempre. Non è così. Un verso viene per così
dire rivitalizzato, rielaborato, ogni volta che viene letto, riletto.
È un fenomeno che ci appare in tutta evidenza quando ascoltiamo
un attore. Pensate, che so io, al canto di Paolo e Francesca letto
da Albertazzi o Gassmann o Benigni. Non è la stessa cosa. Ma succede
lo stesso anche a noi: la lettura di oggi è diversa da quella di
ieri, la lettura mentale è diversa da quella ad alta voce: cambiano
le situazioni, le intenzioni comunicative, gli strumenti; cambia
l’uditorio; è diversa (si spera in accrescimento) la comprensione
del testo che io oggi possiedo rispetto a quella di ieri. In ogni
caso, chi legge innesca nel verso, chi più chi meno, il proprio
ritmo, che si sovrappone a quello del poeta – e nei casi peggiori
lo cancella.
È ovvio, allora, che il metro e il ritmo di un testo non vanno
dedotti dall’esecuzione. Qualsiasi esecutore, infatti, introduce
nella poesia qualcosa che non è esattamente proprietà di
quella poesia. L’esecuzione è dunque l’atto nel quale “il ricevente
stesso (nella lettura personale) o un intermediario (l’autore stesso
in quanto presenti il testo ad un pubblico, o un lettore, quando
il testo venga recitato) attualizza una sola delle forme prosodiche
rese possibili dalla realizzazione, senza però cancellare le altre,
disponibili per altre esecuzioni: l’esecuzione è sempre rinnovabile,
anzi probabilmente mai ripetuta nella stessa identica forma, mentre
la realizzazione permane immutata proprio perché si tratta di un
campo di possibilità” (Beltrami).
È nell’esecuzione che il verso si trasforma in messaggio sonoro.
E qui nascono mille problemi: esiste una sola esecuzione corretta
o tutte le esecuzioni, in quanto atti individuali, sono corrette?
Dal momento che il verso realizza un conflitto fra metro e sintassi,
l’esecuzione deve rispettare le leggi del metro o quelle della sintassi?
È possibile un compromesso?
Problemi vecchi, in altri tempi molto dibattuti, oggi un po’ meno,
comunque mai risolti.
Io credo, con Pazzaglia, che sicuramente “il modello versale impone
un indugio, un’intensione ritmico-tonale su alcuni punti privilegiati,
non solo e non sempre per ragioni di senso”.
Pensate soltanto al vistoso fenomeno dell’enjambement: una
lettura legata dei due (o più) versi interessati al fenomeno, per
quanto raccomandata in alcuni manuali (ad es. Bausi-Martelli: “la
lettura, pertanto, dovrà pronunciare senza alcuna pausa i versi
interessati da enjambement”), scivola verso la prosa: “non
osservare i limiti del verso e la pausa intenzionale alla fine significa
frustrare non solo l’intenzione metrica del poeta, ma anche il senso
artistico del suo verso” (Zirmunskij).
All’inizio del Novecento un grande metricista francese, Grammont,
sosteneva: “Quando c’è conflitto fra metro e sintassi, è sempre
il metro che deve prevalere, e la frase deve piegarsi alle sue esigenze”.
“In tal modo, per quanto paradossale possa sembrare”, aggiunge Cohen,
“la vera dizione poetica è inespressiva. Essa deve tendere all’uniformità.
[...] Soltanto questa dizione è fedele all’essenza del verso, che
è il “versus”, il ritorno, vale a dire l’identità”.
Col che siamo tornati al punto di partenza: al verso / versus
come periodicità. Come struttura in cui significanti e significati
sono coesi nella determinazione del senso. Ecco, io credo
che il senso della poesia risieda precisamente in questo
stretto connubio, in questo inscindibile connubio di significanti
e significati. Tra tutte le arti, questa è una peculiarità che appartiene
forse alla sola poesia. La musica, la pittura, la danza possono
essere anche atematiche; si possono dare suoni e movimenti sprovvisti
di significato; si possono ritrovare strutture e simmetrie puramente
formali. La poesia, al contrario, è gravata sempre di significati
per il semplice fatto che essa fa uso di segni già di per sé provvisti
di significato. Tentare di interpretare una poesia ignorandone i
significati è folle. E tuttavia non ha senso neppure interpretare
la poesia sulla base dei soli significati. Perché in poesia gli
elementi del ritmo (i suoni, gli accenti, la rima) non sono puri
accessori, non costituiscono un supporto esteriore e tanto meno
facoltativo. Essi sono fondamentali al linguaggio poetico nella
misura in cui esso non è mai semplicemente denotativo ma connotativo;
e la funzione poetica promuove ogni suo elemento a segno, a figura.
La nozione larga di ritmo che ho cercato di definire coincide allora,
io credo, con qualcosa di molto più importante del significante
o del significato separatamente presi o studiati. Lungi dall’identificarsi
col mero significante (anzi addirittura con un suo costituente),
lungi dall’essere altra cosa dal significato, il ritmo poetico promuove
il significante a significato ed esalta il significato nel significante.
Ed è precisamente in questo che risiede il senso della poesia.
BIBLIOGRAFIA MINIMA
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Il Mulino, 1972.
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Pazzaglia (a cura di), La metrica, Bologna, Il Mulino, 1972.