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Ritmo, modelli ritmici, valori eufonici

Francesco Paolo Memmo

 
 

 

 

Esiste un ritmo naturale: l’acqua che cade, goccia a goccia, da un rubinetto, lo sciabordio delle onde sulla battigia...

Esiste un ritmo, anch’esso naturale, ma interno al nostro corpo: il battito cardiaco, le pulsazioni del sangue nelle vene... È il ritmo che regola la nostra stessa vita: ove quel ritmo si corrompa c’è la malattia, ove cessi c’è la morte.

Esiste un ritmo che si impara, a furia di fatica e di allenamenti, ma una volta appreso diventa così naturale che neppure più ci si accorge che esso è stato così duramente acquisito: l’atleta che corre i 400 metri ad ostacoli e che tra un ostacolo e l’altro deve compiere quindici passi, e quindici passi compie. Se in un segmento di pista non riesce a tenere quel ritmo, se va, come si dice, fuori ritmo, compromette il salto dell’ostacolo, si sbilancia, o addirittura lo urta, quell’ostacolo, penalizzando la propria performance. Ma poiché quel ritmo è frutto di allenamenti, c’è sempre la possibilità di migliorarlo: l’atleta che riesce a farne tredici, di passi, tra un ostacolo e l’altro (ma sempre tredici, appunto) migliorerà magari il record del mondo (anche Dante, per uscir fuor di metafora, dovette inventarsi un nuovo metro e un nuovo ritmo, per scrivere la Commedia: dovette correre non con i due passi, mettiamo, del suo maestro Brunetto Latini, che scriveva in distici a rima baciata, ma con i tre della terza rima, che appunto dovette inventarsi).

Esiste un ritmo artificiale, ma funzionale, essenziale al funzionamento di un certo meccanismo: il ticchettio dell’orologio, uno stantuffo, una macchina perforatrice, il codice Morse per la telegrafia: punto, linea, punto...

Esiste un ritmo, anch’esso artificiale, ma funzionale al senso. Ad esempio quando disponiamo in un certo ordine le parole nella frase: L’ho fatto io; oppure: io, l’ho fatto. Cambia il ritmo, ma cambia anche il senso del messaggio.

E con ciò siamo entrati nel codice linguistico, che è quello che qui oggi ci interessa. Il ritmo della lingua è naturale e artificiale al tempo stesso. È essenziale alla comunicazione (l’ho fatto io) e tuttavia è capace di comunicare un di più di informazione (io, l’ho fatto: cioè l’ho fatto proprio io, sono orgoglioso di averlo fatto io, o quant’altro può significare in diversi contesti comunicativi). Fermo restando che il codice linguistico è comunque artificiale, immotivato come ci ha spiegato Jakobson e prima ancora Saussure, fondato su una convenzione tra i parlanti, possiamo distinguere, all’interno della lingua, un ritmo “naturale” (lo dico tra virgolette), finalizzato esclusivamente alla comunicazione, dunque puramente denotativo (corrispondente a quello che Roland Barthes chiama il “grado zero” della scrittura): l’ho fatto io; da un ritmo “artificiale” che comunica e aggiunge un supplemento di comunicazione, denotativo e connotativo al tempo stesso: io, l’ho fatto.

La lingua è dunque senso e ritmo, natura e artificio, necessità e lusso. Come ogni artificio, può riprodurre la natura. Immaginate le gocce che cadono da un rubinetto e pensate alla fontana malata di Palazzeschi: “Clof, clop, cloch / cloffete, / cloppete, / clocchete, / chchch... / È giù, / nel cortile, / la povera / fontana / malata; / che spasimo! / sentirla / tossire. / Tossisce, / tossisce, / un poco / si tace... / di nuovo / tossisce”. 

Qui adesso dovremo parlare del ritmo poetico, ma sarà bene insistere subito sul fatto che ogni atto linguistico si fonda su un ritmo. Come diceva un vecchio studioso di retorica francese, a proposito delle figure retoriche: si fanno più metafore in un giorno di mercato che in un’opera d’arte.

È ritmo la lingua che parliamo. È ritmo la lingua che scriviamo, sia che scriviamo in prosa sia che scriviamo in versi. La diversa natura di questi ritmi (e il diverso modo in cui noi li riconosciamo e li percepiamo) è data soltanto dal di più di artifici che via via si pretendono per formare quei ritmi: il ritmo della lingua che parliamo, il ritmo della prosa, il ritmo della poesia. Artifici che, come subito vedremo, fra l’altro, non sono fissi e immutabili ma cambiano continuamente nel tempo. Dire dunque che “il verso è fondato sul ritmo” (definizione che ancora ricorre in qualche manuale di metrica, sia pure con qualche aggiunta o integrazione o correzione) è una pura sciocchezza. Come se la prosa non possedesse un suo ritmo: «Quel ramo del lago di Como che volge a mezzogiorno»..., e non c’è bisogno di continuare.

E tuttavia noi percepiamo “Quel ramo del lago di Como”, ecc. come prosa (fra poco vedremo qualche altro esempio); mentre percepiamo: “Nel mezzo del cammin di nostra vita,  / mi ritrovai per una selva oscura”, ecc. come versi.

Si tratta dunque di definire il verso, anche in rapporto alla prosa: impresa che sarebbe molto più facile se l’uomo si fosse espresso sempre e soltanto in versi (o sempre e soltanto in prosa): il che per fortuna non è avvenuto; impresa che è invece resa ancora più difficile dal fatto che a un certo punto della storia (all’inizio del Novecento) è avvenuta una rivoluzione tale che tutti i canoni precedenti sono saltati in aria, è nato il verso libero, si è costituito (ed è ormai già da tempo divenuto tradizione) il cosiddetto canone novecentesco. E allora la definizione di verso deve essere tale che vi debba rientrare tanto il verso di Dante Alighieri che quello, mettiamo, di Ungaretti.

Insomma, ancora nella metà inoltrata dell’Ottocento sarebbe stata ac­cettabile una definizione del verso come la seguente: “Il verso è un segmento di un certo numero di sillabe, con una certa disposi­zione di accenti che ne determina il ritmo, le­gato dalle omofonie finali che chiamiamo rime ad altri seg­menti uguali o omogenei”.

Tre, dunque, i connotati del verso: metro, cioè misura; ritmo, cioè (in accezione ristretta, anzi ristrettissima come vedremo fra poco)disposizione regolata degli accenti; rima, cioè parallelismo fonico fra le terminazioni dei versi. La rima è ancora, a quel tempo (dico nell’Ottocento, nella metà inol­trata dell’Ottocento), essenziale alla definizione del verso: sin dalle origini della letteratura italiana, Rime si sono intitolati molti canzonieri; e rima è, per sineddoche, sino­nimo della poesia stessa. In Purg. XXIV 51: nove rime dice Dante riferendosi ai componimenti stilnovistici; e in Purg. XXVI 99 Guinizzelli chiama rime d’amore le poesie d’argomento amoroso; in Inf. XIII 48 persino l’Eneide di Virgilio è detta, con evidente anacronismo, rima; e Petrarca, Rvf. I 1: “Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono”.

Ma da un certo punto in poi, già a partire dagli ultimi de­cenni del secolo scorso, tutte queste nozioni entrano, come ho detto in crisi: i tre elementi costitu­tivi del verso tradizio­nale non bastano più a definirlo: i versi possono benissimo essere non legati dalla rima, possono avere un numero variabilissimo e non precostituito di silla­be, e, quanto al ritmo, lo ripeto, esso non può basta­re da solo a defi­nire il verso dal momento che, com’è ovvio, an­che la prosa possiede un suo.

In queste condizioni, la più attendibile definizione del verso, in opposizione a ciò che diciamo prosa, rischia di es­sere quella più lapalissiana e apparentemente più banale: verso è quella linea che va a capo prima che si arrivi al margine destro del foglio. E’ una definizione che può lascia­re perplessi, e può persino prestarsi a facili ironie, ma in fondo è quella più vici­na all’etimologia della parola “verso” (versus indicava, nel la­tino rustico, il giro dell’aratro, dunque una linea che gira, che va a capo, in opposizione a prorsus, ‘che va in linea retta’), ed è anche la definizione che meglio dà conto del valore che in poe­sia (e soprattutto nella poesia contemporanea) assumono le pause, gli spazi bianchi. E’ il principio della segmentazione, del sud­divide­rsi del discorso in unità (unità versali, versi) che non ne­cessariamente coincidono con unità logico‑sintattiche. In al­tri termini, i testi in versi, a differenza di quelli prosa­stici, so­no costruiti e si presentano suddivisi in segmenti delimitati da pause che non obbligatoriamente coincidono con le pause del di­scorso sintattico. Noi, oggi (noi, voglio di­re, con la coscienza metrica che oggi possediamo: che è una coscienza diversa da quel­la che possedevano i lettori dei se­coli passati; non più povera: semplicemente diversa), noi og­gi non riconosciamo più come poesia un testo moderno che non vada a capo nel modo che s’è detto, men­tre nella poesia tra­dizionale l’a capo può anche mancare, come disposizione gra­fica: i versi della Divina Commedia li possiamo scrivere an­che uno appresso all’altro, di seguito sulla stessa linea, anche senza barre o punti di separazione (come infatti av­viene in molti codici medievali), e però noi li riconosciamo im­mediatamente come versi; mentre non riconosciamo come versi, ad esempio, quelli di Bastimento in viaggio di Dino Campana se li leggiamo, come è possibile leggerli, nella ver­sione in stesura continua che lo stesso Campana ne ha fatto (al massimo ci appaio­no come prosa lirica, come poema in prosa; e non a caso prosa li­rica e poema in prosa sono generi propri del Novecento). Al con­trario, noi percepiamo come poe­sia (nel senso di non‑prosa) anche un articolo di giornale, se ci viene presentato trascritto come se fosse una poesia.

Sono stati fatti molti esperimenti in proposito; celebre è quello pubblicato da Jean Cohen in Strutture del linguaggio poe­tico, un libro del 1966 tradotto in italiano nel 1974 e edito da Il Mulino di Bologna. Cohen riporta un piccolo fram­mento di un articolo di giornale, ma lo scrive “come se” fosse una poesia, andando a capo nel modo seguente:

 

Ieri, sulla Nazionale sette

un’automobile

correndo a cento all’ora s’è schiantata

su un platano

i suoi quattro occupanti sono tutti

morti.

 

E commenta: “Evidentemente, questa non è poesia. Cosa che di­mostra chiaramente come il procedimento preso isolatamente, senza l’aiuto di altre figure, non è in grado di costruirla. Ma, dicia­molo pure, non si tratta già più di prosa. Le parole si animano, la corrente passa, come se la frase, solo in virtù del suo taglio aberrante, stesse per risvegliarsi dal suo sonno prosaico”.

Tutto ciò pone natu­ralmente sul tappeto problemi assai complessi e su cui, di­rei, non c’è il minimo accordo da parte degli studiosi: alcu­ni dei quali, tuttavia, confondono la cosiddetta poeticità con la metricità. Ma è di questioni metriche che noi dobbiamo parlare, e sarebbe un errore capitale non tenere distinti i piani del discorso. Sul piano della metricità, è poe­sia tanto quella di Dante quanto quella, mettiamo, di “Trenta dì conta novembre”, con quel che segue; mentre non è poesia, che so, l’Addio ai monti dei Promessi Sposi semplicemente per il fatto che non si tratta di un discorso versificato. Allo stesso modo, un verso completamente aritmico noi lo perce­piamo come verso – sia pure magari come verso “sbagliato” – in un contesto versifi­cato, mentre un perfetto endecasillabo, con tutti gli accenti al posto giusto, non lo percepiamo come verso al di fuori di tale contesto. Se io dico: “I metodi at­tuali della critica”, voi pen­sate al titolo di un libro (è infatti il titolo di un libro); se dico: “Letteratura dell’Italia unita”, voi pensate al titolo di una splendida antologia curata dal compianto Contini, gran mae­stro della materia che qui stiamo trattando; non pensate che en­trambi sono endecasillabi, endecasillabi con tutte le carte in rego­la. Se, viceversa, aprite un libro di Ungaretti e leggete, al centro di una pagina completamente bianca, queste sole paro­le: “D’altri diluvi una colomba ascolto”, voi lo riconoscete immedia­tamente come verso, un canonico endecasillabo an­ch’esso; lo rico­noscete come verso perché è in un libro di versi, perché si trova all’interno di un discorso versificato (è la poesia intitolata Una colomba, in Sentimento del tempo, e porta la data del 1925). Allo stesso modo, se state leggen­do un brutto libro di un cattivo poeta, voi potrete dire che quel certo verso è brutto, è sganghe­rato, è completamente aritmico, ma sicuramente lo considererete un verso: è, in­fatti, un verso, e se vi sembra brutto, sganghe­rato, aritmico e sbagliato è perché ci sono delle ragioni metri­che che vi portano a considerarlo tale.

La differenza dunque tra il ritmo del verso e quello della prosa sta nel principio di segmentazione: “nessun elemento tecnico, ‘concreto’ distingue da solo, in modo decisivo e sempre valido, il verso dalla prosa, se non la segmentazione del discorso: una realtà cui rimanda l’indizio grafico dell’a capo (indispensabile al verso libero), e che può esistere perché esiste un contesto culturale entro il quale si ammette, come cosa scontata, la distinzione tra verso e prosa. [...] Ridotto alla sua caratteristica più generalizzabile, il discorso in versi si fonda su una struttura duplice: da un lato la struttura semantica e sintattica, che lo articola in frasi (unità di significato), dall’altra quella metrica, che lo articola in segmenti non motivati dal significato (versi, unità metriche). I versi e le unità metriche in genere possono obbedire a regole rigorose, oppure essere di forma anche completamente libera, identificabili solo perché autore e pubblico concordano sul principio della segmentazione: in entrambi i casi tale segmentazione è una forma di scansione del tempo reale o ideale del testo” (Beltrami).

Rispetto alla prosa, il verso si configura come una sorta di “violenza organizzata”. La segmentazione versale è infatti extralinguistica, e in tal senso “artificiale”, fissata e accettata in base a una convenzione letteraria: tanto è vero che la fine del verso può anche cadere fra elementi del discorso legati in maniera molto stretta dal punto di vista logico e grammaticale”. Che è quello che avviene con l’enjambement, o spezzatura: termini che indicano la non coincidenza fra la fine del verso e la fine della frase, cioè tra la pausa metrica e la pausa sintattica, ribadendo con ciò la natura del verso come «scarto in rapporto alle regole del parallelismo del suono e del senso che regna in ogni prosa» (Cohen).

Anche l’enjambement è dunque una figura del ritmo, sebbene nella metrica tradizionale il principio regolatore del ritmo sia visto essenzialmente nel succedersi variamente combinato di sillabe toniche, di sillabe atone e di pause, per cui gli accenti si distribuiscono nei versi secondo figure convenzionali rispondenti al principio della periodicità (con ripresa, per definire le varie scansioni del verso, dei termini della metrica greco-latina: ritmo giambico, trocaico, anapestico, dattilico... ritmi ascendenti e ritmi discendenti... versi sinarteti e asinarteti, ecc.).

«La metrica libera ha lasciato cadere non il ritmo, ma questa periodicità come principio fondatore» (Menichetti), e però, quasi a far da contrappeso, ha valorizzato tutti quegli altri elementi che un tempo venivano studiati come “elementi facolativi”, quasi come “valori aggiunti” e che invece diventano costitutivi della nozione stessa di ritmo poetico: la rima stessa, una volta che non è più obbligatoria, diviene elemento tanto più forte, essa stessa figura del ritmo. E il vuoto, la pausa, il silenzio, assume lo stesso valore del pieno, della scrittura, della continuità.

Pensate soltanto al primo Ungaretti, all’Ungaretti dell’Allegria, a quei suoi versicoli di cui una pratica critica insensata e ancora dura a morire tenta di sottolineare il ricomporsi in endecasillabi, in settenari, quasi a volerlo ricondurre a una tradizione e come se questo gli potesse dare una dignità che altrimenti non avrebbe. Per cui si dice, ad esempio, ecco, sentite: “Si sta come / d’autunno / sugli alberi / le foglie”, nonostante siano quattro versi, suonano come due perfetti settenari... Il fatto è che Ungaretti non ha voluto scrivere due perfetti settenari, ha preso un doppio settenario (metro antico, di tradizione persino più antica dell’endecasillabo) e l’ha scomposto in quattro versi, e quei quattro versi non suonano affatto come due settenari: gli spazi bianchi, le pause, il silenzio suonano ancora di più del pieno delle sillabe e delle parole, parlano ancora più delle parole che riempiono quei quattro versi, ci dicono esse stesse il senso di solitudine, di annientamento, di precarietà, di morte imminente del soldato al fronte. Non va sottolineato il ricongiungersi di Ungaretti a una tradizione (il che, oltretutto, è ovvio per lui come per qualsiasi altro poeta), ma il valore di rottura rispetto a quella tradizione che con la sua operazione egli compie.

Tutto, dunque, diventa funzionale al ritmo, e tutto è determinato dal ritmo. Per Shapiro e Beum, due metricisti americani, il ritmo «è la qualità totale del movimento di un verso», e il senso stesso è figura del ritmo  perché “è impossibile percepire veramente il ritmo di un verso senza averne in un certo modo colto il senso”. Già Osip Brik, della scuola dei formalisti russi, aveva definito il verso come “unità ritmico-sintattica originaria”, cioè come una combinazione di parole costrette ad ubbidire contemporaneamente a due tipi di legge: quella della sintassi prosastica e quella della sintassi ritmica. “Questa combinazione si distingue da quella puramente sintattica per il fatto che le parole sono inserite in un’unità ritmica determinata o verso, e da quella puramente ritmica, in quanto in essa le parole si combinano non solo in base alle caratteristiche foniche, ma anche a quelle semantiche”.

Ne deriva che “il verso [...] non esiste che come rapporto di suono e di senso. Esso è dunque una struttura fono-semantica” (Cohen). Così anche Bertinetto: “Io ritengo, in effetti, che il ritmo possieda nel testo poetico una dimensione autonoma, cioè sia caratterizzato da un semantismo specifico [...]; ma credo anche che nessun verso possa essere letto senza che si faccia riferimento al suo significato”.

Non esiste un ritmo indipendente dal significato. “Altrimenti – osservava Eliot – potrebbe esservi una poesia di grande bellezza musicale ma priva di senso, come a me non è mai accaduto di leggere”. Persino nei casi-limite (Eliot ricordava la “poesia assurda” di Edward Lear, i suoi limericks), “l’ ‘assurdità’ non consiste nella mancanza, bensì nella parodia del senso, e questo è il suo significato”.

Così è possibile spiegare la differenza tra metro e ritmo. Il ritmo è qualcosa di concreto, che si esprime nel verso concretamente realizzato e nel rapporto che i versi di un componimento intrattengono tra loro. Il metro, al contrario, è qualcosa di astratto, “la regola che astrattamente regge il verso e che si è, attraverso una serie ininterrotta di applicazioni, composta in tradizione; la metrica è un complesso di istituzioni ricavate dal concreto della poesia, e alle quali ci si è adeguati nella misura in cui sembravano volta per volta rispondere alle esigenze espressive. Ma ogni realizzazione contempla un margine di libertà rispetto alla regola, quando non uno scarto vero e proprio, ed è solo a proposito di questa realizzazione che si può propriamente parlare di ritmo” (Esposito).

Il ritmo dunque si innesta sul metro, e il verso si realizza solo quando il metro si “riempie” per così dire del ritmo. Possiamo dunque definire la poesia come ritmo regolato dal metro. Ed è il ritmo che fa la differenza.

Vi sembrano, ad esempio, uguali questi due versi: «Tanto gentile e tanto onesta pare» e “fior’, frondi, ^ herbe, ^ ombre, ^ antri, ^ onde, ^ aure soavi” (Petrarca)? No, evidentemente. Eppure sono entrambi due canonici endecasillabi. Ma nel verso di Petrarca le sillabe grammaticali sono ben sedici, costrette alla misura endecasillabica da ben cinque sinalefi, le parole sono tutte bisillabe e tutte sostantivi (più l’aggettivo finale), e tutte e otto le parole di cui è composto il verso portano un accento forte e di pari intensità.

Se soltanto pensiamo all’endecasillabo, cioè a un verso che si definisce come un verso di dieci posizioni, con l’ultima obbligatoriamente accentata (cui possono seguire una, nessuna o due sillabe, a seconda che si tratti di un endecasillabo piano, tronco o sdrucciolo), anche soltanto a considerare la posizione degli accenti, e anche prendendo in considerazione soltanto i cosiddetti endecasillabi canonici (che prevedono un secondo accento sulla quarta o sulla sesta posizione) si ricavano, secondo i calcoli di un antico metricista, Levi, ben 276 possibilità di combinazioni ritmiche diverse.

Senza contare tutte le attestazioni di endecasillabi cosiddetti non canonici, con accento di 5a, tipo i montaliani “in ogni ombra umana che si allontana | qualche disturbata Divinità” che fatichiamo persino a sentire come endecasillabi proprio perché quel modello ritmico, sia pure attestato sin dalle Origini, non si è costituito in tradizione.

E qui stiamo parlando soltanto di accenti, mentre abbiamo detto che non solo da questi è generato il ritmo. In un verso famoso come quello che conclude il canto di Paolo e Francesca – “E caddi come corpo morto cade” – è chiaro che alla realizzazione del ritmo concorrono anche altre figure: non solo la scansione giambica, con gli accenti disposti sulle sedi pari del verso, ma l’allitterazione quadrimembre sul suono /k/, la figura etimologica (caddi / cade), l’assonanza tra due parole a contatto (corpo morto), il fatto che esso sia isolato rispetto al verso precedente (che si conclude col punto fermo), il fatto infine che esso sia l’ultimo verso del canto e dunque capace di propagare nel silenzio che segue il proprio suono, il tonfo del corpo che cade.

E con ciò il discorso, necessariamente sommario, si sposta sulle figure foniche, che non sono altra cosa rispetto al ritmo, ma sono esse stesse, come credo di aver già detto, elementi del ritmo, nell’accezione larga che qui ho proposto, intendendo come ritmo la totalità dei fenomeni fonici e sintattici: l’insieme, cioè, di quelli che Beccaria chiama “elementi di ‘relazione’” (metro, sintassi) e degli elementi “qualitativi” (l’allitterazione, il timbro, la rima, ecc.). Perché su una cosa almeno non credo possano sussistere dubbi: in poesia, “il significato del discorso non è mai in grado di accogliere tutto il senso (né lo è il significante da solo). Il senso poetico si compie nella combinazione di un significato calato in convenzioni ritmiche vincolanti e di un significato liberato in suoni e figure ritmiche” (Beccaria).

Questi “elementi qualitativi” non avremo, ovviamente, il tempo di discuterli tutti. Non sarà possibile non dico approfondire ma nemmeno cominciare un discorso sui fenomeni allitterativi, sui quali proprio Gian Luigi Beccaria ha scritto pagine fondamentali nel volume che si intitola L’automomia del significante. Ma almeno dovrà essere fatto qualche accenno sulla rima, la figura fonica per eccellenza non solo nella poesia tradizionale, dove era obbligatoria, ma anche nella poesia novecentesca dove, proprio perché non è obbligatoria, quando c’è assume una risonanza ancora maggiore.

A dire la verità le polemiche sulle rima iniziano molto prima del Novecento e del verso libero, anzi trovano la loro massima esplosione nel Settecento, in epoca illuminista, quando infatti si afferma l’endecasillabo sciolto. La polemica, allora, era tra quanti ritenevano la rima elemento ancora necessario alla poesia (tra gli altri, ad es., Baretti e Quadrio: “bisogna confessare che la rima nelle poesie italiane è così necessaria, che senza essa [...] il verso rimane tanto simile alla prosa che non pare verso”) e quanti, invece, ne rifiutavano le regole coercitive: la rima, secondo quella scuola di pensiero, “contrastava con la ragione e contrastava anche con le norme della poesia classica, nella quale essa è assente, ed appariva quindi come un indizio di barbarie perdurante, un segno di inferiorità per le lingue moderne, che rispetto alle lingue classiche non potevano farne a meno. La polemica nel ‘700 fu così alimentata da due motivi: da una parte i classicisti sostenevano l’origine barbarica della rima, attribuendone l’invenzione ai Goti e agli Arabi, dall’altra i razionalisti sentivano la rima come un fatto irrazionale, in quanto vincola il poeta e lo costringe ad unire due parole che non hanno legami concettuali” (Fubini).

Un secolo dopo, così Leopardi esprimeva (in Zibaldone, 13 ottobre 1821), in termini di proporzioni matematiche, la sua opinione in proposito: “Ne’ versi rimati, per quanto la rima paia spontanea, e sia lungi dal parere stiracchiata, possiamo dire per esperienza di chi compone, che il concetto è mezzo del poeta, mezzo della rima, e talvolta un terzo di quello e due di questa, talvolta tutto della sola rima. Ma ben pochi sono quelli che appartengono interamente al solo poeta, quantunque non paiano stentati, anzi nati dalla cosa”.

È anche sulla base di queste riserve sulla rima che si spiega la nascita della grande canzone libera leopardiana: nella quale la rima, quand’anche non abolita del tutto, si rarefà e soprattutto si colloca in sedi non prefissate.

Eppure anche Leopardi non può fare del tutto a meno della rima, e persino oggi, alla fine di questo nostro secolo che aveva decretato la morte della rima, si è affermata una scuola di poeti (i cosiddetti neometrici) che hanno provveduto alla rivalutazione di questo fondamentale istituto. Insomma pare che la poesia stessa italiana, in se stessa, non possa fare a meno della rima. Lo ha detto anche Montale:

Le rime sono più noiose delle

dame di San Vincenzo: battono alla porta

e insistono. Respingerle è impossibile

e purché stiano fuori si sopportano.

Il poeta decente le allontana

(le rime), le nasconde, bara, tenta

il contrabbando. Ma le pinzochere ardono

di zelo e prima o poi (rime e vecchiarde)

bussano ancora e sono sempre quelle.

Vediamo brevemente quali sono le funzioni della rima.

Innanzi tutto, la rima assolve a una funzione mnemotecnica (si pensi, in questo senso, alle filastrocche, o ai proverbi; alla capacità di certi contadini semianalfabeti o addirittura analfabeti, di ricordare, soprattutto in Toscana, interi canti della Divina Commedia; e recentemente ho letto che il povero Bassani, sottoposto a un imbarazzante, penoso, crudele processo per determinarne le capacità di intendere e di volere, non ricorda più neppure quali libri abbia scritto, ma congeda i periti psichiatrici che lo interrogano recitando loro qualche verso di Dante).

La rima assolve poi anche ad un’importante funzione metrica: dal momento che i vocaboli in rima contengono l’ultimo accento dei rispettivi versi, essa segnala che il verso è finito, si è concluso il periodo ritmico: nella versificazione anisosillabica delle origini e nei testi in cui si succedono liberamente versi di varia misura, la rima rappresenta in pratica l’unico segnale in tal senso; quando è collocata all’interno di un verso, la rima (rimalmezzo) sottolinea la cesura, e in questo caso la sua funzione demarcativa è ancora più forte, dal momento che la fine del verso è comunque marcata anche a prescindere dalla presenza della rima.

Inoltre, poiché collega i versi in strutture determinate, la rima assolve al compito di strutturazione strofica; essa, cioè, “pausa, ordina e organizza la forma” (Menichetti), e infatti molte forme strofiche si definiscono non solo in base al numero e al tipo dei versi ma anche alla rima (la terza rima dantesca, l’ottava rima, ecc.); e non solo organizza le strofe ma può anche collegare le strofe tra di loro (si pensi, ad esempio, alla rima-refrain che chiude tutte le stanze della ballata, o alla geminazione delle strofe caratteristica dell’ode e della canzonetta): insomma può anche avere una funzione interstrofica.

Ma la funzione più importante della rima è evidentemente quella fonica. Sistematica o no, “la rima si carica in poesia di una speciale pregnanza, in quanto portatrice di reiterazione fonica; pur non essendo indispensabile al funzionamento metrico, essa cioè incarna in modo particolarmente evidente uno dei tratti più tipici e costanti del metro, l’iteratività” (Menichetti). La rima dunque istituisce un sistema regolare di concordanze foniche associando parole in base alla ripetizione dei suoni, sulla base del principio del parallelismo, della periodicità, della ricorsività.

Ma la rima non è un fatto astrattamente fonologico: essa instaura un rapporto fra le parole che rimano insieme; suoni e significati sono congiunti e perciò la rima crea un immediato rapporto di senso fra le parole collegate, assolvendo a una funzione semantica. “Quantunque la rima sia basata, per definizione, sulla ricorrenza regolare di fonemi, o gruppi di fonemi equivalenti, considerare la rima soltanto dal punto di vista del suono sarebbe una semplificazione arbitraria. La rima implica necessariamente una relazione semantica fra le unità che rimano fra loro” (Jakobson), sottolineandone, in contrasto con l’identità del suono, la divaricazione del senso.

La casistica è immensa: si passa dalle cosiddette rime identiche (come Cristo, che in Dante, nella Commedia, non può rimare che con se stesso), alle rime parallele ai significati (la vita : smarrita, l’oscura : dura, per rimanere ancora a Dante), alle rime devianti per associazione di parole semanticamente a contrasto, con effetti di sorpresa o di comicità. Si cita sempre, a proposito, il Nietsche : camicie di Gozzano, ma c’è già uno stupefacente repertorio nel Carducci di Juvenilia, che fa rimare appaio con salumaio, fantasia con castroneria, altare con russare, persone con indigestione, ecc. In questo senso, il tanto bistrattato Carducci è stato il primo che sistematicamente ha introdotto nella poesia italiana, e nella sede privilegiata della rima, parole solitamente considerate indegne di entrare in poesia: persino cavolfiori,in rima addirittura con amori, per non parlare del cesso in rima con dimesso. È da qui che inizia il corrodimento di quella tradizione stilnovista e petrarchista che aprirà la strada all’esperienza dei crepuscolari e di tanta parte della poesia novecentesca.

E proprio perché tutto è già stato sperimentato e tutto è stato dissacrato, la rima può, nella poesia del Novecento che l’ha respinta, non solo rifiorire, ma rifiorire nelle sue forme più semplici ed elementari, quasi ricominciando il gioco dall’inizio, e con lo stesso effetto di sorpresa che le rime scioccanti di Carducci potevano generare in un lettore ottocentesco. Ecco allora Caproni: “Per lei voglio rime chiare, usuali: in are. / Rime magari vietate, / ma aperte: ventilate. / Rime coi suoni fini / (di mare) dei suoi orecchini. / O che abbiano coralline / le tinte delle sue collanine. / Rime che a distanza / (Annina era così schietta) / conservino l’eleganza / povera, ma altrettanto netta. / Rime che non siano labili, / anche se orecchiabili. / Rime non crepuscolari, / ma verdi, elementari”.

E prima di lui, Saba: “Amai trite parole che non uno / osava. M’incantò la rima fiore / amore, / la più antica difficile del mondo”.

Lo stesso Saba ha dato una definizione della rima, e soprattutto della funzione semantica che essa assume, del suo peso e della sua necessità, in termini che è difficile non condividere: “La rima può essere ovvia come fiore amore, o creare impensati accostamenti. Ma solo allora è perfetta, quando, se volti in prosa il componimento, non puoi sostituire, senza danno del significato, le parole che rimano”.

Altro ancora ci sarebbe da dire, ovviamente, e molto più in profondità, sulla rima e sulle altre figure foniche.

Non c’è tempo di farlo. Preferisco allora dedicare gli ultimi minuti di questa conversazione a un fenomeno che viene solitamente taciuto o sottovalutato nei trattati di metrica: quello cioè dell’esecuzione.

Noi siamo abituati a pensare al verso come a qualcosa che è stato fissato una volta per sempre. Non è così. Un verso viene per così dire rivitalizzato, rielaborato, ogni volta che viene letto, riletto. È un fenomeno che ci appare in tutta evidenza quando ascoltiamo un attore. Pensate, che so io, al canto di Paolo e Francesca letto da Albertazzi o Gassmann o Benigni. Non è la stessa cosa. Ma succede lo stesso anche a noi: la lettura di oggi è diversa da quella di ieri, la lettura mentale è diversa da quella ad alta voce: cambiano le situazioni, le intenzioni comunicative, gli strumenti; cambia l’uditorio; è diversa (si spera in accrescimento) la comprensione del testo che io oggi possiedo rispetto a quella di ieri. In ogni caso, chi legge innesca nel verso, chi più chi meno, il proprio ritmo, che si sovrappone a quello del poeta – e nei casi peggiori lo cancella.

È ovvio, allora, che il metro e il ritmo di un testo non vanno dedotti dall’esecuzione. Qualsiasi esecutore, infatti, introduce nella poesia qualcosa che non è esattamente proprietà di quella poesia. L’esecuzione è dunque l’atto nel quale “il ricevente stesso (nella lettura personale) o un intermediario (l’autore stesso in quanto presenti il testo ad un pubblico, o un lettore, quando il testo venga recitato) attualizza una sola delle forme prosodiche rese possibili dalla realizzazione, senza però cancellare le altre, disponibili per altre esecuzioni: l’esecuzione è sempre rinnovabile, anzi probabilmente mai ripetuta nella stessa identica forma, mentre la realizzazione permane immutata proprio perché si tratta di un campo di possibilità” (Beltrami).

È nell’esecuzione che il verso si trasforma in messaggio sonoro. E qui nascono mille problemi: esiste una sola esecuzione corretta o tutte le esecuzioni, in quanto atti individuali, sono corrette? Dal momento che il verso realizza un conflitto fra metro e sintassi, l’esecuzione deve rispettare le leggi del metro o quelle della sintassi? È possibile un compromesso?

Problemi vecchi, in altri tempi molto dibattuti, oggi un po’ meno, comunque mai risolti.

Io credo, con Pazzaglia, che sicuramente “il modello versale impone un indugio, un’intensione ritmico-tonale su alcuni punti privilegiati, non solo e non sempre per ragioni di senso”.

Pensate soltanto al vistoso fenomeno dell’enjambement: una lettura legata dei due (o più) versi interessati al fenomeno, per quanto raccomandata in alcuni manuali (ad es. Bausi-Martelli: “la lettura, pertanto, dovrà pronunciare senza alcuna pausa i versi interessati da enjambement”), scivola verso la prosa: “non osservare i limiti del verso e la pausa intenzionale alla fine significa frustrare non solo l’intenzione metrica del poeta, ma anche il senso artistico del suo verso” (Zirmunskij).

All’inizio del Novecento un grande metricista francese, Grammont, sosteneva: “Quando c’è conflitto fra metro e sintassi, è sempre il metro che deve prevalere, e la frase deve piegarsi alle sue esigenze”. “In tal modo, per quanto paradossale possa sembrare”, aggiunge Cohen, “la vera dizione poetica è inespressiva. Essa deve tendere all’uniformità. [...] Soltanto questa dizione è fedele all’essenza del verso, che è il “versus”, il ritorno, vale a dire l’identità”.

Col che siamo tornati al punto di partenza: al verso / versus come periodicità. Come struttura in cui significanti e significati sono coesi nella determinazione del senso. Ecco, io credo che il senso della poesia risieda precisamente in questo stretto connubio, in questo inscindibile connubio di significanti e significati. Tra tutte le arti, questa è una peculiarità che appartiene forse alla sola poesia. La musica, la pittura, la danza possono essere anche atematiche; si possono dare suoni e movimenti sprovvisti di significato; si possono ritrovare strutture e simmetrie puramente formali. La poesia, al contrario, è gravata sempre di significati per il semplice fatto che essa fa uso di segni già di per sé provvisti di significato. Tentare di interpretare una poesia ignorandone i significati è folle. E tuttavia non ha senso neppure interpretare la poesia sulla base dei soli significati. Perché in poesia gli elementi del ritmo (i suoni, gli accenti, la rima) non sono puri accessori, non costituiscono un supporto esteriore e tanto meno facoltativo. Essi sono fondamentali al linguaggio poetico nella misura in cui esso non è mai semplicemente denotativo ma connotativo; e la funzione poetica promuove ogni suo elemento a segno, a figura.

La nozione larga di ritmo che ho cercato di definire coincide allora, io credo, con qualcosa di molto più importante del significante o del significato separatamente presi o studiati. Lungi dall’identificarsi col mero significante (anzi addirittura con un suo costituente), lungi dall’essere altra cosa dal significato, il ritmo poetico promuove il significante a significato ed esalta il significato nel significante. Ed è precisamente in questo che risiede il senso della poesia.

BIBLIOGRAFIA MINIMA

S. Agosti, Le strutture del senso, in Il testo poetico. Teoria e pratiche d’analisi, Milano, Rizzoli, 1972.

F. Bausi – M. Martelli, La metrica italiana. Teoria e storia, Firenze, Le Lettere, 1993.

G. L. Beccaria, L’autonomia del significante. Figure del ritmo e della sintassi. Dante, Pascoli, D’Annunzio, Torino, Einaudi, 1975.

P. G. Beltrami, La metrica italiana, Bologna, Il Mulino, 1991.

O. Brik, Ritmo e sintassi (Materiali per uno studio del discorso in versi) [1927], in Tzvetan Todorov (a cura di), I formalisti russi. Teoria della letteratura e metodo critico, prefazione di Roman Jakobson, Torino, Einaudi, 1968.

J. Cohen, Il livello fonetico: la versificazione, in Struttura del linguaggio poetico [1971], Bologna, Il Mulino, 1974.

E. Esposito, Metrica e poesia del Novecento, Milano, Angeli, 1992.

M. Fubini, Metrica e poesia. Lezioni sulle forme metriche italiane. I. Dal Duecento al Petrarca, Milano, Feltrinelli, 1962.

M. Grammont, Le vers français, Paris, Picard, 1904.

R. Jakobson, Linguistica e poetica [1958], in Saggi di linguistica generale, a cura di Luigi Heilmann, Milano, Feltrinelli, 1966.

A. Menichetti, Metrica italiana. Fondamenti metrici, prosodia, rima, Padova, Antenore, 1993.

M. Pazzaglia, Introduzione alla parte prima (Teoria e metrica) di R. Cremante – M. Pazzaglia (a cura di), La metrica, Bologna, Il Mulino, 1972.

K. Shapiro – R. Beum, Metro, ritmo, espressività, in Renzo Cremante - Mario Pazzaglia (a cura di), La metrica, Bologna, Il Mulino, 1972.

V. Zirmunskij, L’«enjambement», in Renzo Cremante - Mario Pazzaglia (a cura di), La metrica, Bologna, Il Mulino, 1972.

 

 
 

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