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Il pic-nic letterario e la critica(1)

Sandor Radnoti

 

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L'ora del lettore

C'è un'arguta osservazione di Georg Christoph Lichtenberg, grande scrittore di aforismi del XVIII secolo, che sembra particolarmente in auge fra gli studiosi di letteratura. Il bon mot in questione paragona il libro (il testo) a un picnic in cui l'autore porta le parole e il lettore il significato. A tal punto l'analogia di Lichtenberg è divenuta centrale nella circolazione accademica delle idee che alcuni studiosi hanno cominciato a citare l'originale prendendolo in prestito da colleghi. Questo accade in opere scritte in varie lingue da rappresentanti e fondatori di diverse scuole di studi letterari, come Northrop Frye, E. D. Hirsch, Wolfgang Iser, Tzvetan Todorov(2) e Umberto Eco. Alcuni di questi autori approvano l'idea di Lichtenberg, altri la criticano cassando e attivando al medesimo tempo il significato dell'aforisma tramite paradossi del tipo: "Ogni cretese mente, dice un cretese".
L'aforisma di Lichtenberg, pur potendo avere una pluralità di significati, è con tutta chiarezza basato su una visione caratteristicamente moderna, vale a dire sul riconoscimento che al significato di un'opera letteraria non si riesca a pervenire senza l'attivo, e perciò costitutivo, contributo del suo lettore, in quanto il significato è aperto, pluralistico, implica cioè svariati lettori individuali così come mutevoli comunità di ricezione. Quel che l'aforisma non chiarisce, tuttavia, è se sia o meno concretamente possibile stabilire significati tramite questo attivo contributo del lettore. Le "parole" hanno influenza sul significato? Se sì, fino a che punto? A partire dagli "ingredienti" disponibili noi possiamo preparare un numero di "piatti" infinito? E quanto al contributo del lettore, si limita all'azione esercitata dal continuo mutamento del gusto, sempre storicamente condizionato? Potrebbe essere che una parola acquisti un significato diverso in ciascuna circostanza in cui viene usata? Oppure il numero dei significati è finito, per cui è soltanto per l'infinità dei contesti che si ammette una variazione illimitata? Forse il significato è limitato in quanto dipendente dal contesto, nonostante che i contesti in quanto tali siano infinitamente variati. Il capire include necessariamente l'equivocare? Qual è la pointe del picnic, se non il fondersi dell'orizzonte estraneo del testo con quello del lettore? Le parole dell'autore sono estranee e quindi mute finché il lettore non dà loro voce oppure sono davvero morte finché questi non le resuscita? Che cosa pesa di più, l'effetto sul lettore delle attese generate dal testo oppure l'atto della ricezione, fondato com'è sulle precedenti esperienze del lettore? Esiste una sintesi praticabile fra le due cose? Siamo noi che pensiamo ogni lettore come una sorta di monade nomade amante di solitari picnic con il proprio libro? O non dovremmo invece immaginarci escursioni di genere più conviviale, incaricate da intere comunità di lettura tradizioni, culture, forme di vita di gustare le parole che vengono servite, forse addirittura di mettersi insieme a cuocere il significato fino a raggiungere un accordo su cosa esse abbiano mangiato? Le ricette di un picnic memorabile sopravvivono poi nelle comunità interpretative per influenzarle successivamente in forma istituzionalizzata? Se è così, queste stesse ricette non diventano parole cui noi dobbiamo attribuire un significato.

Qual è il rilievo della distinzione suggerita dall'aforisma fra utenti di parole e fabbricanti di significato? Potrebbe essere che essa implichi che ciò che conta non è il contenuto delle parole, ma solamente il loro valore comunicativo? In altri termini, quel che conta non è la visione del mondo che le parole tentano di esprimere, ma sono soltanto i giochi linguistici cui esse partecipano. Questo "soltanto" indica un difetto o un eccesso? Cos'è in realtà che motiva l'interpretazione: quanto le parole celano al di là del loro messaggio, l'enigma, l'incoerenza, l'ambiguità, l'arbitrario, la contraddizione, il paradosso, la traccia, il sottotesto, la coesistenza di cecità e acume, la decostruzione dei costrutti verbali, lo spazio vuoto che si apre fra le parole e che esse aprono, oppure l'incertezza suscitata dalla lettura? Disarticolare il testo in parole singole e far derivare il significato da fonti esogene dà luogo a una cesura rispetto al dogma, radicato nella teologia, della omogeneità del testo? Le parole di un autore ci rimandano alla infinità delle parole scritte da altri autori? La lettura si costituisce unicamente sulle parole dell'autore e il significato viene loro attribuito dal lettore oppure l'attribuzione di un significato viene influenzata da alcune norme extratestuali derivanti dal mondo vitale del lettore? Di più, la divisione del lavoro proposta dall'aforisma di Lichtenberg implica che l'autore sia escluso dalla costituzione del significato? E, se perfino l'interpretazione ricostruttiva conferma che la retorica delle parole impiegate tende in effetti a restringere il dominio dei significati possibili, è ancora lecito ignorare tale intento retorico? Infine, se l'autore qualche volta, facendosi lettore di se stesso, contribuisce al picnic con qualche significato e chi può impedirgli di farlo? questo contributo merita rispetto e attenzioni speciali?
Con tutte queste domande io posso aver forzato la metafora al di là di ciò che essa voleva significare. Eppure, persino con un elenco tanto lungo di domande, non siamo andati oltre un semplice accenno ai momenti contraddittori e complementari del complesso dibattito sulla possibilità o l'impossibilità di interpretare le opere letterarie che ha infuriato a partire dagli anni sessanta. Non c'è bisogno di dire che gli anni sessanta sono una demarcazione scelta in qualche modo arbitrariamente, esiste infatti una lunga tradizione di ragionamenti sulla apertura o polisemia delle parole e del testo, sul potere costitutivo dell'interpretazione e sul primato della ricezione. Ciò nonostante, negli anni sessanta si è avuta una marcata intensificazione di questo tradizionale interesse, un fenomeno collegato all'indebolirsi delle tradizioni concorrenti e alla temporanea revoca della loro pretesa di universalità. I dilemmi teorici degli anni sessanta infatti hanno dato forza all'atteggiamento di chi tendeva a fare a meno della speranza che una scienza, o storica o descrittiva, potesse generare interpretazioni immanenti le quali, mettendo a nudo la struttura compiuta ovvero l'origine dei testi, ridimensionassero tutte le interpretazioni precedenti e stabilissero il significato inequivoco. In realtà si erano accumulati dubbi circa le pretese universalistiche della filologia positivistica e della semiotica scientista (per non parlare dell'ambizione, incoraggiata dalla rivoluzione tecnologica degli anni cinquanta, di applicare la teoria cibernetica all'informazione, nei termini di Abraham A. Moles o Max Bense, la cui monumentale Ästhetica alludeva nel titolo a un'opera fondativa di una disciplina).
Egualmente scarse erano le prospettive di stabilire un significato più o meno inequivoco confidando in idee metafische o concetti psicologici. Del pari a partire dagli anni sessanta pesanti critiche sono state rivolte all'analisi di tipo formalistico del testo che si concentra sulla sola opera e rifiuta ogni considerazione circa il processo produttivo, la genesi dell'opera, il suo effetto emozionale e la sua ricezione fatta per l'appunto da tanti errori interpretativi. L'interesse estetico ha messo da un canto l'opera d'arte "in sé" e sempre di più si è rivolto ai fenomeni della ricezione. È ben noto che l'Amleto di Shakespeare ha suscitato un consenso assolutamente unanime quanto al suo valore (eccettuato qualche grande come Tolstoj o T. S. Eliot) ma nessun consenso circa la sua interpretazione. Tale eterogeneo e scompigliato assortimento di interpretazioni in conflitto, sebbene complementari, è passato di generazione in generazione come un fenomeno eccezionale. A questo punto, il disaccordo circa Amleto è divenuto esemplare. L'importanza del lettore è cresciuta immensamente.
Umberto Eco sostiene che La hora del lector di Castillet, pubblicata nel 1957, fu un'opera profetica e ricorda la sua propria Opera aperta, del 1962, in cui sosteneva il ruolo attivo del lettore nella ricezione dei testi dotati di valore estetico.

 

NOTE:

(1) Traduzione italiana di Alberto Scarponi (dalla versione inglese autorizzata dall'autore). Riprendi la lettura
(2) Rispondendo a una domanda, il professor Todorov mi ha gentilmente scritto di aver letto il bon mot di Lichtenberg nel saggio di Freud sul motto di spirito (vedi S. Freud, Opere, vol. 5, p. 77). Lichtenberg era uno dei suoi autori favoriti. Nello studio del 1905 sul motto di spirito egli cita almeno tre dozzine di sue osservazioni spiritose. L'aforisma in questione lo si può trovare in G. C. Lichtenberg, Schriften und Briefe, a cura di W. Promies, München, Hanser, 1973, p. 363, n. E-104. Per l'antico topos dello scrivere come convito (intellettuale) e per la sua versione più moderna dello scrittore come proprietario di ristorante, vedi il capitolo uno del libro uno del Tom Jones di Fielding: "Un autore dovrebbe considerarsi non un gentiluomo che offre un pranzo o accoglie gente in casa sua per carità, ma piuttosto come chi gestisce una locanda, nella quale si fa buon viso a tutti per il loro denaro".Riprendi la lettura

 
 

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