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Giurisprudenza 2001 Corte di Cassazione sez. I penale - sentenza 21 marzo 2001 n. 11049

Osserva in fatto e in diritto. 1. - Con sentenza in data 29.11.1996 la corte d’appello di Milano, nel condannare D. B. A. e M. P. per delitti connessi al traffico di sostanze stupefacenti risalenti al periodo compreso tra gli ultimi mesi del 1993 e i primi mesi del 1994, ordinava ai sensi dell’art. 12-sexies l. 3 56/92 la confisca dei beni sequestrati nel corso del medesimo giudizio, considerati nella disponibilità degli imputati benché - taluni di essi - formalmente appartenenti a terzi, e in particolare: a) quanto al D. B., un appartamento sito in Cesano Maderno via De Medici e due appartamenti siti in Milano via Farmi n. 73 e n. 75, acquistati il primo nel 1989 e gli altri due nel 1993 e intestati alla moglie convivente C. F.; b) quanto alla M., i beni della ditta individuale M. F., suo marito, esercente attività di pesca in Rapallo dal 1991, un appartamento del figlio O. A. sito in Rapallo via Vanessa n. 36 acquistato nel 1994, un appartamento sito in Rapallo loc. S. Agostino n. 54 acquistato nel 1995 e i beni della ditta individuale O. A., altro suo figlio, esercente in Rapallo attività di lavanderia dal 1995.
Detta decisione, sulle impugnazioni degli imputati, veniva annullata con rinvio dalla Corte di cassazione con sentenza del 28.5.1998, limitatamente al capo recante la confisca dei beni sottoposti a sequestro, sul rilievo che la presunzione relativa d’illecita accumulazione patrimoniale a carico dei soggetti condannati per certi delitti non opera per quanto concerne la titolarità o la disponibilità da parte del condannato di beni formalmente intestati a terzi, per i quali vige la consueta ripartizione dell’onere probatorio incombente sull’accusa e il conseguente obbligo per il giudice di enunciare adeguatamente gli elementi che lo inducono ad adottare la confisca di cespiti patrimoniali la cui titolarità sia formalmente riferibile a terzi estranei al reato.
La corte d’appello di Milano, in veste di giudice di rinvio, con successiva sentenza in data 3.4.2000 confermava le statuizioni di confisca dei beni sequestrati sul sostanziale assunto che i prossimi congiunti degli imputati, apparenti titolari, non disponevano di redditi sufficienti e proporzionati al pagamento del prezzo corrispondente ai relativi acquisti, tutti ricadenti in prossimità del periodo di commissione dei fatti delittuosi de quibus, indicandosi quindi, per ogni singolo bene, gli elementi probatori, di natura documentale, comprovanti l’effettiva disponibilità del medesimo da parte del D. B.e, rispettivamente, della M..
Hanno proposto distinti ricorsi per cassazione avverso la suddetta sentenza i difensori degli imputati.
Il difensore di A. D. B.ha censurato la violazione del principio diritto fissato dalla Corte di cassazione in sede di annullamento e l’erronea applicazione dell’art. 12-sexies l. 356/92 poiché, nonostante il silenzio dell’organo dell’accusa e la rilevante produzione documentale della difesa, il giudice di rinvio avrebbe ancora una volta ipotizzato la fittizia intestazione dei beni immobili in capo alla Carraturo sulla base di mere congetture e inattendibili presunzioni, negando altresì con motivazione palesemente illogica la necessità di un ragionevole legame temporale fra la realizzazione del delitto e l’acquisto dei beni.
Il difensore di P. M. ha denunziato la violazione del principio di diritto fissato dalla Corte di cassazione in sede di annullamento, l’erronea applicazione dell’art. 12-sexies l. 356/92, la mancanza e la manifesta illogicità della motivazione sul punto delle autonome, documentalmente comprovate, attività lavorative e disponibilità economico-finanziarie del marito e dei due figli dell’imputata ai fini dell’acquisto dei beni sequestrati, mentre la intestazione fittizia di essi, ritenuti di effettiva appartenenza della M., sarebbe stata affermata solo sulla base di meri indizi e non di prove.

2. — Osserva innanzi tutto il Collegio, per rispondere alle specifiche critiche mosse pregiudizialmente sul punto dai ricorrenti, che la speciale ipotesi di confisca in esame costituisce misura di sicurezza patrimoniale che colpisce tutti i beni dei quali non sia stata giustificata la provenienza, di valore sproporzionato al reddito o all’attività economica di chi sia condannato per uno dei delitti indicati nella medesima disposizione, dal momento che il legislatore opera una presunzione di illecita accumulazione senza distinguere se detti beni siano o meno collegati da nesso pertinenziale al reato per il quale è stata inflitta condanna ed a prescindere dall’epoca dell’acquisto, quindi anche nel caso in cui essi risultino acquisiti al patrimonio dell’imputato in epoca precedente al fatto contestato (Cass., Sez. V, 23.9.1998, Simoni, rv. 211909; Sez. V, 22.9.1998, Nibio, rv. 211925; Sez. VI, 26.3.1998, Borsetti); sempre che questi non risultino tuttavia acquisiti in epoca talmente precedente la commissione dei reati per cui si procede da far venir meno, ictu oculi, la presunzione che la loro disponibilità sia riconducibile a quell’attività delittuosa (Cass., Sez. V, 23.4.1998, Bocca).
In virtù del combinato disposto degli artt. 199 e 200 c.p. e del principio affermato dall’art. 25 Cost., deve altresì escludersi che in tema di applicazione delle misure di sicurezza operi il principio di irretroattività della legge penale di cui all’art. 2 c.p., sicché le misure predette sono applicabili anche ai reati commessi nel tempo in cui non erano legislativamente previste ovvero erano diversamente disciplinate quanto a tipo, qualità e durata (Cass., Sez. 11, 3.10.1996, Sibilia, rv. 207140; Sez. VI, 17.11.1995, Borino Marchese, rv. 204119; Sez. 1,29.3.1995, Gianquitto; Sez. VI, 28.2.1995, Nevi).
Tanto premesso, merita di essere ribadita la soluzione interpretativa elaborata con plurime decisioni da questa Corte, già condivisa nel caso in esame dalla sentenza di annullamento con rinvio del 28.5.1998, secondo cui l’art. 12-sexies comma 11. n. 356 del 1992, introdotto dall’art. 2 1. n. 501 del 1994, relativo ad ipotesi particolari di confisca ha introdotto, con riferimento ai soggetti condannati per determinati reati tassativamente previsti dalla disposizione di legge in questione e limitatamente a beni di valore sproporzionato al reddito dichiarato o all’attività economica esercitata, una presunzione relativa di illecita accumulazione patrimoniale, trasferendo sul soggetto, che ha la titolarità o la disponibilità di beni, l’onere di giustificarne la provenienza, con l’allegazione di elementi che, pur senza avere la valenza probatoria civilistica in tema di diritti reali, possessori e obbligazionari, siano idonei a vincere tale presunzione. Con l’avvertenza però che, nell’ipotesi di beni intestati a un terzo, ma che si assume siano nella effettiva titolarità o disponibilità della persona condannata e, come tali, soggetti a confisca ove non se ne dimostri dall’interessato la legittima provenienza, l’indagine al fine di disporre la misura di sicurezza patrimoniale deve essere rigorosa, tanto più se il terzo intestatario sia un estraneo che non abbia vincoli lato sensu di parentela o di convivenza con il condannato, rispetto ai quali è più accentuato il pericolo della fittizia intestazione e più probabile l’effettiva disponibilità dei beni da parte del medesimo. In tali situazioni la confisca può investire beni che in tutto o in parte possono essere di un soggetto che non è neppure imputato ed allora sarebbe illogico ed improprio gravare la stessa persona, immune da censure sotto il profilo penale, della misura di sicurezza patrimoniale, imputandogliela in proprio. Incombe in tal caso sull’accusa l’onere di dimostrare, ai fini dell’operatività nei confronti del terzo del sequestro e della successiva confisca, l’esistenza di situazioni che avallino concretamente l’ipotesi di una discrasia tra intestazione formale e disponibilità effettiva del bene, si che possa affermarsi con certezza che il terzo intestatario si sia prestato alla titolarità apparente al solo fine di favorire la permanenza dell’acquisizione del bene in capo al condannato e di salvaguardarlo dal pericolo della confisca; il giudice ha a sua volta l’obbligo di spiegare le ragioni della ritenuta interposizione fittizia, adducendo non solo circostanze sintomatiche di spessore indiziario, ma elementi fattuali che si connotino della gravità, precisione e concordanza, sì da costituire prova indiretta dell’assunto che si tende a dimostrare, cioè del superamento della coincidenza fra titolarità apparente e disponibilità effettiva del bene (cfr., explurimis, Cass., Sez. V, 28.5.1998, Di Pasquale, rv. 211832).

3. - Alla stregua dei principi suesposti non si riscontrano, con riferimento alla confisca disposta in ordine ai beni formalmente intestati ai prossimi congiunti degli imputati D. B.e M., vizi del provvedimento impugnato rilevanti in sede di legittimità, poiché la corte territoriale, seguendo un corretto metodo di esame e di valutazione della prova, ha individuato gli elementi dimostrativi dell’assunto accusatorio con argomentazioni congrue, complete e prive di salti logici.
Il giudice di rinvio ha posto a fondamento delle statuizioni di confisca dei beni immobili intestati a C. F., moglie convivente del D. B., l’assorbente rilievo che la stessa non aveva svolto alcuna attività lavorativa, non aveva dichiarato alcun reddito se non per gli anni 1992 e 1993 e per importi modestissimi e del tutto inadeguati rispetto agli esborsi, mentre risultava documentalmente provato che: a) il prezzo dell’appartamento sito in Cesano Maderno via De Medici, destinato alla convivenza coniugale, acquistato nel 1989 per lire i 20.000.000, fu pagato con plurime rate per la maggior parte ricadenti nel periodo di commissione dell’attività delittuosa de qua; b) i due appartamenti siti in Milano via Farmi n. 73 e n. 75, acquistati nel 1993 per lire 104.000.000 e rispettivamente lire 129.000.000, furono pagati in contanti a fronte dell’insufficiente somma di lire 40.000.000 a disposizione della Carraturo a titolo di quota ereditaria assegnatale nel novembre 1992.
Lo stesso giudice ha poi argomentato adeguatamente e in maniera dettagliata sui singoli beni formalmente intestati ai familiari della M. ed ha congruamente evidenziato, per ciascuno di essi, da quali specifici e convergenti elementi fattuali abbia tratto le coerenti conclusioni circa la concreta ed effettiva disponibilità del condannato, nonostante la fittizia intestazione al terzo.
In particolare:
a) gli esborsi per gli acquisti delle due imbarcazioni impiegate nell’attività di pesca esercitata dalla ditta individuale M. F., marito dell’imputata, erano del tutto sproporzionati ai modesti redditi dichiarati dal 1989 al 1993, mentre nessun valore probatorio poteva attribuirsi all’ irrituale dichiarazione rilasciata della madre dello stesso il 5.12.1996 circa una pretesa donazione di lire 50.000.000 in contropartita della rinuncia all’eredità paterna;
b) quanto all’appartamento di Rapallo intestato ad O. A., figlio dell’imputata, esso risultava acquistato il 9.6.1994 per il prezzo di lire 150.000.000 pagato in parte mediante un finanziamento bancario di lire 80.000.000 da rimborsare con rate semestrali di lire 5.000.000, a fronte dell’insussistenza per il formale acquirente di un’attività lavorativa e di alcun reddito dichiarato a partire dal giugno 1994;
e) quanto infine ai cespiti intestati ad O. A., altro figlio dell’imputata, essi (omonima ditta individuale esercente attività di lavanderia e un appartamento acquistato il 16.1.1995 per il prezzo dichiarato di lire 40.000.000) risultano acquisiti quando lo stesso aveva appena 20 anni, non svolgeva alcuna attività lavorativa ed era privo di qualsiasi reddito, mentre non rivestivano attendibile valore probatorio né la meramente assenta titolarità effettiva della ditta in capo alla zia B. L., né l’irrituale dichiarazione dissimulatoria di data 6.12.1996 attestante una pretesa donazione dell’immobile da parte ditale L. Q..
In definitiva, considerato che al fine di giustificare la provenienza dei beni confiscabili non è sufficiente l’esibizione di atti giuridici d’acquisto regolarmente stipulati e trascritti perché in tal modo non si dà conto della provenienza dei mezzi impiegati per l’acquisizione dei ben medesimi proporzionati rispetto alle proprie possibilità economiche, occorrendo invece fornire un’esauriente spiegazione che dimostri la loro derivazione da legittime disponibilità finanziarie (Cass., Sez. I, 2.6.1994, Malasisi). il giudice di rinvio, dai consistenti indizi desunti dalla comprovata inesistenza di autonome e sufficienti disponibilità finanziarie e patrimoniali del terzo, rapportate al valore di acquisto dei singoli beni, ha tratto indirettamente ma legittimamente il logico e inferenziale assunto dell’esistenza di una discrasia sintomatica della titolarità apparente del cespite.
Del resto, dagli esposti motivi dei distinti ricorsi si ricava in larga parte che essi, riproponendo le medesime deduzioni in fatto e in diritto già precedentemente svolte e disattese dal giudice di rinvio, prospettano. sotto l'apparente deduzione di vizi attinenti alla violazione di legge o alla illogicità della motivazione, un’inammissibile richiesta di rivalutazione del merito laddove, essendo corretto il presupposto logico-giuridico su cui si fonda la decisione impugnata alla stregua dei suesposti principi giurisprudenziali in punto di metodologia della prova, è stata data per contro adeguata dimostrazione della fittizia intestazione.
I ricorsi proposti dagli imputati devono essere pertanto respinti con le conseguenze di legge.

PQM

Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento in solido delle spese del procedimento.


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