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Giurisprudenza 2001 Corte di Cassazione sez. I penale - sentenza 8 gennaio 2001 n. 1714

Svolgimento del processo. La signora M. H., nata a Smaala (Marocco) il 1° gennaio 1948, chiese ed ottenne (in data 23 maggio 1998) permesso di soggiorno per ricongiungersi col figlio B. A., che lavora in Italia.
Il 18 giugno 1999 presentò a sua volta domanda di ricongiungimento familiare con la propria figlia minore B. H., nata il 5 agosto 1982 e residente in Marocco, ai sensi dell'art. 29 del D. L.vo 25 luglio 1998, n. 286.
La Questura di Bologna rilasciò il prescritto nulla osta ma l'Ambasciata d'Italia a Rabat rifiutò il visto d'ingresso in Italia, motivando tale decisione con l'argomento che la richiedente non era legittimata (il suo permesso di soggiorno non era stato rilasciato per le ragioni indicate dall'art. 28.1 del citato decreto).
Il provvedimento fu impugnato davanti al Tribunale di Bologna, ai sensi dell'art. 30, sesto comma, del D. L.vo n. 286 del 1998, in relazione all'art. 737 cod. proc. civile.
Il Tribunale, con decreto del 25 ottobre 1999, annullò il provvedimento dell'Ambasciata cui ordinò di rilasciare il visto d'ingresso, statuendo che il rifiuto del visto era ingiustificato perché chi ha il permesso di soggiorno per motivi familiari è posto dalla legge nelle stesse condizioni del titolare del permesso di cui all'art. 28.1 cit., in quanto come lui ha accesso ai servizi assistenziali, ai corsi di studio, alle liste di collocamento e può svolgere lavoro subordinato ed autonomo. Aggiunse che, in ogni caso, dovevano prevalere il diritto all'unità familiare e il superiore interesse della minore, come stabilito dall'art. 28 (terzo comma) del D. L.vo n. 286 del 1998, che richiama la Convenzione sui diritti del fanciullo in data 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva ai sensi della legge 27 maggio 1991, n. 176.
Il provvedimento del Tribunale fu impugnato dal Ministero dell'Interno, il quale sostenne che la legge non consente alcuna discrezionalità, né può essere interpretata mediante aggiunte o integrazioni, mentre l'unità familiare va intesa in senso stretto, limitatamente alle ipotesi previste dal citato art. 28, primo comma.
Nel procedimento intervenne il P.G. che chiese l'accoglimento dell'impugnazione proposta dal Ministero.
La Corte di appello di Bologna, con decreto depositato il 23 febbraio 2000, in riforma del provvedimento del Tribunale dichiarò legittimo e confermò il diniego del visto d'ingresso in Italia disposto dall'Ambasciata d'Italia a Rabat, di cui alla comunicazione del 29 settembre 1999.
La Corte territoriale considerò:
che il D. L.vo n. 286 del 1998 conteneva - con riferimento al caso in esame - norme eccezionali rispetto al generale principio secondo cui il soggiorno in Italia degli stranieri non appartenenti alla Comunità Europea non è ammesso, potendo essere consentito in via di eccezione per ipotesi predeterminate, ritenute dal legislatore meritevoli di tutela, e con riferimento ad entità numeriche definite volta per volta; che in tale quadro l'art. 28, primo comma, del detto D. L.vo stabilisce che il diritto a riacquistare l'unità familiare è riconosciuto agli stranieri titolari di carta di soggiorno rilasciata per lavoro subordinato o per lavoro autonomo, ovvero per asilo, per studio o per motivi religiosi, mentre l'art. 6 del D.P.R. n. 394 del 1999 ribadisce che, per ottenere questo tipo di visto, è necessario "il permesso di soggiorno avente i requisiti di cui all'art. 28, comma 1";
che per riconoscimento legislativo nelle fattispecie indicate, corrispondenti ad interessi ritenuti dall'ordinamento particolarmente meritevoli di tutela, chi si trova in Italia può ricongiungersi ai propri familiari più stretti, i quali, a loro volta, possono ottenere il permesso di soggiorno e quindi godere dei servizi e delle opportunità consentiti agli altri stranieri (art. 30, comma 2°, cit.);
che, trattandosi di norme di carattere eccezionale, esse non possono essere applicate al di là dei casi tassativamente stabiliti, né si può ricorrere al procedimento analogico per ipotesi soltanto in apparenza non previste, dovendo in tal caso prevalere sulla disciplina derogatoria quella normale, che non era invocabile l'art. 28, terzo comma, del D. L.vo n. 286 del 1998, relativo all'interesse del fanciullo, perché la ricorrente non era venuta in Italia spinta dalla necessità o per motivi politici o religiosi, ma per vivere in casa del figlio maggiorenne dal quale era mantenuta e, per ottenere il permesso, aveva occultato alle autorità italiane di avere una figlia minore, abbandonata da sola in Marocco (comportamento, questo, da qualificare gravissimo);
che, se le autorità preposte avessero saputo che la donna abbandonava nel paese di origine una minore non autosufficiente, proprio per il disposto dell'art. 28, terzo comma, avrebbero dovuto negare il permesso di soggiorno, non potendosi consentire che il genitore abbandoni il figlio minore nel proprio paese;
che, in conclusione, non era meritevole di tutela il comportamento di una madre che aveva abbandonato in solitudine la figlia minore nel paese d'origine, non per necessità ma per il capriccio di stabilirsi in Italia continuando a vivere a carico dei propri parenti, cosi tenendo una condotta moralmente riprovevole che non poteva essere posta a fondamento di un presunto diritto di ricongiungersi alla figlia in Italia.
Contro tale provvedimento la signora M. H., anche in nome e nell'interesse della figlia minore B. H, ha proposto ricorso per cassazione, deducendo un unico motivo di annullamento articolato su più profili.
Gli intimati - Ministero dell'interno e Ministero degli affari esteri - non hanno svolto attività difensiva.

Motivi della decisione. Il ricorso è ammissibile, perché il procedimento di cui all'art. 30, comma sesto, del D. L.vo 25 luglio 1998, n. 286, comporta la decisione su diritti soggettivi (qual è il diritto all'unità familiare, che la legge ha inteso garantire anche allo straniero, alle condizioni stabilite), sicché il decreto emesso dal primo giudice è certamente reclamabile davanti alla competente Corte d'appello e il provvedimento di questa è suscettibile di ricorso per cassazione, ai sensi dell'art. 111 della Costituzione, trattandosi di provvedimento definitivo e a carattere decisorio su diritti. Il sindacato in sede di legittimità è quello proprio del ricorso straordinario per cassazione, limitato alle violazioni di legge ed ai vizi di motivazione che si traducano in assenza testuale o logica della motivazione medesima (così, tra le più recenti, Cass., 26 luglio 2000, n. 9793).

Passando al merito, la ricorrente deduce: l) violazione di legge, ai sensi dell'art. l l l della Costituzione in relazione all'art. 28 - commi l e 3 - del D. L.vo n. 286 del 1998; 2) omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su punto decisivo della controversia in relazione all'art. 30, comma 2, del citato D. L.vo; 3) violazione degli artt. 28 e 31 di questo, in relazione agli artt. 29, 30, 31, 32 della Costituzione.

L'esistenza dei requisiti previsti dalla legge per il ricongiungimento familiare sarebbe stata già verificata dalla Questura di Bologna, che avrebbe rilasciato il corrispondente nulla osta. L'Ambasciata d'Italia avrebbe dovuto limitarsi ad accertare la sussistenza del legame familiare tra madre e figlia.

La ricorrente sarebbe titolare di permesso di soggiorno rilasciato per motivi di famiglia con durata superiore ad un anno. Ai sensi dell'art. 30, comma secondo, del D. L.vo n. 286 del 1998 il permesso di soggiorno per motivi familiari consentirebbe l'iscrizione nelle liste di collocamento e/o lo svolgimento di lavoro subordinato o autonomo. Pertanto i due tipi di permessi di soggiorno (famiglia e lavoro) raggiungerebbero lo stesso fine ed avrebbero entrambi lo scopo di permettere allo straniero lo svolgimento di attività lavorativa.

In questo contesto, se è vero che l'art. 28, primo comma, del D. L.vo citato non annovera il permesso di soggiorno per motivi familiari tra quelli idonei a consentire il recupero dell'unità familiare, sarebbe vero del pari che l'art. 30 dello stesso decreto equipara il permesso di soggiorno per motivi di famiglia a quello per motivi di lavoro, sicché, per evitare una lettura dell'art. 28 non conforme a Costituzione, i due permessi andrebbero compresi in un'unica tipologia, non essendo legittimo interpretare l'art. 28, comma primo senza considerare il successivo art. 30, comma secondo del decreto legislativo menzionato.

Del resto, la Questura di Bologna, con il rilascio del nulla osta, avrebbe riconosciuto alla ricorrente il diritto a riacquistare l'unità familiare con la figlia minore, così equiparando il permesso di soggiorno per motivi di famiglia a quello per motivi di lavoro.

Inoltre il provvedimento impugnato avrebbe violato gli artt. 28 e 31 del D.L.vo n. 286 del 1998, trascurando di valutare il superiore interesse della minore. Nel caso in esame si sarebbe dovuto considerare che tutta la famiglia della ricorrente sarebbe legalmente residente in Italia con regolare permesso di soggiorno, che la minore sarebbe l'unica della famiglia ancora all'estero, che il diniego del visto sarebbe stato emesso anche in danno della stessa minore.

Nessun rilievo, infine, avrebbe la questione morale sollevata dalla Corte territoriale, perché la nuova normativa sarebbe diretta proprio a tutelare il diritto degli stranieri venuti in Italia al ricongiungimento con la famiglia lasciata in patria.

Il ricorso è fondato, nei sensi in prosieguo indicati.

Nel quadro normativo emergente dal D. L.vo n. 286 del 1998 il quesito che si pone per la decisione del presente ricorso è se il ricongiungimento familiare possa essere chiesto soltanto dallo straniero titolare di carta di soggiorno o di permesso di soggiorno di durata non inferiore a un-anno, "rilasciato per lavoro subordinato o per lavoro autonomo ovvero per asilo, per studio o per motivi religiosi"(art. 28, I° comma, D. L.vo n. 286/1998), oppure se analogo diritto possa essere esercitato anche dallo straniero che, venuto in Italia per ricongiungersi con un proprio familiare ed ottenuto il relativo permesso di soggiorno (art. 30 D.L.vo cit.), chieda a sua volta il ricongiungimento con i familiari di cui all'art. 29 del menzionato D. L.vo, fermo restando l'accertamento dei requisiti in detta norma contemplati.

Il collegio ritiene che debba essere adottata la seconda delle opzioni ermeneutiche ora indicate.

L'art. 28 riconosce il diritto all'unità familiare allo straniero titolare di carta di soggiorno o di permesso di soggiorno di durata non inferiore a un anno, rilasciato per lavoro subordinato o per lavoro autonomo ovvero per asilo, per studio o per motivi religiosi. La norma è collocata nel titolo IV del citato D. L.vo, dedicato appunto al diritto all'unità familiare e alla tutela dei minori. L'art. 29 indica i familiari per i quali può essere chiesto il ricongiungimento e (tra l'altro) ne stabilisce i requisiti. L'art. 30, poi, disciplina il permesso di soggiorno per motivi familiari, determinando nel primo comma gli stranieri ai quali esso è rilasciato (lettere a, b, c, d) e stabilendo, nel secondo comma, le facoltà che tale permesso consente. I1 terzo comma aggiunge che il permesso di soggiorno per motivi familiari ha la stessa durata del permesso di soggiorno del familiare straniero in possesso dei requisiti per il ricongiungimento ai sensi dell'art. 29 ed è rinnovabile insieme con quest'ultimo. L'art. 6, dal canto suo,dispone che il permesso di soggiorno rilasciato per motivi di lavoro subordinato, lavoro autonomo e familiari (cioè, per motivi familiari) può essere utilizzato anche per le altre attività consentite.

Una lettura coordinata di questo quadro normativo non consente di condividere la tesi restrittiva seguita dalla Corte territoriale.

Fermo il punto che il legislatore ha inteso consentire il ricongiungimento come modo per realizzare il diritto all'unità familiare (sia pure nei limiti soggettivi definiti dall'art. 29) non è ragionevole, e conduce a conseguenze discriminatorie, riconoscere il diritto a chiedere il ricongiungimento allo straniero titolare di permesso di soggiorno, rilasciato per lavoro subordinato per lavoro autonomo (ovvero per asilo, per studio o per motivi religiosi), e negarlo allo straniero in possesso di permesso di soggiorno per motivi familiari.

Infatti, come si desume dal contesto normativo sopra richiamato: a) quanto alle facoltà inerenti al soggiorno, il permesso per motivi familiari può essere utilizzato anche per le altre attività consentite, come il permesso rilasciato per motivi di lavoro subordinato o lavoro autonomo (art. 6, comma I°); b) il permesso di soggiorno per motivi familiari consente (tra l'altro) I'iscrizione nelle liste di collocamento e lo svolgimento di lavoro subordinato o autonomo (art. 30, comma II°), c) il permesso di soggiorno per motivi familiari ha la stessa durata del permesso di soggiorno del familiare straniero in possesso dei requisiti per il ricongiungimento, ai sensi dell'art. 29, ed è rinnovabile insieme con quest'ultimo (art. 30, comma III°).

Se, dunque, il titolare di permesso di soggiorno rilasciato per lavoro subordinato o per lavoro autonomo può esercitare il diritto all'unità familiare, lo stesso diritto deve essere riconosciuto al titolare di permesso di soggiorno per motivi familiari, al quale del pari è consentito lo svolgimento di lavoro subordinato o autonomo (sicché le due situazioni giuridiche vengono a coincidere) e che è portatore di un permesso utilizzabile anche per le altre attività consentite, proprio come il permesso rilasciato per motivi di lavoro subordinato o autonomo.

In altre parole, si vuol dire che i due permessi di soggiorno (per motivi di lavoro o familiari) attribuiscono facoltà analoghe se non identiche, onde un trattamento giuridico differenziato non sarebbe neppur costituzionalmente legittimo (si noti che l'art. 2, comma secondo, del D. L.vo n. 286 del 1998 concede allo straniero regolarmente soggiornante in Italia i diritti in materia civile attribuiti al cittadino italiano, nel cui novero va compreso anche il diritto all'eguaglianza di trattamento desumibile dall'art. 3 della Costituzione, costituente principio fondamentale dell'ordinamento).

D'altro canto, se la ratio legis è quella di favorire l'unità familiare nei limiti soggettivi definiti dall'art. 29 (e il ricordato contesto normativo non sembra lasciare dubbi in proposito), questa intenzione del legislatore non può essere ignorata in forza di una lettura meramente letterale dell'art. 28, primo comma, del D. L.vo n.286 del 1998, trascurando del tutto i pur significativi elementi d'interpretazione emergenti dal testo coordinato di tale norma e di quelle in precedenza richiamate.

La soluzione qui condivisa trova poi, nel caso in esame, un ulteriore e determinante riscontro.

Il ricongiungimento familiare è stato chiesto dalla ricorrente per la figlia B. H, nata il 5 agosto 1982 e quindi minore d'età all'atto della presentazione della domanda (18 giugno 1999, come emerge dal provvedimento impugnato). Infatti, ai sensi dell'art. 29, comma secondo, del D. L.vo n. 286/1998 si considerano minori i figli di età inferiore a 18 anni; e il requisito dell'età va verificato al momento di presentazione della domanda, perché la durata del procedimento e del processo non può andare a detrimento della parte.

Orbene, I'art. 28, comma terzo, del citato D. L.vo stabilisce che in tutti i procedimenti amministrativi e giurisdizionali finalizzati a dare attuazione al diritto all'unità familiare e riguardanti i minori deve essere preso in considerazione con carattere di priorità il superiore interesse del fanciullo, conformemente a quanto previsto dall'art. 3, comma 1, della Convenzione sui diritti del fanciullo del 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva ai sensi della legge 27 maggio 1991, n. 176.

Chiamata ad applicare tale norma la Corte distrettuale ha commentato con severe parole la condotta della ricorrente, la quale avrebbe abbandonato la figlia minore sola in Marocco non per necessità "ma per il capriccio di stabilirsi in Italia continuando a vivere a carico dei propri parenti". Il provvedimento impugnato non consente di cogliere gli elementi in base ai quali la Corte bolognese ha maturato il convincimento che la ricorrente sarebbe venuta in Italia "per capriccio". Dallo stesso provvedimento, però, si trae che ella aveva ottenuto dalla Questura di Bologna il prescritto nulla osta, il cui rilascio presuppone che sia stata verificata l'esistenza dei requisiti di cui all'art. 29 (v. il settimo comma di detta norma). Ma, a parte tale profilo, l'argomentazione della Corte di Bologna è in contrasto con il citato art. 28, terzo comma, perché, lungi dal prendere in considerazione con carattere di priorità l'interesse della minore, si sofferma sulla condotta materna, mentre avrebbe dovuto valutare se per la giovane donna ormai sola in Marocco fosse preferibile rimanere in quel Paese oppure ricongiungersi con i familiari soggiornanti in Italia.

Alla stregua delle considerazioni svolte il ricorso deve essere accolto e il provvedimento impugnato deve essere cassato.

Poiché non risultano necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito, ai sensi dell'art. 384, primo comma, cod. proc. civ.; e la decisione si traduce nel confermare il provvedimento del tribunale, che aveva annullato il provvedimento dell'Ambasciata disponendo il rilascio del visto d'ingresso.

Si ravvisano giusti motivi per compensare le spese del giudizio di cassazione.

PQM

La Corte accoglie il ricorso, cassa il provvedimento impugnato e, pronunziando nel merito ai sensi dell'art. 384 cod. proc. civ., conferma il decreto del Tribunale di Bologna in data 25 ottobre 1999.
Compensa le spese del giudizio di cassazione.


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