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Giurisprudenza 2001 Corte di Cassazione sez. VI penale - sentenza 18 gennaio 2001 n. 353

Osserva. Con sentenza in data 19 febbraio 1996 il Tribunale di Ferrara assolveva V.G., imputato dei reati di cui agli articoli 323 e 640 capoverso n. 2 del codice penale per avere, quale funzionario responsabile del servizio tecnico e del servizio di economato della U.S.L. di Portogruaro, abusato del suo ufficio col servirsi di uno dei telefoni in dotazione alla U.S.L. per comunicazioni interrurbane di carattere privato e per l'essersi con ciò procurato ingiusto profitto in danno della stessa U.S.L., cui veniva addebitato il costo delle telefonate.
Per rispondere di questa condotta il V.G. era stato a suo tempo rinviato a giudizio davanti allo stesso Tribunale quale imputato del reato di cui all'articolo 314 capoverso del codice penale; ma il Tribunale, ritenendo che la configurazione del reato di cui all'articolo 323 del codice penale a suo avviso ipotizzabile più esattamente nella condotta ascritta all'imputato comportasse una sostanziale diversità dal fatto contestato, aveva disposto la restituzione degli atti al pubblico ministero ai sensi dell'articolo 521, comma 2, del codice di procedura penale.
A seguito dell'impugnazione della sentenza del 19 febbraio 1996 da parte del Procuratore della Repubblica, la Corte d'Appello di Bologna, con sentenza in data 18aprile 2000, riteneva che il fatto integrasse non già gli estremi dei reati da ultimo contestati, bensì quelli del reato di cui all'articolo 314, capoverso, del codice penale contestato in origine, unificate in esso entrambe le contestazioni; e condannava l'imputato, con l'attenuante di cui all'articolo 323-bis del codice penale e con le attenuanti generiche, alla pena di mesi due e giorni venti di reclusione, condizionalmente sospesa, nonché all'interdizione dai pubblici uffici per la durata di un anno.
Ricorre l'imputato a mezzo del proprio difensore. Eccepisce in primo luogo l'inammissibilità dell'appello del pubblico ministero, per erronea indicazione del numero d'ordine della sentenza impugnata: non contenendo questa indicazioni ulteriori a quella del nome dell'imputato e dell'autorità emittente, vi sarebbe incertezza assoluta sull'identità del provvedimento impugnato.
Deduce poi inosservanza dell'articolo 649 del codice di procedura penale: a suo avviso, una volta escluso il peculato da parte del Tribunale che aveva preso per la prima volta cognizione dei fatti, il reato stesso non avrebbe più potuto essere ravvisato nelle fasi e nei gradi ulteriori, esistendo sul punto "un giudicato implicito".
Deduce ancora inosservanza dell'articolo 521 del codice di procedura penale, con conseguente nullità della sentenza ai sensi dell'articolo 522 del codice di procedura penale: la Corte d'Appello non avrebbe potuto, una volta ritenuta la configurabilità del peculato, affermare la sua responsabilità per tale reato, ma avrebbe dovuto restituire a sua volta gli atti al pubblico ministero, data la diversità strutturale tra tale fattispecie e l'abuso d'ufficio contestato.
Deduce infine manifesta illogicità della motivazione, non potendo essere esclusa la sua intenzione iniziale del pagamento delle somme corrispondenti al costo delle telefonate: pagamento poi risultato di fatto quanto mai macchnoso, essendosi resa necessaria allo scopo una riunione dell'organo di governo della U.S.L.
I rilievi del ricorrente sono infondati.
In forza del combinato disposto degli articoli 581 e 591, comma 1, lettera a), del codice di procedura penale, l'impugnazione è inammissibile quando manchi l'indicazione del provvedimento impugnato, della data del medesimo e del giudice che lo ha emesso; ma tutti questi elementi, come si desume dal ricorso stesso, erano stati puntualmente indicati nell'atto di appello.
Di fronte all'esattezza di tali indicazioni, non può riconoscersi rilievo ad un errore nella indicazione del numero della sentenza impugnata, che non poteva generare equivoco od incertezza sull'identità del provvedimento cui l'impugnazione si riferiva.
Inconferente è anche il richiamo all'articolo 649 del codice penale.
La norma vieta che l'imputato prosciolto o condannato con sentenza o decreto penale divenuti irrevocabili sia sottoposto a procedimento penale per il medesimo fatto, anche se diversamente qualificato; ma nel caso di specie non vi è stata alcuna sentenza di proscioglimento o di condanna, essendosi a suo tempo limitato il giudice di primo grado a disporre la restituzione degli atti al pubblico ministero per la ritenuta diversità tra il fatto contestato e quello ravvisato.
Una pronuncia del genere non fa stato in alcun modo e non vincola sotto nessun profilo il giudice poi investito del giudizio, che resta libero di dare al fatto la qualificazione giuridica ritenuta più idonea, anche se diversa da quella datagli dall'ordinanza che aveva disposto la restituzione degli atti al pubblico ministero ed anche se con la stessa incompatibile, in quanto coincidente con la medesima qualificazione giuridica da tale ordinanza esclusa.
Del tutto legittimamente, pertanto, la Corte d'Appello ha ricondotto il fatto alla qualificazione giuridica originaria, a nulla rilevando che si tratti della qualificazione che in primo grado era stata ritenuta inesatta e tale da comportare la necessità della restituzione degli atti al pubblico ministero.
Diversamente da quanto argomentato nel ricorso, la Corte dAppello aveva (in forza del combinato disposto degli articoli 598 e 521, comma 1, del codice di procedura penale) il potere di dare al fatto una qualificazione giuridica diversa da quella enunciata nella contestazione, senza che l'esercizio di tale potere comportasse la necessità della trasmissione degli atti al pubblico ministero, avendo ravvisato non già una diversità tra il fatto contestato e quello ritenuto, bensì la conformità del fatto stesso ad una ipotesi astratta di reato diversa da quella contestata col decreto che disponeva il giudizio.
Non esisteva alcun obbligo di adottare una decisione, per così dire, simmetrica a quella con la quale il giudice di primo grado aveva a suo tempo disposto la trasmissione degli atti al pubblico ministero nella situazione opposta (contestazione del reato di cui all'articolo 314, capoverso, del codice penale e ritenuta conformità del fatto alla diversa ipotesi di cui all'articolo 323 del codice penale); ed anzi, una decisione del genere sarebbe stata illegittima, avendo i giudici di appello ritenuto che non di diversità del fatto si trattasse, ma di semplice diversità della sua qualificazione giuridica.
Ed invero, era stato contestato all'imputato di aver abusato del proprio ufficio utilizzando a fini personali l'apparecchio telefonico che aveva in dotazione; ed è esattamente questa la condotta ritenuta in sentenza, anche se ricondotta alla previsione dell'articolo 314, capoverso, del codice penale.
Quanto all'oggettiva configurabilità di quest'ultima ipotesi delittuosa, è ben vero che questa Corte (Cassazione, sezione VI penale, sentenza 23 ottobre 2000, ricorrente Di Maggio) la ha esclusa nel caso di "uso del telefono dell'ufficio fatto in via episodica per contingenti esigenze personali e con incidenza economica minima per l'ente intestatario dell'utenza", ravvisando in tale condotta una deviazione irrilevante dalla destinazione tipica del bene, come tale penalmente indifferente; ma è anche vero che i presupposti sopra indicati (episodicità dell'uso, sua dipendenza da esigenze del tutto contingenti, irrilevanza del danno) non ricorrono pacificamente nel caso in esame, in cui le telefonate furono numerose e tutte interurbane, per un totale di n. 878 scatti addebitati alla U.S.L.; e furono dirette all'utenza corrispondente ad una società in cui l'imputato aveva interessi economici. Esattamente, pertanto, la condotta dell'imputato è stata inquadrata nella previsione del peculato, concretando quella interversione del possesso che costituisce elemento essenziale del reato.
Il concorso apparente tra l'articolo 314 e l'articolo 323 del codice penale va, d'altronde, risolto nel senso dell'applicazione della prima norma, anche se i due reati sono attualmente puniti con pene di identica gravità, trattandosi di norma speciale, in quanto distinta dall'elemento dell'appropriazione, rispetto all'articolo 323 del codice penale che prevede genericamente il conseguimento di un ingiusto vantaggio patrimoniale come conseguenza di una condotta posta in essere dal pubblico ufficiale attraverso la violazione di norme di legge o di regolamento.
Non può infine essere posto ragionevolmente in dubbio, sulla base delle considerazioni contenute nel ricorso, l'elemento soggettivo del reato. L'intenzione della restituzione, che il ricorrente invoca, non esclude di certo il dolo, ma è anzi l'elemento che distingue l'ipotesi delittuosa prevista dal secondo comma dell'art. 314 c.p. dall'ipotesi più grave prevista dal primo comma; ond'è che, se i giudici di appello non avessero tenuto conto di tale intenzione, l'imputato avrebbe dovuto essere condannato per questo diverso reato.
Il ricorso va pertanto rigettato. Consegue al rigetto la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

PQM

la Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.


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