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Giurisprudenza 2000 Corte di Cassazione sez. III penale - sentenza 1 febbraio 2001 n. 3990

Svolgimento del processo. Con sentenza 29.11.1999 la Corte di Appello di Lecce confermava la sentenza 22.12.1998 del Tribunale di Brindisi che aveva affermato la penale responsabilità di I. G. in ordine al reato di cui:
- agli artt. 81, 61 n. 9 e 609 bis, comma 3, cod. pen. (per avere, con violazione dei doveri inerenti alla pubblica funzione di coordinatore amministrativo presso (omissis), con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso e con violenza, commesso atti di libidine sulle alunne (omissis) alle quali palpava il seno, e (omissis), alla quale dava anche un bacio sulle labbra in (omissis), fino all'11.5.1994) e, con circostanze attenuanti generiche prevalenti sull'aggravante contestata, essendo stato riconosciuto il "caso di minore gravità" di cui al 3° comma dell'art. 609 bis cod. pen., lo condannava alla pena complessiva - condizionalmente sospesa - di anni uno e mesi sei di reclusione, nonché al risarcimento dei danni nei confronti delle costituite parti civili.
Avverso tale sentenza ha proposto ricorso l'I., il quale ha eccepito:
a) carenza ed illogicità della motivazione, in punto di affermazione della responsabilità, poiché la Corte territoriale - con argomentazioni anche superficiali ed inesatte - avrebbe ritenuto attendibili le accuse formulate dalle denunzianti, senza procedere ad una rigorosa valutazione delle stesse;
b) l'insussistenza del reato, in quanto i fatti contestati - mancando assolutamente alcun tipo di violenza, intesa come esplicazione di una energia fisica atta a vincere la resistenza delle ragazze - non sarebbero "idonei a varcare la soglia della rilevanza penale in relazione all'art. 609 bis; cod. pen.".

Motivi della decisione. Il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, poiché entrambe le doglianze sono manifestamente infondate.
1. Secondo la giurisprudenza di questa Corte Suprema, in tema di valutazione probatoria, la deposizione della persona offesa dal reato, anche se quest'ultima non è equiparabile al testimone estraneo, può tuttavia essere da sola assunta come fonte di prova, ove venga sottoposta ad un'indagine positiva sulla credibilità soggettiva ed oggettiva di chi l'ha resa (Cass. Sez. VI, 4.3.1994, n. 2732 e Sez. I, 18.3.1992, n. 3220).
Un'indagine siffatta, nella fattispecie in esame, risulta correttamente effettuata, poiché i giudici di merito hanno sottoposto ad un controllo rigoroso le dichiarazioni accusatorie provenienti dalle giovani parti lese, evidenziandone anzitutto le caratteristiche peculiari di precisione, coerenza, ed uniformità nella loro reiterazione.
Hanno tenuto conto, quindi, degli elementi di conferma forniti già dalla reciprocità dei riscontri sia dalle deposizioni delle persone cui le ragazze riferirono nell'immediato circa i toccamenti di cui erano state vittime.
Nell'anzidetto contesto probatorio la Corte territoriale non ha mancato inoltre di considerare le obiezioni formulate dalla difesa ed ha razionalmente escluso che tutte le denuncianti abbiano agito per "suggestione reciproca" ovvero orchestrato di comune accordo una calunniosa prospettazione di fatti, al solo fine (ma perché?) di danneggiare l'I.
2. In relazione al reato già previsto dall'art. 521 cod. pen. (antecedentemente all'emanazione della legge 15.2.1996, n. 66) veniva considerato atto di libidine "lo sfogo dell'appetito di lussuria diverso dalla congiunzione carnale" (vedi Relaz. min. sul progetto del cod. pen. del 1930, vol. II, pp. 307-308) e venivano ricondotte alla figura criminosa in parola tutte le manifestazioni dell'istinto sessuale, e cioè tutte le forme in cui può estrinsecarsi la libidine (ivi compresi i semplici palpamenti), diverse dal coito, suscettive di dare sfogo alla concupiscenza, anche in modo non completo e di durata brevissima (vedi Cass., Sez. III, 22.5.1986, Trovato).
Tali atti venivano distinti in violenti ed abusivi, perché dovevano essere compiuti usando dei mezzi o valendosi delle condizioni già indicate negli artt. 5l9 e 520, e cioè mediante violenza o minaccia oppure con abuso delle condizioni di inferiorità in cui le persone offese si trovavano per il proprio stato fisico o psichico ovvero per il rapporto di soggezione intercedente con l'agente.
Dopo l'entrata in vigore della legge n. 66/1996, invece, l'individuazione della condotta tipica del reato di "violenza sessuale" si riconnette alla definizione della nozione, del contenuto e dei limiti della locuzione "atti sessuali", in quanto l'art. 609 bis, cod. pen (introdotto appunto da tale legge) ha concentrato in una fattispecie umanitaria le previgenti ipotesi criminose previste dagli artt. 519 e 521, individuando quale unica condotta composita, idonea a ledere il bene giuridico della libertà sessuale, in luogo della "congiunzione carnale" e degli "atti di libidine violenti", il fatto di chi con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità "costringe" taluno a compiete o a subire "atti sessuali".
Non avrebbe senso, infatti, stante l'unicità del bene protetto, distinguere tra diverse modalità di aggressione, tutte comunque lesive della dignità e dell'autodeterminazione della persona umana.
Le posizioni della dottrina, di fronte al problema dell'individuazione del minimum di condotta penalmente rilevante perché resti integrato il delitto di violenza sessuale, possono ricondursi a tre principali orientamenti:
a) la tesi della maggiore ampiezza dell'espressione "atti sessuali" rispetto a quella di "atti di libidine", che ricomprende nella nuova categoria, perlomeno in astratto, qualsiasi atto che sia comunque riconducibile (quanto ai motivi che lo ispirano, alle modalità di realizzazione, alle finalità perseguite) alla sfera della sessualità umana;
b) l'opinione che tra gli atti di libidine e gli atti sessuali vi è invece una fondamentale identità concettuale e che la fattispecie dell'art. 609 bis, unificando i precedenti reati di violenza carnale e di atti di libidine nella figura unitaria della violenza sessuale, abbia lasciato sostanzialmente intatto il limite inferiore della tutela della libertà sessuale, costituito appunto dagli atti di libidine;
c) l'indirizzo secondo il quale la nozione di "atti sessuali" deve essere intesa in senso restrittivo rispetto a quella comunemente accolta in relazione agli atti di libidine e deve essere condotta in termini necessariamente oggettivi, senza che possano avere rilievo, nell'individuazione della condotta penalmente rilevante, "né l'impulso del soggetto attivo del reato, né la potenziale suscettibilità erotica del soggetto passivo, ma piuttosto l'oggettiva natura sessuale dell'atto in sé considerato", individuata "rifacendosi alle scienze medico psicologiche ed ancor più a quelle antropologico-sociologiche". In tale prospettiva, per potere qualificare un atto come "atto sessuale", si richiede necessariamente "il contatto fisico tra una parte qualsiasi del corpo di una persona con una zona genitale, anale od orale del partner". Restano pertanto fuori dalla nozione mini a di atto sessuale quelle condotte che, per quanto possano costituire espressioni di un impulso concupiscente o possano essere rivolti ad eccitare o a soddisfare la concupiscenza, siano però privi di quella oggettiva componente strettamente fisica (e non moralistica) nel senso dianzi enunciato.
Un illustre autore, poi, ha posto in rilievo che "le fattispecie incriminatrici per la loro stessa natura implicano una valutazione umana e sociale, culturalmente condizionata, dei comportamenti presi in considerazione" e che "la determinazione di ciò che è sessualmente rilevante in materia penale non può in realtà prescindere dal riferimento al costume e alle rappresentazioni culturali di una collettività determinata in un determinato momento storico. Da ciò ha dedotto la difficoltà di una collettività determinata in un determinato momento storico". Da ciò ha dedotto la difficoltà di tracciare con sicurezza il discrimine tra sessuale e non sessuale facendo prevalentemente riferimento alle parti anatomiche del corpo e/o all'intensità dei contatti fisici e trascurando invece "la valenza significativa dell'intero contesto in cui il contatto si realizza e, di conseguenza, la complessa dinamica intersoggettiva che si sviluppa in una situazione connotata oltretutto dalla presenza di fattori coartanti".
Secondo lo stesso autore, "viste le cose in questa più ampia prospettiva, aperta all'influenza di fattori psicologici e culturali incentrare il momento decisivo della rilevanza penale sulla considerazione meccanica e isolata della specifica parte anatomica aggredita (o lambita) dal soggetto attivo e/o del grado di intensità fisica del contatto instaurato, non può non apparire riduttivo: potrebbe, invece, apparire più aderente alla logica dell'apprezzamento penalistico un approccio interpretativo di tipo sintetico, cioè volto a desumere il significato della violenza sessuale da una complessiva valutazione di tutta la vicenda sottoposta a giudizio".
Nella giurisprudenza di questa Corte Suprema è stato affermato che:
- va ricondotto alla definizione di atto sessuale "ogni comportamento che, nell'ambito di un rapporto fisico interpersonale, sia manifestazione dell'intento di dare soddisfacimento all'istinto, collegato con i caratteri anatomico-genitali dell'individuo", facendone derivare "che la condotta deve consistere, quanto meno, in toccamenti di quelle parti del corpo altrui suscettibili di essere - nella normalità dei casi - oggetto dei prodromi diretti al conseguimento della piena eccitazione o dell'orgasmo" (Cass., Sez. III, 11.12.1996, n. 3800, Rotella);
- "la nozione di atti sessuali, a differenza di quella di atti di libidine violenti, è disancorata dall'indagine sul loro impatto nel contesto sociale e culturale in cui avviene, in quanto punto focale è la disponibilità della sfera sessuale da parte della persona che ne è titolare … l'aggettivo sessuale attiene al sesso dal punto di vista anatomico, fisiologico o funzionale, ma non limita la sua valenza ai puri aspetti genitali del rapporto interpersonale sicché deve includersi nella nozione di atti sessuali tutti quelli che siano idonei a compromettere la libera determinazione della sessualità del soggetto passivo e ad entrare nella sua sfera sessuale con modalità connotate dalla costrizione (violenza, minaccia o abuso di autorità), sostituzione ingannevole di persona ovvero abuso di condizioni di inferiorità fisica o psichica, sì da assumere un significato prevalentemente oggettivo e non soggettivo come, invece, avveniva per gli atti di libidine" (Cass., Sez. III, 5.6.1998, n. 6551, Di Francia);
- l'antigiuridicità della condotta vietata dall'art. 609 bis cod. pen. Resta connotata "da un requisito soggettivo (la finalizzazione all'insorgenza o all'appagamento di uno stato interiore psichico di desiderio sessuale) (che non va confuso con l'elemento soggettivo del rato, individuabile nel dolo generico) innestantesi sul requisito oggettivo della concreta e normale idoneità del comportamento a compromettere la libertà di autodeterminazione del soggetto passivo nella sua sfera sessuale e ad eccitare o a sfogare l'istinto sessuale del soggetto attivo"(Cass., Sez. III, 6.2.1997, n. 1040, Coro);
- "il concetto attuale di atti sessuali è semplicemente la somma dei concetti previgenti di congiunzione carnale e atti di libidine, sicché esso non comprende anche quegli atti o comportamenti che, pur essendo espressione di istinto sessuale, non si risolvano in un contatto corporeo tra soggetto attivo e soggetto passivo o comunque non coinvolgano la corporeità sessuale di quest'ultimo … In tutti i casi, quindi, compiere o subire atti sessuali implica un coinvolgimento della corporeità sessuale della persona offesa": (Cass., Sez. III, 3.11.1999, Carnevali).
Nella fattispecie in esame, alla stregua dell'elaborazione dottrinale dianzi enunciata (sia pure in termini di necessaria approssimazione) e dei principi giurisprudenziali citati - tenuto conto della oggettiva componente strettamente fisica dei comportamenti posti in essere dall'imputato, concretatisi essenzialmente in palpamenti ripetuti del seno delle alunne - deve rilevarsi che gli episodi contestati correttamente sono stati ricondotti alle previsioni sia dell'abrogato art. 521 sia del vigente art. 609 bis cod. pen., allorché si consideri che si verte in ipotesi di reato di pura condotta e che, in tutte le vicende in esame, gli atti - posti in essere con modalità idonee a vincere nel caso concreto la resistenza delle vittime in quanto connotate da repentinità e imprevedibilità - nelle loro concrete estrinsecazioni fattuali;
- sono in se stessi riconducibili alla sessualità umana;
- hanno fisicamente coinvolto, nella loro connotazione oggettiva, la corporeità sessuale delle persone offese;
- hanno compromesso la libertà di autodeterminazione delle giovani parti lese nella loro sfera sessuale.
Va ribadito altresì, in proposito, il principio - già affermato dalla giurisprudenza prevalente formatasi in relazione all'art. 521 cod. pen. (seppure criticato da autorevole dottrina) - secondo cui la "violenza" richiesta dalla norma incriminatrice non è soltanto quella che pone il soggetto passivo nell'impossibilità di opporre tutta la resistenza voluta, tanto da concretarsi in un vero e proprio costringimento fisico, bensì anche quella che può manifestarsi nel compimento insidiosamente rapido dell'azione criminosa, consentendo in tal modo di superare la contraria volontà del soggetto passivo (vedi Cass., Sez. III: 15.5.1986, n. 3796, Reina; 9.10.1982, n. 8860, Rabino; 8.4.1980, n. 4678, Giliberti; 11.3.1977, n. 3778, Azzani; 26.3.1974, n. 2546, Pirotie; 3.8.1973, n. 1209, Milani; 23.3.1972, n. 1833, Broggi; 5.6.1971, n. 572, Borgognini; 14.11.1967, n. 1109, Lanzoni; 28.2.1967, n. 1382, Iacovone; nonché Sez. I: 13.5.1976, n. 5873, Bozano).
Anche in ipotesi siffatte, invero, vi è "un'esplicazione di energia fisica diretta a superare la contraria volontà del soggetto nei cui confronti viene esercitata"; la repentinità insidiosa, anzi, viene scelta - nella sicura convinzione che il consenso non vi sarebbe e che l'opposizione e la resistenza non mancherebbero se fossero rese possibili - proprio allo scopo di sorprendere la vittima e vanificarne ogni possibilità di reazione, incidendo sul tempo necessario all'impostazione di una qualunque forma di difesa.
Appare opportuno, pertanto, riaffermare - ancor più in considerazione della stessa ratio della riforma - che l'inerzia incosciente della persona offesa, quando non è sintomatica di un vero e proprio consenso (cioè quello stato di inattività che dipende non dalla rinunzia ad una resistenza attiva nella consapevolezza della volontà dell'aggressore, ma dalla ignoranza assoluta della intenzione dello stesso), non esclude, in relazione alle circostanze concrete del singolo caso, vere e proprie forme di aggressione alla libertà sessuale compiute con una repentinità di azione, idonea a limitare la libertà di autodeterminazione della vittima ed a rendere inoperante la capacità di resistenza, facendole subire un atto che in altre condizioni non sarebbe stato compiuto.
3. Tenuto conto della sentenza 13.6.2000, n. 186 della Corte Costituzionale e rilevato che, nella fattispecie in esame, non sussistono elementi per ritenere che "la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità", alla declaratoria della inammissibilità medesima consegue, a norma dell'art. 616 c.p.p., l'onere delle spese del procedimento nonché del versamento di una somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata, in ragione dei motivi dedotti, nella misura di lire un milione.

PQM

la Corte Suprema di Cassazione, visti gli artt. 607, 615 e 616 c.p.p., dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali nonché al versamento della somma di lire un milione in favore della Cassa delle ammende.


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