Capitolo 2

Musica e dominio:
tra conciliazione e conoscenza

 

2.1 Arte e mercato

La critica di Pasqualotto alla dialettica negativa è intesa a colpire, oltre all’aspetto specificamente filosofico, anche l’elemento etico del pensiero di Adorno. L’argomento fondamentale (se così lo si può chiamare) di questa posizione è espresso nel ripetuto descrivere come ‘illusione’ la possibilità per il singolo di sottrarsi al dominio sociale. In particolare, Adorno si ingannerebbe "sulla possibilità, per la filosofia e per l’arte, di ‘testomoniare’ la presenza di qualcosa che non si è ancora piegato al Wille zur Macht, di un ‘negativo’ sopravvissuto all’integrazione, esterno ai conflitti di ‘potenze’, di interessi"(1). Nel capitolo precedente si è gia mostrato come il critico si basi in realtà su una concezione del rapporto singolarità-totalità diversa da quella del filosofo: se per quest’ultimo il suddetto rapporto è fondato su una dialettica di integrazione e antagonismo, per il primo la realtà del dominio non lascia scampo, e la stessa possibilità di un ‘negativo’ non integrato è contraddittoria, utopistica e quindi inutile. Coerentemente con questa posizione, ogni singola manifestazione umana è comprensibile solo in funzione della sua integrazione nel sistema. Assicurando che spontaneità, individualità e soggettività non hanno alcun valore autonomo nel mondo concepito come dominio, Pasqualotto si spinge forse un po’ troppo in là nell’affermare che "l’arte ‘negativa’ vende più di quella ‘positiva’, anzi: vende perchè è negativa"(2).

Qualunque lettore di Adorno troverà quest’affermazione per lo meno sconcertante. Simili considerazioni sulla cosiddetta ‘arte negativa’, per quanto evidentemente assunte come mero esempio dell’inevitabilità del sistema, sono per vari motivi foriere di gravi fraintendimenti (o di intendimenti molto superficiali) dell’estetica di Adorno. Prima di passare ad un esame in media res del pensiero musicale di Adorno, che è l’oggetto di questa sezione della dissertazione, vorrei esporre brevemente i punti critici dell’affermazione sopracitata.

In primo luogo viene proposta, in relazione all’efficacia commerciale, una divisione tra arte positiva e arte negativa che non ha corrispettivi in Adorno; ma se con una certa approssimazione si conducono queste due categorie a quelle (pur generiche e imprecise se considerate ‘assolute’) di avanguardia e tradizione, il commento di Pasqualotto è palesemente falso: Webern non ‘vende’ (sarebbe meglio dire ‘non è apprezzato dal pubblico’) più di Mozart o Bach, proprio perchè il tratto distintivo della musica ‘avanzata’ è la rinuncia alla tonalità in quanto Entlastung, agevolazione nell’approccio con il pubblico(3). La gravità del fraintendimento è tale da suscitare il sospetto della mancanza di una conoscenza pur superficiale degli elementi specifici del mondo dell’arte cui Adorno si riferisce. In più, la presente critica ricorda molto da vicino quella che rimprovera all’arte moderna di essere managerializzata, amministrata ‘dall’alto’ in funzione commerciale; critica che costituisce l’argomento di Proposta di non conciliazione (4), un breve saggio denso di ironia nel quale Adorno stigmatizza la diffidenza e l’idiosincrasia degli oppositori a priori dell’arte moderna (questa volta con riferimento alla pittura) proponendo di sostituire la tradizionale divisione tra fautori e oppositori dell’arte moderna con quella tra fautori e appartenenti ad un’ipotetica "Associazione tedesca della Pittura d’albergo"; questi, spinti dal meccanismo psicologico della proiezione, trasferirebbero nell’accusa di essere solo una moda o in quella di dovere la propria esistenza solo a fattori commerciali la loro incapacità di comprendere l’arte progredita.

Si può interpretare la dicotomia proposta da Pasqualotto come fondata sulla possibilità dell’opera d’arte di affermare o negare l’ordine esistente: questa divisione è già più consona al pensiero di Adorno, secondo il quale il semplice essere ‘avanguardia’ non basta a garantire l’opera dalla reificazione (5). Ma anche in questo caso il maggior successo commerciale dell’arte ‘negativa’ rimane una semplice illazione. Bisogna dunque concludere che l’unico appiglio reale per inserire in un saggio su Adorno la falsa osservazione che "l’arte ‘negativa’ vende più di quella ‘positiva’" è il riferimento implicito alla posizione dell’arte nella società di mercato, che costituisce effettivamente (ma non in questi termini) un punto nodale dell’estetica adorniana.

2.2 Industria culturale

Già nella Dialettica dell’illuminismo Horkheimer e Adorno proposero il termine ‘industria culturale’ (6) per connotare il mondo della cultura nella società a capitalismo avanzato. In una conferenza del 1963 (7) Adorno spiega genesi e funzione del termine:

nei nostri appunti si parlava di cultura di massa; sostituimmo questa espressione con "industria culturale" per eliminare subito l’interpretazione che fa comodo ai suoi difensori: che si tratti di qualcosa come una cultura che scaturisce spontaneamente dalle masse stesse, della forma che assumerebbe oggi un’arte popolare. Da cui viceversa l’industria culturale si differenzia nel modo più assoluto.(8)

La parola ‘industria’ non va intesa, in questo caso, come riferimento al processo di produzione. Infatti ogni prodotto dell’industria culturale è caratterizzato da "forme individuali di produzione" (9): secondo Adorno questo avviene persino nell’arte cinematografica, che per l’ampio utilizzo di macchine, il ricorso alla divisione del lavoro, la separazione dei lavoratori dall’ambito decisionale, partecipa più concretamente di altre arti agli aspetti tipici dell’industria moderna. In realtà il carattere industriale della cultura riguarda aspetti specifici dei prodotti culturali, a prescindere dalla loro produzione (10): la mercificazione e la standardizzazione. Nella spiegazione di Marc Jimenez, ‘industria culturale’ designa "lo sfruttamento sistematico e programmatico del ‘beni culturali’ a fini commerciali. [...] L’industria culturale riflette così i medesimi rapporti e i medesimi antagonismi del mondo industriale delle società moderne con questa essenziale differenza che, complice l’ideologia dominante, essa ha appunto il ruolo di rendere omogenei e inoffensivi i possibili conflitti, in particolare quelli che potrebbero provenire da ambienti culturali"(11). Nell’analisi di Adorno la presenza della cultura nella società di massa si configura come uno dei campi in cui si esercita il dominio sociale. Ridotta ad essere una merce tra le altre la cultura è privata della sua forza critica, per diventare pura ideologia, e il soggetto si trova ancora più immerso nella reificazione:

il compito che lo schematismo kantiano aveva ancora lasciato ai soggetti, cioè quello di riferire in anticipo la molteplicità dei dati sensibili ai concetti fondamentali, è levato al soggetto dall’industria. Essa attua e mette in pratica lo schematismo come primo servizio del cliente. Nell’anima era all’opera, secondo Kant, un meccanismo segreto che preparava già i dati immediati in modo che si adattassero al sistema della pura ragione. Oggi l’enigma è svelato. [...] Per il consumatore non rimane più nulla da classificare che non sia già stato anticipato nello schematismo della produzione. La prosaica arte per il popolo realizza quell’idealismo fantastico che appariva eccessivo e insostituibile a quello critico di Kant.(12)

La tendenza al sistema tipica della ragione illuminista, che si manifesta nella filosofia borghese così come nell’organizzazione capitalista del lavoro, si estende anche nel campo dei beni culturali, facendone sia una fonte di guadagno che un valido strumento ideologico. Come si è visto, il sistema si basa su una falsa conciliazione tra totalità e particolare, nella quale i particolari sono integrati solo in quanto vengono spogliati dei tratti qualitativi, non riducibili ad esistere come mera funzione. Lo stesso procedimento avviene nell’industria culturale, che "conferisce ai suoi prodotti un’aria di somiglianza. I film, la radio e i settimanali costituiscono, nel loro insieme, un sistema. Ogni settore è armonizzato al suo interno e tutti lo sono tra di loro"(13).

Il processo di standardizzazione connaturato all’industria culturale riguarda sia i prodotti che il pubblico destinato ad usufruirne. Infatti, se il progresso tecnologico consente di raggiungere da un solo centro milioni di persone, è evidente che le esigenze della produzione non potranno che fornire a tutti prodotti ad un livello altamente omogeneo, senza peraltro poter rinunciare a provocare negli utenti l’illusione di una varietà dell’offerta:

lo schematismo del procedimento risulta dal fatto che, alla fine, i prodotti differenziati meccanicamente fra loro si rivelano sempre come identici. (14)

Il particolare perde la capacità di critica alla totalità che secondo Adorno aveva avuto nell’arte in passato (15): viene mantenuto a livello di ‘effetto’ con cui arricchire il prodotto standard. In questo modo l’opera non è più il risultato della mediazione tra forma e contenuto specifico, ma si riduce alla mera applicazione di una formula in grado di garantire in anticipo una tranquillizzante e stabile armonia. In questo modo ogni settore dell’industria culturale ha un idioma specifico, e la competenza dei singoli addetti alla produzione si misura sulla loro capacità di spacciare queste norme come naturali. Al contrario, secondo Adorno i maggiori artisti sono sempre stati quelli capaci di piegare lo stile alle loro esigenze, mantenendo nei suoi confronti un’atteggiamento di diffidenza. Ma per quanto riguarda l’‘arte amministrata’ è fuori luogo parlare di ‘stile’,

perché lo stile dell’industia culturale, che non ha più bisogno di affermarsi sulla resistenza del materiale, è – nello stesso tempo – la negazione dello stile. La conciliazione di universale e particolare, regola e istanza specifica dell’oggetto, che lo stile deve attuare per poter acquistare vita e sostanza, è inefficace e senza valore, poiché non si determina più nessuna tensione fra i due poli opposti: gli estremi, che si toccano, sono trapassati in una torbida identità, l’universale può sostituire il particolare e viceversa.(16)

Secondo Adorno, in ogni opera d’arte lo stile costituisce la possibilità di "fondare la verità mediante l’inserimento dell’immagine nelle forme socialmente tramandate"(17). In questo senso ogni espressione, ogni realtà immediata, si trova inevitabilmente inserita, contestualizzandosi in uno stile, in un processo di assolutizzazione. Nella risoluzione di questo processo, inevitabile nella misura in cui solo "nel confronto con la tradizione che si deposita nello stile l’arte può trovare espressione per la sofferenza"(18), si determina l’ideologia dell’opera. Se questa aderisce acriticamente al modello prestabilito di armonia, rinuncia a trascendere la realtà immediata per diventare lo specchio della falsa identità. Se invece decide di esporsi al rischio del proprio fallimento, l’arte è in grado di svincolarsi dalla realtà immediata (riflesso del sistema di dominio) per esprimere la discrepanza tra "forma e contenuto, interno ed esterno individuo e società"(19).

In questo senso va compreso il sottotitolo "Quando l’illuminismo diventa mistificazione di massa" al capitolo della Dialektik dedicato all’industria culturale: lo stile dell’arte amministrata è costruito in modo tale da alimentare nei governati l’illusione che non ci sono alternative al sistema e che, analogamente alla dottrina classica del liberalismo, la realtà dell’individuale si misura soltanto in funzione della sua integrazione nel sistema: "ciò che oppone resistenza, può sopravvivere solo nella misura in cui si inserisce"(20). La funzione ideologica dell’industria culturale consiste nel occultare la vera natura dell’individuo nella realtà del mondo regolato dal principio della merce, il suo essere perfettamente sostituibile:

La perfetta somiglianza è l’assoluta differenza. L’identità della specie esclude quella dei casi. Si potrebbe quasi dire che l’industria culturale ha perfidamente realizzato l’uomo come essere generico. Ciascuno si riduce a ciò per cui può sostituire un altro; un essere fungibile della specie.(21)

Ancora più esplicitamente, qualche pagina più avanti, viene introdotto il concetto di ‘pseudoindividualità’:

L’individuale si riduce alla capacità dell’universale di segnare l’accidentale con un marchio così indelebile da renderlo senz’altro identificabile come quello. [...] La particolarità del sé è un prodotto sociale brevettato che viene falsamente spacciato come naturale. [...] La pseudoindividualità è la premessa indispensabile del controllo e della neutralizzazione del tragico: è solo perché gli individui non sono affatto tali, ma semplici punti di incrocio o di intersezione delle tendenze dell’universale, che è possibile assorbirli senza residui nell’universalità.(22)

Nell’era del monopolio dell’industria sulla cultura, la pseudoindividualità è inoltre funzionale al carattere fittizio della legge della domanda e dell’offerta. Come si legge nell’altro scritto importante sull’industria culturale, Il carattere di feticcio in musica:

L’uomo sacrifica l’individualità, inserendosi nella regolarità di ciò che ha successo, e fa quel che tutti fanno per il fatto fondamentale che dovunque e in tutta la produzione standardizzata dei beni di consumo si offre all’individuo sempre la stessa cosa. Tuttavia la necessità che ha il mercato di occultare questa uguaglianza conduce alla manipolazione del gusto e a quella apparenza di individualità della cultura ufficiale, che di necessità cresce proporzionalmente con la liquidazione dell’individuo.(23)

La pseudoindividualità dei prodotti dell’industria culturale, il fatto che sono concepiti in maniera ‘seriale’, ma venduti come rispondenti alle diverse esigenze di chi ne fruisce, mette in luce la falsità dello stesso principio di individualità della coscienza borghese: l’individuo sul quale questa ha sempre sostenuto di essere fondata avrebbe in realtà, secondo Adorno, un carattere puramente fittizio: il principio dell’autoconservazione della borghesia come classe ha impedito l’evoluzione verso una reale individualità; la "libertà apparente" del singolo è sempre stata solo un prodotto della società concorrenziale e funzionale al suo mantenimento.

Uno degli aspetti più interessanti delle analisi adorniane sull’industria culturale consiste nella capacità del filosofo di inserire all’interno delle sue considerazioni (e non solo come esempi, ma spesso anche come vere e proprie fonti della riflessione) un gran numero di riferimenti a singoli aspetti dell’arte di massa, ricavati in gran parte dal periodo dell’esilio negli Stati Uniti (24). Nuovi modelli di automobili, numerosi attori e attrici, films e case di produzione cinematografiche, programmi radiofonici, ‘ballabili’ e canzonette costituiscono la testimonianza effettiva dell’interesse di Adorno nei confronti della singolarità concreta. Se, come si è mostrato nel primo capitolo, il pensiero ispirato alla dialettica negativa è sensibile al carattere eversivo del concreto verso il sistema chiuso, il filosofo attento alla realtà dovrà però anche essere in grado di ‘pensare il sistema nei particolari’, ovvero essere pronto a riconoscere quando un individuale si presenta come un mero riflesso dell’universale, vittima della "preordinata integrazione"(25): è il caso dell’organizzazione dell’industria culturale, che in quanto ‘totalità’, attraverso la semplice ripetizione (26) e la falsa conciliazione rende i suoi singoli prodotti un mero riflesso del carattere di sistema. Allo stesso tempo l’attenzione per i singoli aspetti del mondo della cultura di massa costituisce per il critico un ottimo campo di prova della validità delle osservazioni adorniane (27). Caso emblematico è, in quest’ottica, il rapporto di Adorno con il jazz, genere musicale al quale il pensatore francofortese dedicò alcuni saggi e articoli nell’arco di vent’anni, dal 1933 al 1953; in generale il jazz costituisce inoltre insieme al cinema l’obiettivo principale degli attacchi all’industria culturale in testi fondamentali come la sezione sopracitata di Dialettica dell’illuminismo e del Carattere di feticcio in musica (28). Il giudizio di Adorno su questa musica è molto netto: caratteristiche costanti del jazz sarebbero le false promesse di un messaggio pseudoliberatorio (smentite dagli stereotipi su cui si basa l’improvvisazione degli strumentisti (29)), il suo sfruttamento commerciale e, dal punto di vista psicologico, forti elementi di contatto con il fascismo e l’antisemitismo. L’appassionato di jazz è presentato spesso come vero e proprio prototipo dell’individuo massificato, interamente (ma inconsapevolmente) soggiogato ai voleri dell’industria culturale. Gli storici del jazz e i critici secializzati sono sempre stati concordi nel ritenere questa posizione come frutto di una grave incomprensione di fondo, se non addirittura come esempio del carattere idiosincratico e pregiudiziale del pensiero musicale adorniano. Secondo Martin Jay, Adorno fu accusato spesso, a causa della sua avversione alla cultura di massa, di essere "uno snob elitario, un mandarino arrogante e persino (per la sua profonda avversione per il jazz) un razzista dissimulato"(30). Jay riferisce ancora che Adorno "nutrì soltanto disprezzo per le forme indigene di arte popolare che incontrò nel corso dell’esilio", e che egli, a riprova di quanto vi fosse di preconcetto nel suo atteggiamento, non nascondeva la propria "reazione viscerale alla sola parola ‘jazz’"(31). In realtà, sebbene la tendenza verso un atteggiamento come quello appena descritto sia innegabile, una migliore comprensione del giudizio di Adorno dovrebbe tenere conto non soltanto del diverso grado di comprensione storica di questo genere musicale nel corso del secolo, ma anche della effettiva possibilità storica della ricezione di questo fenomeno. Un simile sforzo di contestualizzazione è stato realizzato da J. Bradford Robinson nel saggio Gli scritti sul jazz di Adorno (32), che intende illuminare due fondamentali malintesi della critica al pensiero adorniano sul jazz: "il primo che [il termine ‘jazz’ usato da Adorno] si riferisca a quello che noi oggi chiamiamo jazz e il secondo che la musica di riferimento fosse americana"(33). Secondo Robinson, sebbene gli scritti in questione coprano il periodo dal 1933 al 1953, "ciononostante essi sono strettamente legati alla musica degli anni Venti, e devono essere interpretati in quel contesto"(34).

La Germania del primo dopoguerra si trovava infatti isolata dagli altri Paesi europei sia economicamente sia culturalmente: per quanto dopo la guerra anche in Germania come nel resto d’Europa si verificasse, presso la popolazione urbana di ceto medio-alto, "una vera e propria follia per il jazz"(35), gli appassionati e i musicisti tedeschi furono di fatto esclusi dal contatto con questa musica nella sua versione autentica. Il blocco economico impedì l’importazione dei dischi e la crisi della valuta tedesca scoraggiò i pochi musicisti afroamericani che suonavano nel resto del continente. In questa mancanza di riferimenti reali, durante tutto il periodo weimariano si impose il cosiddetto "jazz tedesco", una sorta di innesto di sincopi derivate dal ragtime sulla fusione di generi commerciali preesistenti come la musica da banda militare, la Salonmusik (musica leggera per piccoli ensemble) e gli effetti rumoristici e clowistici della Radaukapelle. Quando la situazione di stallo cominciò ad incrinarsi, e l’interesse americano per le incisioni tedesche di musica colta diede il via ad un flusso di scambio con incisioni di musica ballabile, furono comunque esclusi a priori dall’importazione i "race records contenenti gran parte del jazz afro-americano"(36). In questo contesto acquistò sempre più importanza, come imitazione di alcuni modelli statunitensi, la figura dell’arrangiatore, che l’industria culturale promuoveva al rango di compositore elevando al contempo il jazz commerciale a musica concertistica di ispirazione sinfonica. Impostando in maniera storica il problema, si comprende meglio l’ostilità di Adorno verso questo tipo di arrangiamento:

la prassi dell’arrangiamento deriva dalla musica da salotto: è la prassi del passatempo elevato, che prende in prestito da beni culturali la pretesa ad un certo livello, mutando però le funzioni di quei beni in materiale di passatempo sul tipo delle canzonette. Questo passatempo, destinato una volta a far da sfondo sonoro nei pubblici locali, si estende oggi a tutta la vita musicale, che in fondo non è presa più sul serio da nessuno e si ritira sempre più nel fondo, ad onta di tutte le chiacchere che si fanno sulla cultura.(37)

Secondo Robinson, nel contesto della generale ignoranza del jazz afroamericano, le analisi adorniane costituiscono comunque una valida critica degli elementi stilistici e sociali di quel particolare genere di musica ballabile sviluppatasi durante la Repubblica di Weimar. Il problema è però che anche se Adorno ebbe in effetti la possibilità di un incontro con il jazz americano nel corso del suo lungo esilio negli Stati Uniti, egli non fu disposto a rinnovare le sue nozioni in materia. Adorno preferisce assegnare agli aspetti originali con i quali è entrato in contatto un’importanza secondaria, pur di "far rientrare queste caratteristiche musicali del jazz legittimo nelle categorie da lui già postulate"(38): in questo modo il jazz autentico è catalogato come una sorta di sottoprodotto del jazz commerciale (39), e i prodotti dell’industria culturale sono arbitrariamente assunti come conferma delle sue idee su una musica leggera dai tratti specificamente tedeschi degli anni Venti.

Questo atteggiamento mette in luce un tratto tipico del pernsiero musicale del filosofo francofortese: l’attenzione all’individuale si scontra nella realtà con la radicata tendenza a non fornire riferimenti concreti durante l’analisi (40): "nel caso del jazz, non si può fare riferimento ad alcuna composizione in particolare, dato che Adorno nomina raramente un compositore o un musicista jazz, un titolo o una canzone [...]. Essendo musica massificata, il jazz era per forza anonimo o nella migliore delle ipotesi ‘pseudoindividualizzato’[...]"(41). Nell’ultimo scritto in cui Adorno si occupò di jazz (il secondo capitolo, ‘Musica leggera’, di Introduzione alla sociologia della musica, 1962), troviamo qualche accenno di una possibile revisione, subito smentita:

Nell’ambito della musica leggera il jazz ha certamente i suoi meriti, in quanto in confronto all’idiozia della musica leggera derivata dall’operetta post-Johann Strauss ha messo a punto una capacità tecnica, una presenza di spirito, una concentrazione altrimenti tolte di mezzo dalla musica leggera, e anche una certa capacità di differenziazione ritmica e timbrica. [...] Ma il jazz va criticato nel momento in cui questa moda eterna, organizzata e moltiplicata da individui interessati, crede di potersi porre come moderna, magari come avanguardia.(42)

Secondo Robinson, anche le ultime osservazioni di Adorno sul jazz "riconfermano la sua eterna insistenza sulla supremazia dell’aspetto compositivo su quello dell’esecuzione e dell’improvvisazione"(43). Questo commento trova una conferma immediata nella frequenza con cui negli scritti del filosofo sull’industria culturale compaiono affermazioni come la seguente:

Per quanto riguarda l’armonia e il melodizzare [...] l’acquisizione coloristica specifica della nuova musica da ballo e l’avvicinamento dei diversi timbri al punto che uno può sostituire o mascherarsi in un altro strumento senza inceppi, è familiare alla tecnica orchestrale wagneriana e postwagneriana almeno quanto gli effetti di sordina degli ottoni. E tra gli artifici basati sulla sincope non ce n’è uno che non sia stato già rudimentalmente presentito da Brahms, e più tardi superato da Schönberg e Strawinsky.(44)

O ancora, in Moda senza tempo:

Dal lato ritmico il jazz ha da offrire ben poco: la musica seria da Brahms in poi aveva già espresso tutto ciò che può colpirci nel jazz, ma senza insistervi.(45)

 

2.3 Il primato della composizione

Nel pensiero musicale di Adorno è presente una netta divisione tra ‘industria culturale’ e ‘arte’. La dialettica di soggetto-oggetto, con le implicazioni che la accompagnano, agisce conseguentemente in questi due settori in maniera diversa: nel primo essa porta all’elaborazione del concetto di "feticcio musicale", mentre nel secondo è direttamente implicata nel complesso concetto di "materiale musicale"; in realtà il legame tra queste implicazioni è, come mostrerò nel corso della trattazione, molto più elastico della divisione sopracitata, la cui rigidità risente della marcata ostilità di Adorno nei confronti di innovazioni musicali che non si esauriscono nella composizione, o che addirittura prescindono da essa. La tendenza, poco sopra rilevata, a giudicare alcune soluzioni avanzate del jazz sulla base di quanto ‘presentito’ e ‘superato’ dai grandi compositori si musica sinfonica ben esemplifica questo atteggiamento.

Sin dall’antichità, il pensiero filosofico sulla musica ha sempre ritenuto di dover limitare il proprio ambito a ciò che in quella disciplina poteva essere ricondotto alla speculazione matematica: derivazione degli intervalli consonanti, teoria della composizione, tutto rigorosamente dimostrato more geometrico, nella totale noncuranza (quando non addirittura ignoranza (46)) di quanto concerneva l’aspetto concreto della composizione e dell’esecuzione, e quindi senza alcun riferimento ad alcun ‘particolare’ musicale (47). In relazione a questa tradizione, il pensiero di Adorno si presenta come decisamente volto al concreto. Coerentemente con le implicazioni della sua ‘dialettica negativa’, e grazie ai suoi studi di composizione, le sue analisi musicali sono quasi sempre attente a tutti gli aspetti della vita della musica, da quello della composizione a quello sociale, tanto che i pregiudizi verso il jazz potrebbero essere considerati come un lato idiosincratico senza rilevanza sull’impianto complessivo del suo pensiero. É tuttavia importante rilevare che il primato estetico assegnato alla composizione rispetto ad altri caratteri della musica (che non sono stati inventati dall’industria culturale ma hanno sempre accompagnato lo sviluppo della musica scritta) come esecuzione, improvvisazione, ricezione da parte di un pubblico di non-specialisti, non influenza soltanto il giudizio su quella che egli definisce ‘musica da consumo’ (Gebrauchmusik). Anche nel campo opposto, quello della musica ‘responsabile’, esso riveste un ruolo importante, in particolare in alcune argomentazioni a proposito dello sviluppo dell’avanguardia dalla fase ‘atonale’ a quella ‘dodecafonica’ e delle sue conseguenze per il rapporto con il pubblico.

Questo secondo ramo della dicotomia è legato al concetto di ‘nuovo’ e di ‘moderno’. Alessandro Arbo, nel libro Dialettica della musica (48), sostiene che l’orientamento generale della filosofia della musica di Adorno è condizionato dalla sua valutazione della musica contemporanea: "nella storia della musica di Adorno la tradizione si illumina solo dall’alto, a partire dal presente". Dalla ricostruzione storica presentata da Arbo, si ricava che la particolarità del concetto adorniano di ‘moderno’ in musica sorse in contrapposizione all’uso di associazioni e critici di considerare la musica dell’epoca come un blocco unico in quanto ‘contemporanea’. Per il filosofo il termine ‘contemporary music’, allora molto in voga, "era neutrale, incapace di rendere l’esatto scarto qualitativo suggerito dall’aggettivo tedesco [neu]"(49). Adorno ritiene il concetto di moderno necessario ad introdurre nella musica contemporanea una dicotomia che nel suo più importante libro sull’argomento ha come estremi Schönberg e Strawinsky. La funzione di questa dicotomia è quella di interpretare una situazione in cui "alle leggi del materiale culminanti nell’affrancamento dalla tonalità corrisponde la crisi di un soggetto trascinato nel movimento di due tendenze ‘oggettive’ talmente opposte da risultare contraddittorie"(50). Solo avendo presente questa dicotomia si può comprendere il posto dell’arte, in quanto arte ‘nuova’, nell’oscuramento del mondo. Nella Teoria estetica (51) la nascita della modernità come categoria estetica è collocata intorno alla metà del XIX secolo, in corrispondenza con lo sviluppo del capitalismo verso lo stadio monopolistico. La sua caratteristica è l’irresistibilità:

Ciò che evita nel materiale i cambiamenti comportati dai rinnovamenti significativi, e ciò che ad essi si sottrae, si manifesta subito come svuotato e privo di forza.(52)

Se la critica principale nei confronti dell’arte è la presunta perdita della tradizione, in realtà per il filosofo francofortese una corretta comprensione del fenomeno impone di parlare piuttosto di una revisione all’interno del concetto stesso di ‘tradizione’. Il ‘nuovo’ è definito come il nodo in cui si legano individuo e società: l’individuo è il "veicolo" del nuovo, la cui autorità si basa sul fatto di essere "storicamente inevitabile"(53). Il rapporto del moderno verso la tradizione si caratterizza per ‘astrattezza’: l’arte moderna

non nega, come invece hanno fatto gli stili, i precedenti esercizi d’arte, bensì la tradizione in quanto tale; in tal misura essa ratifica per prima il principio borghese dell’arte.(54)

Marc Jimenez chiarisce il conseguente carattere paradossale (che in realtà è una delle molle del movimento dialettico della musica nuova, e del suo ‘invecchiamento’) di questo concetto: l’astrattezza del modernismo (rimproveratagli dai suoi detrattori) rischia di "favorirne l’inserimento nel mercato dell’arte" (si ricordi dell’importanza della funzione consolatoria nell’industria culturale) e di "metterlo al servizio dell’ideologia dominante"(55).

Il rapporto di Adorno nei confronti dell’avanguardia, e più specificamente della Seconda Scuola di Vienna, lo espone al rischio di un’assolutizzazione di questa esperienza estetica. Tuttavia, solo se Adorno avesse aderito ad un modello di pensiero non dialettico, con tendenze al sistema, sarebbe forse stato possibile collocarlo in una posizione di mezzo tra i filosofi che Luciano Anceschi chiamava "idealizzanti"(56) e coloro i quali coltivano una riflessione estetica di tipo "essenzialista"(57).

Ai primi (gli "idealizzanti") Adorno potrebbe essere avvicinato per il suo rapporto con un determinato settore dell’avanguardia musicale, quello dell’espressionismo atonale (58), il cui stile di composizione raggiunge nell’ottica del filosofo caratteri di unicità, necessità e responsabilità sociale tali da sfiorare appunto l’"idealizzazione".

Con i secondi (gli "essenzialisti") Adorno ha in comune, sempre in relazione alla Scuola di Vienna, la "considerazione di irrilevanza delle poetiche, e la perdita del significato di questa eperienza riflessiva" (59), anche se secondo modalità non univoche. Si consideri ad esempio il rapporto con la parte teorica della produzione schönberghiana. Adorno condivideva le analisi musicali dell’evoluzione della composizione dalle origini fino all’esaurimento delle possibilità del linguaggio armonico tonale, che Schönberg svolse nel suo Harmonienlehre; sia Schönberg che Adorno giustificavano in base ad esse la necessità storica del passaggio alla libera atonalità. Questa condivisione di una poetica si interruppe con l’avvento della dodecafonia: Schönberg considerava questa nuova tecnica una scoperta, l’esplicitazione di leggi già presenti nel suo modo di comporre nel periodo atonale (60), mentre Adorno vedeva questo metodo di composizione come un’"invenzione", cioè qualcosa di totalmente estraneo alla poetica dell’atonalità.(61)

Che da un’unica premessa (le analisi dell’Harmonienlehre) possano originarsi due conclusioni opposte (dodecafonia come libertà per Schönberg e come illibertà per Adorno) allontana la possibilità dell’assunzione di una reale unica poetica in entrambi gli autori. Infatti così facendo si rischia di sminuire sia quanto della poetica musicale di Adorno fosse costituita da quella "zavorra filosofica" (62) che Schönberg e Berg disprezzavano, sia un’adeguata considerazione della componenete mistica dalla riflessione poetica schönberghiana. Dal punto di vista (mistico) di Schönberg il passaggio dalla atonalità alla dodecafonia è infatti pienamente giustificato (anzi è reso necessario) dalla scoperta di questa legge fondamentale: "lo spazio a due o più dimensioni nel quale sono presentate le idee musicali è un’ unità" (63).

Anche dopo aver così esplicitato i fatti che potrebbero definire l’estetica di Adorno come una via di mezzo tra "idealizzante" e "essenzialista" (per la sua incapacità di comprendere le poetiche), ci si imbatte in una difficoltà insormontabile. Effettivamente Adorno si guarda bene dal chiudere il "sistema"; la sua particolare concezione dialettica lo porta lontano da una visione definitivamente statica della musica, come dimostrano le valutazioni sull’ultima fase dello sviluppo di Schönberg (64).

Adorno dedicò scritti di grande rilevanza al ruolo dell’arte nella società industriale. Per quanto riguarda la musica, la sua premessa fondamentale è "fondata sulla sua teoria del processo di industrializzazione di ogni aspetto dell’attività sociale che caratterizza la borghesia capitalistica sin dal suo sorgere: questa teoria è legata al concetto dell’Aufklärung che per Adorno definisce la tendenza verso la progressiva razionalizzazione della vita che illumina il cammino della società moderna, nella sua vertiginosa corsa al progresso, ma che, per potersi realizzare è costretta a negare sempre più l’uomo come soggettività, come individualità autonoma, sacrificandolo all’oggettività collettiva"(65). Queste premesse portano Adorno ad affermare nel Carattere di feticcio in musica che

il concetto stesso di gusto è superato. [...] L’esistenza del soggetto stesso, che potrebbe conservare questo gusto, è divenata problematica quanto, al polo opposto, il diritto alla libertà di una scelta che non gli è più empiricamente possibile.(66)

Nella società contemporanea, in cui, secondo Adorno, la totalità della cultura è all’insegna della massificazione, il potere totalitario ha tutto l’interesse a indebolire l’individualità dei governati.

Nell’età dell’industria del conscio e dell’inconscio anche la mentalità musicale e il gusto degli ascoltatori sono un aspetto dei rapporti di produzione. Lo sono in una misura la cui valutazione dovrebbe rappresentare uno dei compiti della sociologia della musica.(67)

Gli unici musicisti che resistono all’omologazione sono i compositori dell’avanguardia. In particolare, come si è già detto, Adorno riteneva che gli espressionisti che si muovevano in ambito atonale avessero la capacità di esprimere l’angoscia (Angst) che la situazione di totale isolamento provoca nell’individuo.

Nella prima parte del saggio sul Carattere di feticcio in musica viene presa in considerazione una critica (da Adorno definita "oscurantista") alla situazione musicale delle masse: la musica commerciale mirerebbe alla mera stimolazione dei sensi conducendo l’ascoltatore alla superficialità e al "culto dell’individuo". La risposta di Adorno a questa critica è molto interessante:

la preponderanza dell’individuo sulla costrizione collettiva rivela il momento della libertà soggettiva, da cui la musica sarà compenetrata in fasi posteriori, mentre la superficialità altro non è che quel tanto di profano che la libera dall’oppressione magica.(68)

Di fatto, cioè, quegli elementi che vengono criminalizzati nella musica "per la radio" (in questo saggio Adorno si riferisce espressamente alla situazione negli Stati Uniti durante gli anni Trenta) avevano già fatto il loro ingresso nella musica colta da Haydn in poi. L’unica differenza è che i compositori del periodo classico seppero ottenere una sintesi musicale in grado di evitare il frantumarsi della liberazione soggettiva in momenti "gustosi in senso culinario".

Questa capacità riflette l’immagine di integrazione del musicista nella nascente società borghese e rende possibile la coincidenza tra "l’utopia dell’emancipazione e il piacere del couplet musicale"(69). Ma già con Beethoven questa situazione rivela un profondo mutamento: "da lui ha inizio il processo di interiorizzazione del linguaggio musicale [...]. La stessa forma musicale è scossa alle sue basi [...]. Melodia e armonia si compenetrano sempre più, entrambe soggette ad un unico processo di saturazione; a minare il campo tonale, sia in senso melodico sia in senso armonico, il cromatismo [...] dilaga con la sua irresistibile forza espressiva [...]" (70). Sin dall’evidenziarsi di questa crisi non è più possibile prescindere dal parlare di una musica "colta" e di una musica "leggera".

Date queste premesse, gli impulsi di soggettività che nella musica leggera si emancipano dalla legge formale hanno perso il loro potenziale di evasione dalle convenzioni e di "antichi oppositori dell’alienazione reificata" (71), perché il parametro di riferimento di questa musica è il successo, non più la funzione di verità dell’arte (intesa come "critica nei confronti della totalità incrinata della società" ) (72).

Il piacere dell’attimo e della facciata variopinta diventano un pretesto per sgravare l’ascoltatore dal pensiero del tutto [...], e l’ascoltatore viene mutato in compratore convinto sulla linea della minima opposizione. (73)

Secondo le analisi di Adorno la concezione della musica come semplice godimento estetico (concezione indotta dall’industria culturale) è ormai tanto estesa da investire anche la musica colta del periodo tonale arrivando così a nascondere la voragine che separava questa dalla musica leggera. Entrambe le sfere della musica sono regolate dalle leggi del consumo e vengono recepite solo in quanto merce. A questo punto, prima ancora che venga introdotto il concetto di "feticismo musicale", per proseguire nell’intento di delineare la genesi della musica d’avanguardia nel suo rapporto col pubblico, è utile andare alle pagine introduttive di Filosofia della musica moderna. La nascita della musica radicale è spiegata da Adorno per mezzo di un’analogia:

Il distogliersi della pittura moderna dall’oggetto, che denota nel campo figurativo la stessa frattura rappresentata dall’atonalità nel campo musicale, è stato determinato da una posizione di difesa contro la merce artistica meccanizzata, innanzitutto contro la fotografia. Non altrimenti la musica radicale reagì in origine contro la depravazione commerciale dell’idioma tradizionale: ostacolò cioè l’espansione dell’industria culturale nel suo dominio. (74)

Questa reazione si manifestò nell’abbandono totale del sistema armonico tonale e nella conseguente "emancipazione della dissonanza".

Nella tradizione tonale la triade maggiore aveva una valenza, anche teorica, fondamentale, che si basava su concetti risalenti addirittura all’antichità greca (75). Sin dai tempi di Pitagora, infatti, i teorici della musica cercarono di dimostrare la superiorità ontologica degli intervalli di ottava, quinta giusta e terza maggiore basandosi sulla semplicità dei rapporti matematici che li definivano. Nel Cinquecento, con Vincenzo Galilei e Girolamo Fracastoro, quest’indagine cercò conferma nello studio del fenomeno fisico della consonanza (le vibrazioni delle corde, i rapporti dei volumi delle canne degli organi...). Rameau, epigono settecentesco di questa grande tradizione di pensatori, si convinse di aver trovato una soluzione definitiva al problema del carattere "naturale" della consonanza grazie ai contemporanei studi di acustica, in particolare per il fatto che i primi tre armonici di un suono corrispondono agli intervalli di ottava, quinta e terza maggiore (76). Dal punto di vista compositivo, la concezione della "naturalità"della consonanza prescriveva uno speciale trattamento della dissonanza. Secondo i canoni dell’armonia e del contrappunto tradizionali l’effetto della dissonanza andava attenuato sia mediante procedimenti di preparazione sia con tecniche di risoluzione. E’ chiaro che in un tipo di musica in cui la dissonanza fosse "emancipata", cioè non comparisse soltanto in funzione di una sua soluzione nella consonanza, questi artifici non avevano più senso. In questo modo i compositori radicali privarono il pubblico di qualunque tipo di ‘confortevolezza’. L’effetto non attenuato delle dissonanze e la mancanza di risoluzione delle tensioni prodotte da una musica che ormai non gravitava più attorno ad alcun centro tonale non poterono che guastare quello che Adorno chiama "l’appetito del consumatore", il "guadagno in termini di piacere che egli vuole ricavare", provocando il definitivo distacco del pubblico dalla musica d’arte.

Il motivo del rifiuto della nuova musica da parte del pubblico non si trova, per Adorno, nella difficoltà che questa presenta alla comprensione dell’ascoltatore medio. Infatti, accettare questa idea significherebbe presupporre la piena capacità di comprensione da parte del pubblico dei capolavori del passato, dato che questi ultimi continuano ad attirare gli spettatori e a riempire le sale da concerto. E se questo fosse vero, si avrebbero due possibili conseguenze: o il pubblico è così preparato da riuscire a cogliere la struttura di un pezzo ‘classico’, e quindi da poter valutare con cognizione di causa la difficoltà di un pezzo ‘moderno’, oppure la musica della tradizione tonale è effettivamente più semplice di quella atonale.

Ebbene, per Adorno nessuna di queste possibilità trova riscontro nella realtà. Infatti la sua conoscenza storica e tecnica delle composizioni tradizionali lo porta ad escludere che queste siano intrinsecamente facili: semmai vengono così percepite dall’ascoltatore medio (che Adorno non esita a definire "ammaestrato dalla radio"(77)) in virtù di alcuni accorgimenti interpretativi usati dagli esecutori con l’intento di ‘alleggerire’ la musica, ammorbidendo la presentazione dei contrasti più problematici, mettendo in risalto solo gli effetti coloristici più immediati, le melodie più facili a ricordarsi e i crescendo più "gustosi" (78).

Questo indirizzarsi di tutta la cultura musicale ‘ufficiale’ verso la superficialità delle opere priva l’ascoltatore medio di una vera ("strutturale") comprensione.

La convinzione che Beethoven sia comprensibile e Schönberg non lo sia è, da un punto di vista oggettivo, un inganno [...]; nella concezione della musica tradizionale [...] la struttura musicale che ne forma il senso resta, per l’ascoltatore ammaestrato dalla radio, non meno nascosta in una sonata di Beethoven che in un quartetto di Schönberg.(79)

Se dunque l’omologazione del gusto rende quella della ’difficoltà’ una risposta troppo debole alla domanda sul rifiuto del pubblico verso la musica radicale, l’analisi di Adorno parte da una premessa più profonda: l’appartenenza di entrambi i fattori (compositori e pubblico) allo stesso sistema antropologico e di conseguenza il loro essere condizionati e vincolati dai medesimi vincoli e presupposti sociali.

Quest’idea è strettamente legata ad un’altra premessa fondamentale del pensiero di Adorno, e cioè che "nella musica è presente la società nel suo insieme e non soltanto la coscienza di un gruppo specifico al suo interno" (80). In altre parole, ciò di cui la musica (specialmente quella radicale) ‘parla’ con il suo linguaggio non concettuale (81) non è soltanto la crisi della soggettività nell’artista, ma in tutta l’organizzazione sociale, e questo si riflette sulla fruizione musicale. Per Adorno gli ascoltatori non tollerano le dissonanze non perchè non le capiscono, ma, al contrario, proprio perchè le capiscono.

Le dissonanze che li spaventano parlano della loro condizione personale, e unicamente per questo riescono loro insopportabili.(82)

L’arte oggi, almeno quella realmente sostanziale, riflette senza concessioni e porta alla superficie tutto ciò che si vorrebbe dimenticare.(83)

Nelle opere di Schönberg, secondo Adorno, la funzione dell’espressione musicale non è più quella di riprodurre e simulare sentimenti o passioni, "ma sono piuttosto moti corporei dell’inconscio, chocs, traumi, nella loro realtà non deformata, che vengono registrati nel medium musicale"(84).

Ma se veramente l’ascoltatore medio rifiuta la produzione musicale avanzata perchè questa (non inserendosi nei rassicuranti parametri massificati del ‘godimento’ musicale) lo coinvolge in angoscianti dissonanze, cosa spinge Adorno a sostenere che la musica moderna ha già in sè i germi della sua dissoluzione e che, nelle parole di Enrico Fubini, "l’aggressività della vecchia avanguardia si è trasformata in mansuetudine"(85)?

Nel saggio del 1954 Invecchiamento della musica moderna, contenuto nel volume Dissonanze, il filosofo scrive:

Ma se l’arte accetta inconsciamente l’eliminazione dell’angoscia [...], essa desiste dalla verità, perdendo l’unico diritto all’esistente.(86)

Ora, a ben vedere, tra il modo in cui il pubblico rifiuta la ‘scomodità’ delle composizioni d’avanguardia e l’accusa di "rimozione dell’ angoscia" che Adorno rivolge alla produzione dodecafonica integrale prima in Schönberg e poi soprattutto nelle successive generazioni di musicisti postweberniani, è evidente che esiste una forte discordanza.

Infatti, se rimaniamo alla descrizione dell’ascoltatore medio come privo di reali competenze musicali, incapace di uno sguardo profondo nella struttura musicale e dedito soltanto a quei "violini del cui dolce suono egli si pasce"(87), è chiaro che a questo livello di fruizione il cambiamento di metodo nel comporre dalla libera atonalità alla dodecafonia non sarà minimamente avvertito. Rimarra soltanto il fastidio di fronte alle dissonanze. Nel primo capitolo di Introduzione alla sociologia della musica (88), Adorno elabora una classificazione dei diversi "tipi di comportamento musicale". Questi ‘tipi’ sono intesi come "profili con valore qualitativo, attraverso i quali è possibile intendere qualcosa sull’ascolto musicale inteso come un indice sociologico"(89): essi sono studiati "senza legarvisi troppo rigorosamente e senza pretendere completezza", al fine di "delimitare una zona che va dalla totale adeguatezza d’ascolto - corrispondente alla coscienza sviluppata del musicista avanzato di professione - fino all’incomprensione completa e all’indifferenza totale al materiale"(90). Nella generale lontananza della società della cultura di massa dall’ascolto ‘strutturale’, che Adorno considera ineludibile per un corretto approccio alla musica, il tipo di ascoltatore più coinvolto nella mia analisi sul rapporto tra pubblico ed evoluzione dell’avanguardia è il consumatore di cultura, tipo "propriamente borghese che predomina tra i frequentatori dell’opera e dei concerti":

ascolta molto, in alcuni casi è insaziabile, è ben informato, raccoglie dischi. [...] Il rapporto spontaneo e diretto con la musica, la capacità della partecipazione strutturale sono sostitutiti con l’accumulazione più vasta possibile di nozioni sulla musica, specie sui fatti biografici e sulla bravura degli interpreti [...]. Tale tipo di ascoltatore dispone non di rado di ampie nozioni sulla letteratura musicale, che però gli permette solo di canticchiare i temi di opere celebri e sempre eseguite, o di identificare immediatamente quello che ascolta. Lo svolgersi di una composizione gli è indifferente, la struttura dell’ascolto è atomizzata: questo tipo sta in attesa di determinati momenti, di melodie ritenute belle, di istanti gloriosi.(91)

Il divario tra atonalità e dodecafonia esiste solo dal punto di vista del compositore. Tenterò quindi di fare un primo resoconto delle critiche di Adorno al metodo di composizione con dodici note (92), cercando di rilevare la presenza di un paradigma ultimo dell’analisi del fenomeno musicale nel suo insieme in Adorno, cioè del criterio in base al quale il filosofo francofortese giudica la verità della musica, il suo "diritto all’ esistenza" (93), prima ancora di entrare nel merito di come la dialettica di soggetto e oggetti interagisce con il campo musicale.

Le frasi di Schönberg qui di seguito riportate, tratte dal saggio Composizione con dodici note (94), forniscono un quadro semplificato ma chiaro del nuovo metodo compositivo:

"Questo metodo consiste innanzitutto nell’uso costante ed esclusivo di una serie di dodici note differenti. Ciò significa, naturalmente, che nessuna nota viene ripetuta nella serie, e che questa usa tutte le dodici note della scala cromatica, disponendole però in ordine diverso. Essa [...] non va considerata una scala, anche se è stata inventata per sostituire certi vantaggi unificatori e formativi della scala e della tonalità [...]. Dalla serie, però, viene derivato qualcosa di diverso e di più importante, con una regolarità e una logica senz’altro paragonabili alla logica e alla regolarità della vecchia armonia: il raggruppamento di alcune note in armonie, e la loro successione, sono regolati dall’ordine delle note della serie. La serie fondamentale funziona come se fosse un motivo. Questo spiega perchè deve essere inventata ex novo per ogni pezzo [...]. Dalla serie fondamentale derivano automaticamente tre altre serie: 1) l’inversione, 2) il retrogrado, 3) l’inversione retrograda.[...] Bisogna attenersi alla serie fondamentale, ma si può comporre con la stessa libertà di una volta".

Con quest’ultima affermazione Schönberg intendeva dire che la serie aveva la stessa potenzialità organizzatrice del sistema armonico tonale.

Ma proprio per questo Adorno ritiene che la musica dodecafonica sia un fallimento: essa si illude di avere riguadagnato insieme facoltà organizzatrice e libertà nel comporre.

La parte centrale del saggio su Schönberg e il progresso è dedicata a una serrata analisi della dodecafonia e ad un paragone con la musica tradizionale, proprio per verificare se effettivamente il nuovo metodo possiede quei requisiti di cogenza nell’organizzazione della forma che aveva il sistema tonale. Ovviamente qui il metodo di paragone è il sistema armonico delle origini del classicismo, e non quello ‘saturato’ del tardo romanticismo e del cromatismo wagneriano.

Il perno di queste analisi è che i parametri a cui si fa riferimento in musica (melodia, ritmo, tema, variazione, sviluppo, armonia e contrappunto) sono nati e si sono sviluppati in simbiosi con il sistema tonale, e quindi non hanno più senso, o vengono comunque snaturati, in un metodo di composizione che proclama, in segno di rottura col passato, la totale equivalenza di tutte le dodici note dell’ottava: "la compattezza della melodia serra la melodia stessa troppo inesorabilmente" (95).

Il legame del tema con la variazione non ha più nessuna parvenza di derivazione melodica. Il compito unificatore che una volta spettava al tema è assegnato a disegni ritmici che "tornano incessantemente" (96).

L’armonia (cioè la dimensione verticale dei suoni) è legata in modo puramente arbitrario non alla scelta del compositore ma alle esigenze poste dal trattamento della serie. E’ inoltre evidente che, essendo perduto il rapporto di ottava, anche tutte le sfumature melodiche dei diversi intervalli che erano possibili nel sistema tonale sono ora perdute.

Una parte delle osservazioni di Adorno sull’incapacità della musica non tonale di offrire le stesse possibilità e le stesse sfumature di quella tradizionale possono essere riferite indistintamente sia alla libera atonalità che alla dodecafonia, e questo ci fa capire che in realtà non è in base al paragone con il passato remoto della musica che in Schönberg e il progresso si cerca di provare il ‘fallimento’ della dodecafonia. Adorno sta soltanto spiegando perchè i nuovi compositori sbagliano quando pretendono di fondare la necessità del metodo integrale sul paragone col sistema tonale.

Il passaggio dalla libera atonalità alla costrizione dodecafonica è solo una parte (anche se centrale) del saggio Schönberg e il progresso, ma è sufficiente per individuare alcuni tratti fondamentali dell’atteggiamento di Adorno verso il sorgere di nuove poetiche musicali e verso l’oggetto musicale.

La visione di Adorno si coglie nei frequenti riferimenti alla verità della musica, nei quali la verità stessa non consiste nella "mera corrispondenza tra una proposizione ed un referente esterno nel mondo presente, ma piuttosto in un concetto con risonanze anche normative" (97). Il filosofo francofortese non cerca una integrazione imparziale, una comprensione in senso anceschiano, vuole piuttosto isolare un singolo aspetto del multiforme fenomeno della musica: la composizione.

In questo secolo, lo studio della musica si è arricchito di ricerche in campi nuovi: discipline come l’acustica, la semiologia della musica, la musicologia comparata prima, l’etnomusicologia e l’antropologia della musica poi, avevano già grande diffusione sia in Germania sia negli Stati Uniti quando Adorno era ancora in vita. Nonostante ciò il suo interesse rimase rivolto quasi esclusivamente verso il rapporto del soggetto con il materiale musicale. Prendendo a prestito un’espressione di Roberto Leydi potremmo parlare di "ideologia della partitura"(98).

Solo prendendo alla lettera la dichiarazione dell’autore, il quale nella Prefazione (p. 3) afferma che la composizione è "la sola che veramente decide dello stadio della musica", si può capire perchè per Adorno "il pensiero contrappuntistico è superiore a quello armonico omofonico"(99).

Nella trattazione di Adorno il campo della musica si divide, come si è già accennato, in due (100):

1) L’arte seria, responsabile, che si è sempre cimentata con i problemi compositivi che ogni situazione storica pone al materiale musicale. Nella definizione geografica e temporale di questo settore, nonchè nel paradigma della superiorità dell’aspetto compositivo, Adorno non si scosta di un centimetro dal cerchio dei musicologi della cultura ‘ufficiale’, anzi è ancora più selettivo. Infatti esclude dall’ambito della Musica Moderna Debussy e gli Impressionisti, probabilmente perchè le loro importantissime innovazioni timbriche e coloristiche non si potevano leggere sulla partitura, bisognava andare in una sala da concerto.

2) L’arte falsa, quella che l’industria culturale crea appositamente per addomesticare le masse. Anche qui bisogna stare molto attenti, perchè nel disprezzare la musica di consumo l’attento studioso francofortese metteva nello stesso calderone, come si è visto: i ‘ballabili’, la tedesca Jugendmusik (101), Elgar, Sibelius e Gerschwin, il jazz commerciale (altri tipi di jazz per Adorno non esistevano), Toscanini e i suoi emuli, ecc.

Adorno maturò le proprie opinioni su quella che considerava la musica degli "altri" dall’alto della sua posizione di "mandarino" (102), e non cambiò idea per tutta la vita. Stando ai suoi libri, sembrerebbe che le tradizioni musicali orali genuinamente popolari non siano mai esistite. Adorno muoveva da presupposti fortemente eurocentrici e coltocentrici, ed è probabile che questo offuscasse la sua visione del resto del mondo.

2.4 Carattere di feticcio in musica

Questa analisi del contrasto tra il livello dell’ascolto adeguato al livello di una determinata composizione e il livello medio dell’ascoltatore nella società a capitalismo avanzato ha portato dunque ad illuminare una dicotomia di fondo nell’estetica musicale adorniana. Antonio Serravezza, che nell’importante lavoro Musica, filosofia e società in Th. W. Adorno studia i presupposti e le implicazioni del particolare connubio che si realizza nel pensiero del francofortese tra musicologia e sociologia, giudica questa dicotomicità come il nodo centrale dell’estetica adorniana, la cui tesi fondamentale sarebbe appunto quella del doppio carattere della musica: "l’opera musicale può presentarsi sia come compiuta oggettività, come ‘cosa’ compatta nella sua immanenza, sia come elemento culturale fornito di una destinazione che lo pone in rapporto a situazioni esterne, extramusicali" (103). Come nota Serravezza, "nel quadro della sociologia dell’arte la distinzione tra i due modelli di ricerca proposti da Adorno non costituisce certo una novità" (104). Ma la dicotomia realizzata da Adorno si distingue per radicalità: egli si distingue non tanto "per aver indicato un duplice orientamento, ma nell’aver considerato la ‘sociologia dell’oggetto musicale’ e quella della ‘funzione’ come metodi contrapposti, non complementari" (105). Nel primo caso il significato della musica è assicurato dal livello compositivo, è immanente all’articolazione della struttura e prescinde da qualunque atto fruitivo; nel secondo caso il significato è prerogativa del rapporto con i fruitori, i commissionarii, ossia, nella società monopolista, dell’industria culturale. Quest’ultima priva la musica del suo essere ‘in sè’ e le attribuisce, a seconda della situazione esterna in cui viene inserita, un carattere funzionale: evasione consolatoria, consumo culturale, passatempo, ecc. La sociologia della funzione musicale si propone di smascherare il velo di ovvietà con cui l’industria culturale riveste la musica che essa stessa ha creato o ‘ricreato’ in versione ‘funzionale’.

Sia che si tratti della musica ‘autentica’, sia di quella funzionale, rimane valido il presupposto ‘dialettico-negativo’: il ruolo critico,‘eversivo’ del particolare rispetto all’universale si manifesta nel primo caso nella parabola che il soggetto compie nel contrasto con l’universale sedimentato nella tradizione del materiale musicale, mentre nel secondo caso l’orientamento verso i fenomeni concreti della vita musicale, "così come si presentano nella più scoperta esteriorità" (106), consente di indagarne le implicazioni ideologiche.

Pur con i limiti che il giudizio di Adorno rivela proprio nello specifico, come si è visto sopra a proposito del jazz, "un programma del genere deve accettare di muoversi su un piano fattuale, adeguandovisi almeno come punto di partenza" (107).

Infatti, come fa notare Serravezza, i dati di fatto assunti da Adorno nella ricerca non costituiscono tanto l’orizzonte primo e ultimo del discorso, come sarebbe (o dovrebbe essere) in una sociologia di ispirazione empiristica, quanto piuttosto punti di partenza portatori di un’immediatezza falsa e illusoria. In quanto prodotti ideologici di una società che "nello stesso tempo produce l’isolamento e crea, attraverso la musica di consumo, l’illusione ideologica che l’isolamento possa venire spezzato"(108), lo strumento concettuale adeguato alla loro comprensione dovrà richiamare l’analisi critica della società: in Adorno questo strumento è un’estensione del concetto marxiano di feticismo della merce:

Marx ha determinato il carattere di feticcio della merce come venerazione del prodotto uscito dalla mano dell’uomo, ugualmente alienato in quanto valore di scambio sia per i produttori sia per i consumatori, gli ‘uomini’(109).

Lo scopo di Adorno è tradurre in senso musicologico quella che originariamente era un’analisi economica volta a determinare la natura del denaro nell’era della merce e del capitale.

Il rapporto con la merce è feticistico in quanto essa è posta come indipendente rispetto agli uomini che l’hanno creata: i caratteri sociali del lavoro sono occultati e trasformati in proprietà oggettive intrinseche dei prodotti. Il valore di scambio altera il rapporto tra produttore e prodotto cancellando da quest’ultimo il carattere di mediatezza del mercato e attribuendogli un’immediatezza funzionale al mercato stesso. Esso somiglia ad "uno specchio che rimanda capovolte agli uomini le immagini dei loro rapporti sociali"(110). Nella società contemporanea la forma di merce domina anche nella cultura, ambito nel quale assume forme particolari:

nel campo dei beni culturali, il valore di scambio si impone in maniera del tutto particolare, poichè questo campo appare, nel mondo del valore mercantile, escluso dall’onnipotenza del valore di scambio, in quanto sfera di comunicazione immediata con i beni culturali: ed è proprio questa apparenza a cui i beni culturali devono il loro valore di scambio. Ma contemporaneamente essi ricadono interamente nel mondo della merce, vengono approntati per il mercato e si orientano secondo le sue esigenze: tanto è fitta l’apparenza della immediatezza quanto inesorabile la costrizione del valore di scambio.(111)

Parlando di valore d’uso e valore di scambio in campo musicale Adorno intende riferirsi rispettivamente a come l’ascolto o la fruizione in generale di un’opera musicale soddisfi una determinata domanda estetica, e al valore economico, ‘astratto’ rispetto al primo, che la musica assume una volta entrata, come merce tra le merci, nella logica di mercato. La particolarità della musica in quanto merce consiste nel fatto che nell’opinione diffusa il valore della musica si giudica in base alla sua (supposta) lontananza dalla sfera dell’economia. Se la concezione feticistica della musica consiste nell’occultamento, proprio nell’era dell’industria culturale e della cultura di massa, del suo fondamento economico, "demistificare il carattere di feticcio significa [...] riconoscere il valore di scambio dietro la parvenza illusoria del ‘puro’ valore d’uso"(112). Secondo Adorno la fruizione della musica subisce un mutamento: essa non si rivolge al valore d’uso ma al valore di scambio, il quale viene investito di una carica affettiva in realtà astratta, perché poggiante sulla mancanza di un effettivo rapporto del soggetto verso l’oggetto. Da ciò si genera una sorta di "soddisfazione psicologica di ricambio":

L’investimento affettivo del valore di scambio non è una transustanziazione mistica, e corrisponde all’atteggiamento del prigioniero che ama la sua cella perchè non gli viene concesso altro.(113)

Il feticismo non coinvolge solo il campo della cosiddetta musica leggera ma anche quello della musica colta, in un processo di modificazione che riguarda più livelli: secondo Adorno, la continua esecuzione standardizzata di un numero limitato di opere sottopone queste ultime ad una sorta di decadimento strutturale. Esse sono presentate al soggetto come un’agglomerato di idee non relazionate tra di loro; l’interesse verso la strutturazione, la dialettica della singola idea con l’organizzazione globale della composizione vengono esplicitamente elusi per mezzo di accorgimenti tecnici il cui scopo è quello di creare nell’ascoltatore sprovveduto l’illusione di potersi impadronire senza sforzo di alcune delle ‘idee’ del compositore. L’inganno consiste nel far credere al pubblico che il significato della musica siano le emozioni che questa trasmetterebbe. In realtà, secondo Adorno questi effetti sono ottenuti mediante ‘trucchi’ dell’arrangiamento o della direzione orchestrale come l’enfatizzazione di determinati passaggi con crescendo dinamici, alterazione della strumentazione originale della partitura in funzione di un colorismo strumentale ‘ghiotto’ e fine a se stesso, isolamento di un singolo tempo sinfonico dal resto della sinfonia, e altri artifici intesi a "render assimilabili le sonorità solenni e distanziate,

che presentano sempre caratteri di massa e di non-privatezza: il commerciante stanco può batter la mano sulla spalla ai classici "arrangiati" e palpeggiare i parti della loro musa.(114)

Il risultato è una musica ‘romanticizzata’, in cui la pesante ed artificiosa sottolineatura degli aspetti effettistico-sentimentali incoraggia un atteggiamento emotivo e psicologistico, dunque prevalentemente passivo, da parte del fruitore: ciò che Adorno descrive con il concetto di ‘regresso nell’ascolto’(115). Questo tipo di ascolto è ‘regressivo’ e ‘atomistico’ rispetto alla possibilità di cogliere nella musica anche il lato conoscitivo:

l’attuale tipo di ascolto è quello di individui regrediti, inchiodati ad uno stadio di sviluppo infantile.(116)

C’è chi, riferendosi all’ingresso nel mondo della musica di nuovi strati sociali una volta ad essa estranei, sostiene che i soggetti sono in uno stadio infantile: ma essi non sono infantili, bensì infantilistici. La loro primitività non è quella di un individuo che non si è sviluppato, ma quella dell’individuo respinto e bloccato coercitivamente ad uno stadio anteriore.(117)

L’estrema standardizzazione dei prodotti, la riproposizione appena mascherata del sempre uguale, rendono gli ascoltatori "incapaci di un ascolto concentrato, che solo può rendere possibile la percezione e quindi la comprensione dell’intera struttura del pezzo musicale"(118):

gli ascoltatori regrediti si comportano come i bambini, e continuano a desiderare ostinatamente sempre la stessa pappa che gli hanno messo davanti una volta. Per loro si ammannisce una sorta di linguaggio musicale infantile che si differenzia da quello vero per il fatto che il suo vocabolario consta esclusivamente di macerie e deformazioni del linguaggio della musica d’arte.(119)

Il livello tecnico della produzione dell’industria culturale tiene conto di questa condizione: riferendosi ancora una volta all’arrangiamento, Adorno stigmatizza i "curiosi diagrammi per la chitarra, l’ukulele e il banjo, strumenti che, come la fisarmonica nei tanghi, sono, paragonati al pianoforte, infantili"; errori d’armonia come raddoppi di terze e di ottave volti ad ottenere una sonorità più piena, e dunque più ‘gustosa’, ecc. Quanto poi alla realtà del godimento e delle emozioni promesse, rimane ovviamente valido il giudizio di Dialettica dell’illuminismo secondo il quale la produzione industriale del bello implica una "cambiale sul piacere prorogata indefinitamente": "l’industria culturale defrauda ininterrottamente i suoi consumatori di ciò che ininterrottamente promette", e "l’ospite dovrà accontentarsi della lettura del menù"(120).

In conclusione, nella trattazione adorniana del feticismo musicale tornano, a più livelli, la dialettica di soggetto e oggetto e quella di particolare-totalità. Infatti, nell’ascolto atomistico si rinnova il procedimento logico dell’idealismo: soggetto ed oggetto sono relazionati in modo immediato (questo è, come mostrato sopra, il fondamento dell’approccio emotivo incoraggiato dall’industria culturale) ed esterno, in quanto le uniche relazioni attraverso le quali l’oggetto (l’opera d’arte) entra in contatto con il soggetto (il fruitore) sono costruite (mediante, ad esempio, la pratica dell’arrangiamento) in modo tale da escludere a priori qualsiasi effetto non previsto; ‘feticistico’ è proprio questo occultamento della non-naturalità, e quindi del carattere soggettivo di questa costruzione. In sostanza, l’elemento della genuina alterità (ma comunque non assoluta) dell’oggetto è esclusa, e quest’ultimo viene interamente assimilato dal soggetto. Analogamente si ripresenta la dialettica di ‘individuale’ e ‘totale’: i singoli prodotti della cultura di massa ripresentano nella loro costituzione interna la stessa tendenza all’integrazione armonicistica in quello stesso ‘sistema’ dal quale in realtà sono preformati (121). Come per il pensiero illuminista così per l’industria culturale l’obiettivo finale è creare un’uniformità più vasta possibile dal punto di vista quantitativo a discapito della valorizzazione della reale differenziazione individuale, cioè dell’elemento qualitativo. Come nota Serravezza, il collegamento tra atomismo e feticismo è valido anche perchè "per effetto dello smembramento dell’opera e della gerarchizzazione degli elementi musicali irrelati, si costituisce una nuova realtà semantica che prende il posto di quella originale: ancora una volta, nell’ambito dell’ascolto, il soggetto è portato a rapportarsi non con ‘la cosa stessa’, ma con certe apparenze sostitutive"(122).

Un’alternativa a questa situazione consiste dunque in un diverso approccio all’oggetto artistico: in contrapposizione all’ascolto atomistico si delinea la possibilità di un’ascolto ‘strutturale’, che Adorno considera più appropriato sia per la produzione massificata che per quella ‘avanzata’. In relazione alla prima, infatti, questo tipo di ascolto è l’unico a mettere l’ascoltatore in grado di neutralizzarne i presupposti ideologici. Per quanto riguarda la musica della cosiddetta avanguardia, il rapporto soggetto-oggetto si configura in maniera più complessa. L’ascolto strutturale, secondo Adorno, dovrebbe accompagnarsi ad un certo grado di immediatezza, come antidoto al diffuso pregiudizio sul presunto intellettualismo dei compositori della ‘musica moderna’, "dietro il quale si trincera di solito la resistenza a ogni reale impegno estetico verso la cosa"(123). Per seguire questo nuovo sviluppo della dialettica adorniana bisognerà prima di tutto approfondire il concetto di ‘ascolto strutturale’, e poi considerare, al di là del suo rapporto con il pubblico, su cui si è già detto sopra, lo sviluppo della musica moderna nella Seconda Scuola di Vienna.

Come punto di partenza si può prendere una breve definizione contenuta nella tipologia dei comportamenti musicali della prima lezione di Introduzione alla sociologia della musica: l’esperto è infatti l’ascoltatore

pienamente cosciente cui di norma non sfugge nulla e che in pari tempo sa rendersi conto in ogni istante di quello che ha ascoltato [...]. Mentre segue spontaneamente il decorso di una musica anche complessa, egli assomma nell’ascolto il susseguirsi dei vari momenti (passati, presenti e futuri) in modo che gli si configura un senso compiuto, e sa cogliere distintamente anche complessità simultanee, come fosse un’armonia e una polifonia complicata.(124)

Nel capitolo Norme per l’ascolto della musica nuova, nel Fido maestro sostituto, Adorno si propone di avvicinare l’ascoltatore inesperto alla musica dell’avanguardia storica, fornendo vari consigli pratici su come affrontare le nuove difficoltà che questa pone. Secondo Adorno, le composizioni di Arnold Schönberg, Alban Berg e Anton Webern non sono ancora state accettate dal pubblico (si ricordi che il movimento cui fa riferimento l’autore risale a circa cinquant’anni prima la stesura del libro, 1963) per una serie complessa di motivi, tra i quali non secondari l’abbandono di "sistemi stabili di rapporti" (la tonalità) e della possibilità di ‘allettamento’ che ne derivava, e la difficoltà oggettiva delle composizioni moderne, la cui comprensione è tra l’altro ostacolata (o addirittura "sabotata") dall’arretratezza dell’istruzione musicale (125). L’ascolto corretto ha la capacità di "collegare, di ricordare, di attualizzare un dato non-attuale"(126), un procedimento già valido per la musica tradizionale che va ricontestualizzato per un tipo di musica che rifiuta stabili architetture a priori. Adorno raccomanda di sviluppare "la capacità di concepire correttamente gli accordi formati da molti suoni senza che essi risuonino sensibilmente, di appropriarsi con l’immaginazione della loro costituzione interiore":

si può dire senza tema d’esagerare che la comprensione della musica nuova è sostanzialmente tutt’uno con una compiuta visione immaginativa: se si può capire con assoluta esattezza alla lettura il risultato effettivo di una musica, anche se in quel momento essa non viene realizzata concretamente, la si è in genere capita musicalmente.(127)

Gli sforzi pedagogici di Adorno sono volti a ricondurre l’ascoltatore ad un tipo di

ascolto derivato da quello tradizionale:

se veramente essa (la musica nuova) non è altro che la musica tradizionale venuta in sé o una musica in cui è diventato manifesto quello che nella musica tradizionale era sottocutaneo, in questo caso i consigli per l’ascolto della musica nuova valgono anche per l’ascolto di tutta le musica, almeno finchè essa vuol essere piu che un farsi cullare con rassegnazione dalle onde nei canali di superficie del sistema tonale.(128)

Grande importanza è dunque assegnata alla concezione tematica della composizione, con la novità che nelle opere dell’avanguardia il "filo rosso della melodia" non si svolge solo sulla linea data, ma anche in altre componenti, come "suoni complessi, successioni di accordi, singoli blocchi di suoni"(129). L’ascolto strutturale deve superare anche ostacoli come l’inusuale ampiezza degli intervalli melodici, che sovente superano l’ottava, e le complessità dell’intreccio polifonico. L’interesse per l’unità strutturale del tutto, inteso a superare l’attrattiva sensibile del singolo momento assoluto (nel senso di ‘slegato’) si configura in sostanza come un metodo analitico: Adorno seziona le composizioni per individuarne i nuclei tematici e per seguirne il percorso. Di questo metodo l’autore si serve allo scopo di mettere in evidenza la struttura asimmetrica della musica nuova, in contrapposizione alla rassicurante (ma pur sempre relativa) prevedibilità della simmetria tradizionale:

essa [la musica nuova] non dà più alcun adito a una precisa aspettativa, e l’imprevisto non è più giustificato da questa: è la logica del decorso musicale che parla unicamente per sé.(130)

E tuttavia, Adorno ripete spesso che la musica moderna esige, sia nella fruizione che nella creazione, una maggiore immediatezza di quella tradizionale. Come si spiega questo paradosso?

L’immediatezza dell’ascolto si traduce nella capacità di lasciarsi guidare. Ma, a differenza che nell’ascolto atomistico, questo ‘lasciarsi guidare’ sarà legato (mediante la recuperata facoltà di concentrazione) ad "una capacità di percezione che sappa racchiudere in sé quel che è passato e quel che verrà" (131). Come si è visto sopra, se la musica moderna rinuncia a schemi precostituiti, l’ascoltatore che voglia seguirla dovrà essere disponibile ad abbandonarsi senza remore al libero decorso musicale; ma quando tratta il valore del particolare in quanto avulso dal contesto nell’apologia dell’Espressionismo, Adorno rivaluta decisamente il carattere immediato, sponteneo della musica, sia nella composizione che nell’ascolto. La differenza, evidentemente, consiste nella diversa qualità dei particolari in questione: se la falsa immediatezza dello psicologismo dell’industria culturale ha carattere ideologico, i referenti psicologici dell’angoscia e dell’inconscio dell’espressionismo atonale qualificano quest’ultimo come libertario e oppositore della reificazione.

 

 

2.5 La dialettica della musica ‘nuova’

L’ultima sezione del Carattere di feticcio contiene una importante considerazione sul rapporto comprensione –accettazione nella musica della Scuola di Vienna:

il terrore che la musica di Schönberg e Webern diffonde, e non da oggi, non deriva dal fatto che essa sia incomprensibile, ma dal fatto che la si comprende fin troppo esattamente: essa da forma a quell’angoscia, a quello spavento e a quella visione di una condizione catastrofica, a cui gli altri possono sottrarsi solo regredendo.(132)

Nella parte iniziale del saggio Schönberg e il progresso (133) Adorno si concentra, attraverso l’analisi del concetto di ‘opera’, sulla relazione che corre nella musica d’avanguardia tra il particolare (lo choc emotivo) e la sua sistemazione formale. Di fronte alla crisi della società contemporanea, il mondo musicale, come si è visto, si spacca in due: da una parte la vita musicale ufficiale, che porta avanti l’ormai ideologica "beata consonanza di musica e società", dall’altra "quelli che stanno fuori", i quali "sfidano addirittura il concetto stesso di capacità produttiva e di ‘opera’"(134).

L’avversione della nuova musica al ‘possesso stabile’ è esemplificata, con tratto tipicamente dialettico, attraverso il confronto del monodramma schönberghiano Erwartung, per Adorno quasi un paradigma della poetica espressionista, e del dramma di Alban Berg Wozzeck, accolto dalla critica come ‘uno dei primi risultati duraturi’ della musica moderna.

Adorno definisce Erwartung come un ‘protocolllo psicoanalitico’: questa composizione "dispiega l’eternità dell’attimo in quattrocento battute"(135). La protagonista del monodramma, "una donna che, in preda ai terrori dell’oscurità, cerca di notte il suo amato, per ritrovarlo infine assassinato", è trattata come se fosse la paziente di una terapia psicoanalitica:

la registrazione sismografica degli chocs traumatici diviene nello stesso tempo la legge tecnica della forma musicale, che proibisce ogni continuità e sviluppo. Il linguaggio musicale si polarizza verso gli estremi: da una parte produce gesti di choc, simili a brividi corporei, dall’altra trattiene in sé, vitreo, ciò che l’angoscia fa irrigidire.(136)

Al contrario, in Wozzeck gli "schizzi immediati" vengono inseriti in una forma; come conseguenza essi perdono la loro unicità e vengono trasfigurati mediante la possibilità, legata a filo doppio con il concetto stesso di ‘forma’, della ripetizione.

Nonostante questo, la sistemazione in una forma non riesce a neutralizzare la forza degli ‘atomi musicali’ di ispirazione espressionista dei quali essa vive. Wozzeck non è un’opera ‘conciliata’; essa non offre nessuna immagine compiuta da "ammirare una volta per tutte":

il sogno di un possesso artistico duraturo non viene soltanto turbato dall’esterno dalla minacciosa condizione sociale, ma vien meno anche per effetto della tendenza storica dei mezzi stessi.(137)

Con questo confronto Adorno introduce il concetto-cardine della relazione tra dialettica dell’illuminismo e filosofia della musica: il concetto di materiale musicale. Nelle parole di Max Paddison, nell’ambito della musica che non è concepita ‘as commodity’, il materiale musicale è il centro della relazione dell’artista con la società, e quindi della funzione conoscitiva dell’arte: "In dealing with the material the composer is dealing with historically sedimented convenctions. [...] The solutions that music offers to the problems thrown up by the material have, in musical therms, the status and cognitive character of social theories"(138). Paddison ritiene rilevante sottolineare che la dialettica del materiale riguarda il rapporto tra ciò che si definisce ‘materiale’ su due livelli: con questo concetto Adorno si riferisce sia a ciò che è "formed and shaped in the compositional process of any particular musical work", sia al fatto che questo particolare ‘raw material’ (Stoff) è a sua volta mediato, cioè ‘preformato’ storicamente(139). Il processo della composizione è dialettico nella misura in cui si concretizza in una relazione critica tra questi due piani: "it is in the field of tension between these two levels that Adorno appears to locate the ‘truth content’ of a work"(140). Seguendo la critica di Adorno, il problema fondamentale della teoria della composizione è il fatto che la concezione tradizionale ha sempre trascurato la rilevanza della ‘tendenza storica’ inerente al materiale musicale che ogni compositore aveva di volta in volta a disposizione. Secondo quella visione ogni compositore crea, con la piena libertà che l’estetica idealistica gli attribuisce, trattando tutte le sonorità che il passato gli presenta, mentre secondo Adorno "non tutto è possibile in ogni tempo"(141). Due brevi esempi dello stesso Adorno serviranno a chiarire questo concetto. Il primo è relativo allo "stato di logorio dell’accordo di settima diminuita", dimostrazione del fatto che la verità o falsità di determinati accordi o processi compositivi "può essere valutata solo in rapporto con lo stadio generale della tecnica". L’accordo di settima diminuita nella ‘musica da salotto’ contemporanea suona come falso e di cattivo gusto, mentre al contrario, come principio costruttivo, nella sonata beethoveniana esso "è giusto e pieno di espressione"(142). Il secondo esempio è in realtà una citazione di Schönberg riportata nella Teoria estetica (143):

[...] i materiali hanno perso la loro aprioristica ovvietà [...]. Analogamente notava Schönberg: Chopin ha avuto le cose facili, gli è bastato prendere la tonalità di fa diesis maggiore, allora ancora vergine, e subito ottenne bei risultati: peraltro con la differenza, da raccogliere in sede storico-filosofica, che nel primo romanticismo musicale effettivamente materiali come le insolite tonalità di Chopin irraggiavano qualcosa della forza dell’inviolato, mentre nel linguaggio usato intorno al 1900 erano già depravate a ricercatezze.

Ma non si tratta semplicemente di una questione di gusto. Il materiale musicale secondo Adorno è spirito sociale sedimentato, inteso come "soggettività primordiale e dimentica della sua natura"(144), e in quanto tale non è passivo, ma pone delle questioni al compositore. Quest’ultimo può scegliere di agire come se il materiale fosse assoluto, una pura lista di possibilità tecniche in vista di effetti particolari (cfr. il ruolo dell’effetto nell’industria culturale (145)); oppure può scegliere di rapportarsi in modo responsabile, ponendosi in una relazione interattiva. C’è sempre un livello in cui l’unica soluzione possibile è quella più evoluta tecnicamente, e in cui quelle arretrate semplicemente non funzionano più, ridotte a meri clichés. Il lavoro dell’artista responsabile è un continuo rispondere alle questioni postegli dal materiale musicale:

ciò che egli fa, va ricercato nell’infinitamente piccolo e si adempie nell’esecuzione di ciò che la sua musica pretende oggettivamente da lui. Ma per piegarsi ad una simile obbedienza il compositore ha bisogno di una disobbedienza totale, della maggiore indipendenza e spontaneità possibile: tanto è dialettico il movimento del materiale musicale.(146)

Dunque, dal punto di vista della relazione di soggetto-oggetto, la dialettica si rinnova in musica sui due livelli cui si accennava prima (il rapporto del compositore con il suo retroterra culturale e il rapporto del particolare e del generale all’interno dell’opera), e il ruolo dell’immediatezza nella musica moderna comincia ad acquistare un senso, che si manifesta nella critica dell’espressività tradizionale in quanto apparenza. Nella lettura adorniana, sin dall’inizio la musica borghese ha sempre concepito il carattere espressivo come rappresentazione mediata e stilizzata delle passioni (es.: Monteverdi, Galilei e la cosiddetta musica ficta). Il risultato era la riduzione delle passioni ad apparenze. Ma questa riduzione offriva la possibilità di considerare (con un procedimento tipicamente ‘illuminista’) le formule come la realtà dei casi particolari. In questo modo questi ultimi erano contemporaneamente nascosti e integrati nel linguaggio preformato, creando una situazione di unità fittizia di individuale e generale. Come si vede, la situazione è l’analogo musicale dell’integrazione forzata dell’individuo nella società ‘illuminata’ dell’era del capitalismo monopolistico. Ebbene, in questo contesto, le opere dello Schönberg atonale si configurano come un vero e proprio punto di rottura della logica della apparenze sostitutive. Il particolare uso schönberghiano dell’espressivo è stato ridotto dai suoi detrattori a derivazione di quello wagneriano e tardoromantico. Secondo Adorno questa critica, seppure giusta in senso genealogico, trascura l’assoluta novità qualitativa che si trova in Schönberg, il quale assegna alla categoria dell’espressivo una potenzialità realmente sovversiva: infatti questo non simula più le tradizionali passioni dell’anima, ma registra piuttosto "moti incorporei dell’inconscio, chocs, traumi, nella loro realtà non deformata"(147). Le forme tradizionali. che sublimavano il dolore reale in immagini universali razionalizzandole, sono rifiutate da Schönberg e sostitute da un’espressività tanto "esasperata" da farne erompere la realtà. In questo senso Adorno definisce le prime opere atonali come dei "protocolli onirici psicanalitici"(148):

se la musica è privilegiata di fronte alle altre arti grazie all’assenza dell’apparenza, nel senso che non presenta immagini, essa ha pur sempre partecipato con tutte le sue forze, riconciliando instancabilmente i propri compiti con il predominio delle convenzioni, al carattere d’apparenza dell’arte borghese. A questa Schönberg ha tolto ogni seguito, e ha preso sul serio proprio quell’espressione la cui sussunzione nell’universalità conciliante è il principio più intimo dell’apparenza musicale: la sua musica smentisce la pretesa che l’universale e il particolare siano conciliati.(149)

Le innovazioni formali di Schönberg dipendono dalle necessità di questo nuovo concetto di espressione. La musica protocollare esclude qualsiasi possibilità di mediazione tra la realtà del dolore e la costruzione della forma.

Il monodramma Erwartung è stato giudicato degli esperti contemporanei e dagli storici della musica in due modi contrapposti: da una parte come epitome musicale dell’Espressionismo, dall’altra, dal punto di vista compositivo, come la realizzazione dell’idea di un’opera atematica indefinibile dalle categorie formali. Secondo Carl Dahlhaus, il merito di Adorno ("who distrusted rigid oppositions and thus preferred to perceive and emphasise the interdipendence of extremes rather than the way they diverged"(150)) nella comprensione di Erwartung consiste nell’aver superato e reso proficua per la comprensione della musica in questione questa dicotomia. Partendo dall’idea che "the lack of ‘continuity and development’ should not be taken as a negation of form, but as a ‘structural law’ in itself" (151), diventa possibile tentare un’interpretazione analitica di come, in termini di tecnica compositiva, il principio espressivo si costituisce in effetti come principio-guida della forma del monodramma. Il limite della lettura di Adorno consiste, per Dahlhaus, nell’aver definito il senso di questa tecnica compositiva solo in termini negativi, come assenza di ‘continuità e sviluppo’. Nel saggio Schoenberg’s Erwartung, il musicologo tedesco sviluppa l’idea adorniana collocando le due diverse possibili letture del monodramma in relazione con due ben definite categorie storiche. L’analisi di Dahlhaus partirà dunque dalla visione del monodramma espressionista come di una sintesi: "on the one hand, as a recitativo accompagnato expanded for the lengh of an entire musical drama, in other words as musical declamation supported by esprexive or descriptive orchestral motivs, on the other hand as the work of a composer whose musical thinking was influenced first and foremost by the tradition of chamber music" (152). Secondo questa interpretazione l’Erwartung, con un procedimento impensabile fino ad allora, unisce a livello compositivo l’atematicità del recitativo accompagnato e il contrappunto della musica da camera polifonica: "orchestral polyphony as Schoenberg understood it does not cancel out the expressiveness of the monodrama but on the contrary supports and even generates it" (153). L’analisi dei procedimenti formali dell’Erwartung svolta da Dahlhaus a partire dagli stimoli di Adorno è certamente più ancorata al testo musicale di quella del filosofo, che in questo modo rischia di non offrire basi concrete per le sue osservazioni (154). Non bisogna però dimenticare che Adorno intende, nella Filosofia della musica moderna, offrire della musica del Novecento una lettura fortemente centrata sul lavoro svolto nella Dialettica dell’illuminismo. Conseguentemente, data la particolarità e la complessità di questa premessa implicita, è ovvio che il procedimento dialettico adorniano, che da essa deriva in modo stringente, può andare incontro a dubbi o manchevolezze se paragonato con altri metodi di analisi, anche se è innegabile che Adorno mostra sempre una certa tendenza a non palesare i riferimenti specifici delle sue analisi musicali.

Ma come ulteriore tesimonianza della dialetticità dell’analisi dell’Espressionismo musicale, e per mostrare quanto essa (per lo meno quando delinea il movimento dialettico della musica moderna) non sia riducibile a mera apologia, ritengo importante sottolineare come il principio che segna il passaggio alla seguente fase della musica abbia già le sue radici nella stessa Erwartung, brano simbolo della produzione protocollare.

Adorno prende le mosse dalla citazione di Schönberg, nella parte finale del monodramma, di un proprio Lied tonale giovanile. All’interno della cosiddetta solitudine come stile, cioè del fatto che l’isolamento dell’individuo espressionista è un isolamento sociale (155), l’inserimento di sezioni tonali in un brano atonale non sarebbe una contraddizione, ma anzi una convalida delle teorie adorniane sul’emancipazione dell’angoscia. Infatti, una volta liberatasi dai vincoli delle apparenze sostitutiva del linguaggio estetico borghese, nulla le vieta il ricorso al rassicurante principio di autorità della citazione, ovvero, nelle parole di Adorno, di "consegnarsi al più forte" (156). Questa possibilità è del tutto coerente con la dualità delle assunzioni della dialettica adorniana sul particolare:

la posizione della monade assoluta nell’arte è l’una e l’altra cosa: resistenza alla cattiva socializzazione in atto, ma insieme anche predisposizione ad una socializzazione ancora peggiore.(157)

Adorno giustifica sulla base di alcune caratteristiche delle opere citate il capovolgimento dialettico che secondo lui sarebbe insito nella loro costituzione. Ad esempio, nell’Erwartung gli accordi protocollari manifestano nella conclusione la loro tendenza ad "assimilarsi alla forma che li comprende", mentre Die glückliche Hand presenta alcuni tratti (ripresa, ostinati, armonie tenute e tratti tematici) che lo rendono contemporaneamente "documento dell’espressionismo ortodosso e nello stesso tempo un’opera compiuta"(158). Il contrasto tra l’angoscia e la sua intentanea fissazione musicale, pur essendo un procedimento compositivo che si muove tra gli estremi senza tentare di mediarli, è pur sempre, secondo il filosofo, un’aspirazione all’unicità, alla "esattezza dell’organizzazione". In questo elemento, che Adorno chiama ‘oggettivismo’ (Sachlichkeit) e che non è qualcosa di esterno, ma come si è visto è connaturato all’essere protocollare della musica atonale, risiede quel perno dialettico dell’Espressionismo, per cui la necessità del suo superamento designa come suo legittimo erede lo stesso concetto di ‘opera’ in opposizione al quale esso era sorto:

Se l’individualità ha una posizione critica nei confronti dell’opera musicale, questa è altrettanto critica nei confronti dell’individualità. Se la causalità individuale protesta contro contro la legge sociale rigettata, da cui essa stessa proviene, l’opera costruisce schemi per per far propria quella casualità. [...] Solo nelle opere è presente ciò che supera parimenti la limitatezza si soggetto e oggetto: come riconciliazione apparente, esse sono il riflesso della riconciliazione reale.(159)

La necessità di questo capovolgimento dialettico è il naturale frutto dello sviluppo della storia della musica tonale considerata dal punto di vista dei diversi equilibri in cui i suoi elementi fondamentali (melodia, armonia, contrappunto, forma e strumentazione) si sono fusi di volta in volta. Secondo la spiegazione di Adorno, questi parametri si sono sviluppati per lo più in modo autonomo l’uno dall’altro, perciò è sempre avvenuto che al maggior sviluppo tecnico di uno di essi si accompagnasse una relativa arretratezza degli altri. In questo modo, dal punto di vista dell’unità della composizione, le parti più progredite venivano ‘smentite’ da quelle il cui avanzamento era in quel periodo secondario. Ad esempio, la musica del romanticismo, continua Adorno, trascurava decisamente il lato polifonico. Il contrappunto era inserito nella composizione senza mutarne l’impianto rigorosamente omofonico. Ovviamente, concepire il contrappunto in un ottica melodico-accordale significa smarrirne il significato, che consiste nella simultaneità di parti indipendenti: esse "fungono ancora da voce principale dove dovrebbero semplicemente avere la funzione di elementi parziali all’interno delle parti: rendono così indistinto il linguaggio polifonico e sconfessano la costruzione con l’insistenza di un’ampollosa cantabilità"(160). Il momento storico in cui si situa l’opera di Schönberg è caratterizzato, dal punto di vista compositivo, da un tale livello di evoluzione di tutti i singoli aspetti sopracitati da rendere ineludibile l’idea, portata a compimento (si tratta sempre del giudizio di Adorno) da Schönberg stesso, di una organizzazione totale e razionale di tutto il materiale musicale, al fine di superare le sproporzioni. La ricerca di un principio costruttivo unitario per tutte le dimensioni della musica (in pratica il principio-base della dodecafonia) porta la Seconda Scuola di Vienna a superare il fondamentale dualismo tra la polifonia della fuga e l’omofonia della sonata. Al contrario, il procedimento (che Adorno definisce da ‘artigianato musicale’) di Strawinsky e di Hindemith, che consiste nel disporre liberamente di qualsiasi dimensione separata della tradizione musicale, è reazionaria: l’unica possibilità oggettiva dell’opera d’arte è quella della sua organizzazione integrale. La ‘nuova musica’ afferna l’emancipazione dell’individuo isolato dai vincoli della società tardo-borghese a spese dell’oggettività del linguaggio tramandato. In termini musicali, il superamento delle capacità organizzatrici del pensiero armonico-tonale si effettua tramite un ritorno del pensiero polifonico, cioè del contrappunto. Quest’ultimo, in realtà, era già stato riutilizzato da alcuni compositori come Beethoven, Brahms, Wagner come mezzo per ovviare alla saturazione della tonalità. Il salto compiuto da Schönberg è un abbandono della concezione eteronoma del contrappunto rispetto alla tonalità, cioè della ricerca di una conciliazione tra i due pensieri che privilegiasse alla fine quello omofonico:

Il mezzo per arrivarci non è altro che quello estremo della soggettivazione romantica: la dissonanza. [...] Il predominio della dissonanza sembra distruggere i rapporti razionali ‘logici’ all’interno della tonalità, cioè le relazioni semplici di accordi perfetti. In questo caso però la dissonanza resta ancora più razionale della consonanza: essa pone infatti dinanzi agli occhi, in maniera articolata se pure complessa, la relazione dei suoni in essa presenti, invece di conseguirne l’unità mediante un impasto ‘omogeneo’, cioè distruggendo i momenti parziali che contiene.(161)

In questo brano la relazione della dialettica del materiale musicale con la dialettica dell’illuminismo è evidente. Il controllo totale del materiale è il principio sul quale si basa la composizione dodecafonica. In essa la struttura musicale si arresta; la variazione divenuta integrale trasforma in statica la dinamica compositiva e conferisce alla musica un "carattere di sistema singolarmente irrigidito".(162)

Un’altra prova dell’analogia tra il pensiero musicale e il pensiero filosofico è data nella definizione della dodecafonia. Adorno fa notare che è improprio riferirsi ad essa come ad una tecnica di composizione. La dodecafonia è piuttosto "paragonabile ad disposizione dei colori sulla tavolozza che ad un vero e proprio procedimento pittorico; l’azione compositiva incomincia in verità soltanto quando la disposizione dei dodici suoni è pronta"(163). Analogamente, nell’ottica di Adorno ed Horkheimer il pensiero illuminista non si poteva definire un vero e proprio metodo di ragionamento (quale è invece quello della logica), quanto piuttosto un metodo di riduzione (ma anche qui la metafora della ‘disposizione’ rimarrebbe valida) dell’oggetto a quanto di esso possa essere assunto al disotto di una regola, in sostanza cioè un metodo di riduzione della qualità a quantità. Solamente dopo aver così preparato i suoi oggetti il pensiero illuminista si dedica alla ‘composizione’, cioè all’applicazione della logica. Un’altra conferma nella seguente affermazione di Adorno:

ne risulta [dalla pratica dodecafonica] un sistema di dominio sulla natura in musica che risponde ad un’aspirazione già sorta ai primordi della borghesia, di ‘comprendere’ con un criterio d’ordine tutto ciò che contribuisce a formare un pezzo musicale, e di risolvere l’essenza magica della musica in razionalità umana.(164)

Come nella storia del pensiero occidentale così nella musica la libertà e l’autonomia del soggetto dai vincoli del ‘dato’, la concezione mitologica della natura e la concezione ‘naturale’ del materiale musicale nell’altro, viene smantellata da quello stesso momento di dominio per mezzo del quale si era affermata. Adorno prosegue il parallelo osservando che nella misura in cui la razionalità dodecafonica ipostatizza i propri strumenti compositivi come fini in sé, essa si tramuta in superstizione, esatto corrispettivo musicale del carattere mitologico del pensiero totalmente illuminato. In questo modo la dodecafonia compromette la libertà del compositore:

del soggetto espressionista resta solo l’assoggettamento neooggettivistico (neusachlich) alla tecnica, in quanto essa rinnega la propria spontaneità, proiettando sulla materia storica le esperienze razionali da lui fatte nella lotta dialettica contro questa materia.(165)

La pratica dodecafonica pone il compositore, come si è in parte visto nel paragrafo sul primato della composizione, di fronte a difficoltà enormi. Il singolo compositore si trova a dover fronteggiare il compito di cui in passato si era occupato il linguaggio musicale stabilito e riconosciuto intersoggettivamente. Il compositore dodecafonico non deve adeguare la sua creazione al materiale musicale preesistente, ma inventare da zero proprio quel materiale. Il rischio di quest’operazione è di perdere di vista l’interesse per la singola composizione in favore dell’esplorazione delle possibilità puramente tecniche che il nuovo metodo permette. In questo senso si comprende l’affermazione di Adorno che le opere dodecafoniche sono caratterizzate da un momento didattico.

La dodecafonia, producendo la composizione integrale di ogni parte, si avvicina all’immagine della repressione totale (166). Il tentativo di regolare lo stato di totale emancipazione del soggetto nell’atonaltà si è trasformato nel "simbolo del mondo contro cui si ribella", pur mantenendosi distante dalla sua ideologia. La conseguenza, per Adorno, è una sola: "si può sperare nello svernamento solo se la musica si emancipa anche dalla dodecafonia"(167). L’astrattezza della sua relazione con il materiale induce il soggetto a scaccarsene. Secondo Adorno le opere più tarde di Schönberg si comprendono solo in relazione con questa seconda emancipazione del soggetto dal materiale musicale. Schönberg, in realtà per Adorno l’unico esponente della Scuola di Vienna ad aver colto responsabilmente e fino in fondo le conseguenze del nuovo metodo, realizzò questo scopo con un perfetto dominio del metodo stesso, egli

in realtà considera la dodecafonia nella prassi compositiva come una pura e semplice preformazione del materiale: ‘compone’ con la serie, la domina con superiorità, ma anche come se nulla fosse accaduto.(168)

Nel 1955, circa quindici anni dopo la stesura del saggio Schönberg e il progresso, i giovani compositori che raccoglievano l’eredità di Schönberg e della composizione seriale di Anton Webern (che si può descrivere grossomodo come un tentativo di estendere a tutte le dimensioni della musica i nuovi criteri costruttivi), avevano condotto, secondo Adorno, l’avanguardia ad un stadio di invecchiamento. Questo sviluppo, che in realtà era gia stato previsto, viene analizzato dal filosofo nel saggio Invecchiamento della musica moderna (169), che fu contestato dalle giovani avanguardie e apprezzato dalla musicologia più conservatrice, che si illudeva in merito ad una possibile ‘conversione’ di uno dei più determinati sostenitori dell’arte nuova (170). Gli epigoni del metodo seriale (così viene chiamata l’applicazione integrale della dodecafonia operata da Webern) hanno purificato il materiale compositivo dalle "scorie del passato", ottenendo in cambio un abbassamento del livello qualitativo delle opere. Il giudizio di Adorno verso la dodecafonia, come si è appena visto, è sempre stato abbastanza dialettico (171) da comprendere la possibilità che questa si irrigidisse e le sue regole venissero considerate acriticamente. Come scrive Serravezza, "nonostante le pretese di un radicalismo estremo nel campo delle procedure, [la musica emancipata] ha finito per rientrare nell’orizzonte delle apparenze, dei valori sicuri"(172). I giovani compositori si trovano di fronte al paradosso di dover conciliare mezzi derivati necessariamente dalla tradizione, come temi, esposizione, ponti, sviluppo, con una tecnica che li mette radicalmente in discussione. Ma se Schönberg era riuscito, grazie alla sua "sovrana maestria compositiva", ad "aver ragione di questa frattura" (173), la seconda generazione dell’avanguardia, rinuncia a dare un senso alla musica per inseguire "un desiderio di razionalizzazione integrale che prima d’ora non aveva avuto precedenti nella musica" (174). Questa tendenza si manifesta nella rinuncia all’espressione, che la musica espressionista aveva emancipato dai vincoli dell’apparenza, per l’abdicazione completa del soggetto alla tecnica:

ciecamente si innalza un prodotto del pensiero umano a fenomeno e lo si adora: un autentico caso di feticismo.(175)

 

2.6 Wagner e Strawinsky

2.6.1 Adorno e l’opera wagneriana
Adorno dedicò alla figura e all’opera di Richard Wagner un volume monografico, scritto nel 1937 e pubblicato nel 1952 (176). Nel contesto della visione adorniana dello sviluppo della musica borghese, il filosofo individua in Wagner il perno del percorso involutivo della musica. Secondo l’esposizione riassuntiva di Alessandro Arbo, la musica di Wagner realizza il rischio di "sopprimere quel nesso discorsivo su cui si fonda la ‘concretezza’ del suo articolarsi nel tempo; priva di sviluppo, finisce per adeguare il suo movimento a uno schema preso in prestito dalla parola e dall’azione" (177). Come conseguenza di questa mancanza, la musica in Wagner finisce per essere ‘alienata’, il suo senso rinuncia all’autonoma (‘oggettiva’, nel linguaggio adorniano) configurazione interna alla composizione, e viene delegato ad un fattore extramusicale. Ritengo che la lettura del Versuch über Wagner sia un ottimo campo di prova per quella che sopra ho chiamato ‘ideologia della partitura’ e per verificare ancora una volta la modalità del rispetto per il particolare, due ambiti che anche in quest’opera si mostrano strettamente collegati. Nel corso di questa analisi si rivelerà illuminante il saggio di Carl Dahlhaus Soziologische Dechriffierung von Musik. Zu Theodor W. Adornos Wagnerkritik (178). Il primo capitolo del Versuch, intitolato "Carattere sociale", ha per oggetto la critica della personalità di Wagner. Basandosi sulle sue lettere, sulle agiografie, sui personaggi dei drammi e sulle testimonianze suo antisemitismo, Adorno ricostruisce il carattere del musicista come un insieme di "invidia, sentimentalismo e istinto distruttivo" (179). Wagner incorporerebbe il mutamento della funzione dell’individuo nella società borghese:

esso cerca di sfuggire al suo annientamento nel conflitto disperato con l’istanza sociale, in quanto si mette dalla parte di questa e razionalizza appunto tale transizione come sviluppo individuale proprio.(180)

Tutta la critica a Wagner è basata su questa complicità sia della sua persona sia della sua musica con la totalità sociale. In questa relazione riveste un ruolo fondamentale l’elemento mitico, che in Wagner assurge a vero e proprio "mascheramento mitico del presente opprimente"(181). Come scrive Dahlhaus, il mito, alla sua origine non è soltanto falsa coscienza; ma "come parabola della società borghese, il mito costituisce un inganno su di una particolare condizione, che viene presentata come un frutto di un destino immutabile" (182). Secondo Adorno la musica di Wagner, trovando nella mitologia una collocazione stabile e acritica, rinuncia alla possibilità di diventare "voce di un umanità che non si sottomette senza opposizione" (183) e si rassegna a diventare la trasfigurazione pacificante del destino ineluttabile.

Nello sviluppo sonatistico l’integrazione del particolare (il motivo) nel tutto (la forma) consisteva in un influenzarsi reciproco tale per cui la ripresa del tema alla fine dello sviluppo non era meramente identica alla prima esposizione, ma era presentata come il frutto della ‘storia’ che si era costruita nel corso della sonata stessa. Il carattere ideologico della musica di Wagner consiste nella sostituzione di questo principio con quello del Leitmotiv legato a singoli personaggi e situazioni. La conseguenza formale di questo principio è che la struttura musicale è determinata dell’evolversi dell’azione scenica piuttusto che dalle leggi immanenti del materiale musicale. L’unità di motivo e azione (denominata ‘gesto’) pregiudica il discorso musicale bloccandolo allo stadio del ‘sempre identico’ (Immergleiche). La dinamicità dell’Entwickelnde Variation (184) è sostituita dalla staticità della struttura mascherata dal rincorrersi dei ‘gesti’ (185): "in realtà Wagner conosce solo motivi e grandi strutture" (186).

In questa analisi è evidente il primato assegnato da Adorno alla composizione sugli altri aspetti della musica. Il filosofo si basa sulle analisi di Adolf Loos, che Dahlhaus sostiene essere in realtà più che altro mosso dalla volontà di difendere Wagner dall’accusa di incapacità nella strutturazone formale. Quest’intento apologetico ha il suo perno nella pratica della direzione orchestrale. Loos dichiara di aver compreso proprio dalla sua esperienza di direttore il ‘segreto’ della sproporzione dei blocchi compositivi nella totalità dell’assetto morfologico wagneriano (187): il senso di questa struttura sarebbe strettamente collegato alla necessità del direttore di ricordare a memoria tutta l’opera: "in Wagner vale l’ininterrotto primato del direttore sulla composizione" (188).

Le manchevolezze della strutturazione tecnica compositiva derivano sempre dal fatto che la logica musicale, che dal materiale del suo tempo è dovunque sottintesa, è afflosciata, e sostituita da una sorta di gesticolare, come, per esempio, gli agitatori sostituiscono con gesti verbali lo sviluppo discorsivo del pensiero.(189)

La dipendenza della composizione da un criterio così apertamente extramusicale è per Adorno la prova fondamentale della ‘reificazione’ del linguaggio wagneriano e del suo schematismo di carattere ideologico. Senonché, Dahlhaus ritiene che l’analisi di Loos sia viziata proprio dal suo intento apologetico: "per difendere Wagner dall’ottuso rimprovero di ‘mancanza di forma’, rimprovero sollevato per mezzo secolo nei confronti della ‘melodia infinita’, egli cercò di far entrare a tutti i costi nelle categorie della dottrina tradizionale della forma la musica del Ring, e in seguito anche quella delle altre opere" (190). In questo modo Loos (e con lui Adorno) si preclude la possibilità di considerare la non-schematicità come la novità essenziale dell’opera wagneriana. Con il giudizio di ‘Sempre-Identico’ sulla musica di Wagner, in più, il francofortese non riconosce la sostanziale differenza tra lo schema formale tra le opere giovanili e quelle della maturità: se è vero che nelle prime Wagner organizza il materiale musicale in modo decisamente rigido, con la costruzione di frasi di due quattro o otto battute, nelle opere tarde (tra cui il Ring, principale bersaglio adorniano) questo schematismo si scioglie per far posto ad una sorta di ‘prosa musicale’. Le conseguenze di questa frattura tra opere di diversi periodi contrastano con "la tesi che Adorno sovrappone alla realtà dei fatti: dal punto di vista ritmico il dramma storico (Lohengrin) è schematico, e quello mitico, (Rheingold), non lo è" (191). Secondo Dahlhaus, alla base del giudizio di Adorno su Wagner c’è l’applicazione di parametri che in realtà si riferiscono ad altri generi musicali. La critica del carattere gestuale, la cui ripetizione sarebbe meccanica, può essere appropriata se rivolta al recitativo, che esclude la ripetizione, mentre nel dramma musicale il ‘gesto’ musicale acquista un senso proprio in quanto legato alla possibilità di accompagnare anche con la mera ripetizione l’azione scenica. Il fraintendimento nasce se, come sembra implicitamente fare Adorno, si segue l’opinione di Wagner secondo la quale la sua musica sarebbe il compimento del percorso sinfonico iniziato dalla Prima Scuola di Vienna. Uno studio organico storicamente accorto del lavoro di Wagner dovrebbe orientarsi sulle regole e le necessità proprie del dramma musicale, piuttosto che su quelle del sonatismo sinfonico. Il limite musicologico della critica a Wagner consiste dunque nel non aver saputo cogliere in quali settori specifici della vita musicale egli abbia effettivamente apportato elementi innovatori. La premessa dichiarata di Adorno (sviluppare la tesi sociopsicologiche da un’analisi della tecnica di composizione, cioè dal livello concreto, ‘oggettivo’ della musica) è smentita dalle incongruenze storiche e dalla esiguità delle analisi: quando compaiono, esse sembrano più che altro "interpolazioni con le quali il musicista Adorno tranquillizza la sua coscienza per il fatto che la musica in quanto tale non è in realtà al centro della sua trattazione" (192). Secondo un altro critico, Nicola Licciardello, il limite della lettura adorniana di Wagner non è tanto in una sorta di fraintendimento sul piano musicale, quanto piuttosto in una forzatura storica: nella versione di Adorno, dopo il ’48, la delusione della borghesia per il fallimento dei moti rivoluzionari avrebbe dato il via ad una ‘volontà di decadenza’, una coscienza della necessità di ‘corruzione’ la cui punta avanzata era costituita proprio dalla musica e dalla persona di Wagner (193). L’ideologia musicale di quest’ultimo sarebbe invece perfettamente in linea con l’ideale estetico della borghesia in ascesa: "il fatto che la volontà di potenza sia psicologicamente un correre verso la morte [...] non implica che Wagner e coloro che in quel momento si riconoscevano nella sua musica pensassero di tramontare, pensavano anzi il contrario" (194). Quegli stessi tratti caratteristici della musica di Wagner, dalla melodia infinita alla mitologia germanica, che nel pensiero di Adorno implicano la povertà dello sviluppo sinfonico, e quindi staticità e regressione, erano in realtà proposti e percepiti come fattori di esaltazione, non come decadenti. Secondo Licciardello, Adorno "si lascia fuorviare dall’atteggiamento necessariamente bohèmiene di Wagner" (195).

 

2.6.2 Strawinsky e il sacrificio della soggettività
L’antitesi Schönberg-Strawinsky, formulata da Adorno nella filosofia della musica moderna, per cui i due compositori sono assunti come rappresentanti di tendenze compositive opposte, è ormai comunemente accettata come dato di fatto nella cultura musicale. Tuttavia, agli ascoltatori dell’inizio del secolo quest’antitesi sarebbe parsa sanz’altro incomprensibile. Infatti lo scandalo con cui furono accolte dal pubblico le prime opere di Schönberg non mancò, ad esempio, alla prima rapresentazione del balletto strawinskiano Le Sacre du Primtemps (1913) (196). Ma, aldilà dell’inizio burrascoso, il pubblico ‘colto’ trovò ben presto in Igor Strawinsky l’ideale di un’arte che si prendesse la cura di épater le burgeois senza soffermarsi troppo sulle implicazioni più angoscianti della società. Scrive Luigi Rognoni: "a questo ideale si era conformato, in modo ortodosso e coerente fino alla gloria, affermatasi col prestigio dell’autorità, Igor Strawinsky, a partire dal primo dopoguerra quando venne da lui iniziata l’escalation del neoclassicismo"(197). Già nel libro su Wagner, che risale agli anni ’30, Adorno esprimeva un giudizio negativo sulla scelta compositiva di Strawinsky, che viene collocato nella scia della regressione wagneriana e paragonato alle tendenze ideologiche dell’ontologia della prima metà del Novecento (198).

Di fronte a quella stessa ‘saturazione della tonalità’ esasperata dal cromatismo wagneriano che portò il responsabile Schönberg alla scelta atonale, la reazione di Strawinsky fu la restaurazione del linguaggio tonale, nella convinzione che "il senso della tonalità sia un dono della natura congenito nella percezione auditiva dell’uomo" (199). Attraverso il recupero degli stilemi del linguaggio compositivo preromantico la musica strawinskiana intende dar voce ad un desiderio di autenticità. Come Husserl, egli ‘epochizza’ la storia nella convinzione di ritrovare intatta la purezza originaria dello spirito umano (200). Il neoclassicismo elabora una sorta di teoria ‘residuale’ in musica: risolve il cromatismo epurando il linguaggio musicale dai suoi aspetti problematici, e ipostatizza "il ‘resto’ che avanza dopo avere eliminato il presunto ‘contenuto’" (201). Nella visione di Adorno la posizione sociale di Strawinsky rappresenta l’esatto contrario di quella di Schönberg: posto che la società contemporanea è caratterizzata dalla violenza dell’organizzazione repressiva verso il singolo e il soggettivo, se la Nuova Scuola di Vienna indende dar voce alla sofferenza dell’individuo schiacciato, al contrario

lo spirito di autori come Strawinsky reagisce violentemente ad ogni moto che non venga determinato visibilmente dal costume generale, e propriamente ad ogni traccia di ciò che è socialmente evasivo. Loro intento è di mettere l’accento sulla ricostruzione della musica nella sua autenticità, di imprimerle dall’esterno una convalida, di dotarla della violenza del ‘non poter esser altro che così’ (202)

Inoltre, se si tiene presente come per Adorno la saturazione del linguaggio tonale fosse il percorso storico destinato a compiersi nell’insuperata libertà dell’emancipazione del soggetto nell’espressionismo atonale, si comprende bene quale fosse il contesto della condanna dell’oggettivismo strawinskiano:

la soggettività assume, in Strawinsky, l’aspetto della vittima; ma la musica – e qui egli si beffa della tradizione dell’arte umanistica – non si identifica con essa, bensì con l’istanza distruttrice. Mediante la liquidazione della vittima essa si priva degli obiettivi, e quindi della propria oggettività.(203)

Il livello di coscienza della musica viene respinto nell’ambito mitico. In costante equilibrio tra i concetti della Dialektik e il linguaggio psicanalitico, Adorno individua nella Sacre du Primtemps il rito in cui si compie quel ‘sacrificio del soggetto’ alla collettività che in seguito avrebbe portato alla concezione neoclassica. A proposito di quest’opera Rognoni scrive di "sacrificio dell’io sugli altari del materialismo tecnocratico della civiltà in progresso", in seguito al quale all’artista non rimane altra possibilità che "conformarsi allo statu quo ed inserirvisi, ritornando alla ‘normalità’ della cultura borghese, come se nulla fosse capitato" (204).Coerentemente con l’importanza che al rito veniva riconosciuta nel libro scritto con Horkheimer, Adorno si sofferma a lungo sul Sacre, per descrivere gli elementi tecnici su cui si basa la regressione: "l’idea coreografica del sacrificio impronta anche la fattura musicale, nella quale viene estirpato, e non solo sulla scena, tutto ciò che si differenzia, in quanto individuato, dal collettivo"(205). Questo procedimento ha effetti immediati sulla dimensione orizzontale della composizione: ogni melodia di lunghezza rilevante o che possa dare luogo ad uno sviluppo viene bandita limitando il materiale a "rudimentali successioni di suoni" di derivazione impressionistica (206). Pur rompendo con la concezione tradizionale della compattezza della melodia, Strawinsky non approda alla libertà atonale; egli utilizza frammenti melodici di varia provenienza e ispirazione, motivi per lo più diatonici di inflessione folklorica, oppure puri e semplici pezzi di scala cromatica. Le variazioni di questi brevi motivi (che per la loro refrattarietà allo sviluppo sarebbe fuori luogo chiamare ‘cellule tematiche’) avviene come se queste fossero sottoposte ad uno ‘squotimento’: "l’inciso viene costruito in modo tale che, quando ricomincia senza pause subito dopo la sua conclusione, gli accenti vanno a cadere su note diverse da quelle dell’inizio (Jeu du rapt). Sovente, come gli accenti, vengono scambiate anche le lunghe e le brevi" (207). Con un’acuta osservazione, Adorno individua nel contrasto tra l’irrilevanza della dimensione orizzontale e la forza di quella orizzontale la prefigurazione della ripresa della tonalità nel neoclassicismo, intesa come

un sistema di relazioni la cui struttura è più conforme ai melismi di quanto non lo siano gli accordi di molti suoni. Questi hanno una funzione coloristica e non costruttiva, laddove in Schönberg l’emancipazione dell’armonia riguardava fin dagli inizi la melodia, in cui la settima maggiore e la nona minore vengono considerati sullo stesso piano degli intervalli abituali.(208)

Un’interpretazione meno tecnica, ma non per questo meno coerente con la visione di Adorno, è invece quella che vede nella fiera il modello della politonità, in quanto quest’ultima richiamerebbe il "risonare contemporaneo di musiche spazialmente separate sulla piazza della fiera". Come le fiere fanno pensare in qualche modo al nomadismo e quindi ad una organizzazione sociale preborghese, così la politonalità conferisce alla musica quell’idea di arcaicità che è funzionale al tema del balletto e al carattere mitico del brano. L’uso strawinskyano della politonalità arcaizzante mira alla base del principio di individuazione su cui si basa la cultura borghese. Malgrado l’asprezza delle dissonanze, il Sacre, grazie alla pregnanza del suo impianto ritmico, offre al pubblico un ascolto più agevole rispetto, per rimanere al solito esempio, all’Etwartung. Criticando il giudizio degli apologeti, per cui il grande merito di Strawinsky sarebbe quello di essere un ‘musicista del ritmo’, Adorno sostiene che il risalto dato dal compositore russo all’aspetto ritmico va a discapito, oltre che delle altre dimensioni della composizione, delle stesse possibilità organizzative del ritmo:

non solo manca la flessibilità espressiva e soggettiva del tempo musicale, che Strawinsky ha costantemente irrigidito a cominciare dal Sacre, ma mancano anche tutte le relazioni ritmiche connesse con la costruzione, con la compagine compositiva interiore e col ‘ritmo complessivo’ di tutta la forma. Il ritmo è accentuato, ma disgiunto dal contenuto musicale. (209)

In questo modo, ogni singolo elemento ritmico viene isolato e utilizzato solo in virtù del suo effetto: il ritmo diviene feticcio. La musica di Strawinsky rifiuta di confrontarsi in modo dialettico con la problematicità del decorso temporale, determinandosi nel giudizio di Adorno come fenomeno marginale nel contesto della musica colta occidentale (210). Nel suo articolo su Musica e società Licciardello sostiene che il filosofo "mantiene i suoi tabù ideologici come canoni di giudizio", ovvero passa continuamente (e indebitamente, secondo questo studioso) dal livello dell’analisi tecnico-strutturale a quello dell’interpretazione storico-sociale. Ritengo che, al contrario di molti altri scritti di Adorno, nel saggio su Strawinsky il filosofo offra per le sue analisi un livello di riferimenti a elementi specifici delle composizioni per lo meno equilibrato rispetto alle conclusioni teoriche che ne seguono, permettendo così un chiaro collegamento tra dialettica del materiale musicale e dialettica dell’illuminismo, e facendo capire al lettore che si trova davanti ad una ‘filosofia della musica’ e non ad una ‘storia della composizione’. La critica dell’interpretazione adorniana di Strawinsky dovrebbe tenere piuttosto la linea del confronto critico tra pensiero musicale e principio dialettico, come lo stesso Adorno spesso sottolinea. Più aderente al pensiero di Adorno è la critica di Max Paddison, il quale, oltre a rimproverare il filosofo per la scarsità dei suoi riferimenti ai particolari compositivi, mette in dubbio la coerenza dell’approccio adorniano verso il compositore russo. Infatti, in altri
scritti dello stesso autore Strawinsky viene presentato come ‘compositore dialettico’ e le sue composizione vengono apprezzate per aspetti che in Filosofia della musica moderna vengono trascurati. Paddison solleva il dubbio che l’asprezza delle critiche contenute in questo libro sia dovuta ad una forzatura tesa a far risaltare meglio la contrapposizione con Schönberg (211):

Given the centrality of the Schoenberg essay, howewer, this leads to the feeling that an alien set of criteria is being somewhat dogmatically applied to Stravinsky’s music. This is unfortunate, because Adorno applied his method with powerful logic to the music of Schoenberg, and with illuminating results.

Paddison si riferisce al saggio del 1962 Strawinsky. Ein dialektisches Bild (212). In questo scritto il filosofo procede ad una revisione del giudizio esposto in Filosofia della musica moderna: questa revisione deriva da una diversa interpretazione del neoclassicismo.

Strawinsky bleibt ein Skandalon weil er, Prestidigitateur sein Leben lang, das Uneigentliche der Objektivität durch deren Erscheinung zur Grimasse gestaltete. Seine Musik war allem Provinzialismus dadurch so weit entdrückt, daß sie ihre Tricks immer zugleich auch erklärte, wie nur unnachamliche Magier es sich gestatten dürfen. Großartig war sein Instinkt dafür, daß in Musik Sprachlich-Organisches nur noch als Verwesendes möglich sei.(213)

Nella musica di Strawinsky Adorno individua dunque anche un ‘momento di verità’: esso si troverebbe nel modo in cui il compositore russo si rapporta ai nei confronti dei ‘detriti ‘ della cultura e del materiale musicale ormai disintegrato.

Dieser Instinkt hat seine eigenen Strukturen gemodelt. Ihr Idiom erlehnte er dem, das bis an die Schwelle der Gegenwart den Schein des Organischen mit sich führte, der Tonalität, und das zugleichals historisch gerichtetes sich präsentiert. Verdankten seine Stückte ihr Autorität selbst als fiktiv bloßzustellen. Der die gesamte gemäßigte Moderne auf dem Gewisse hat, dachte radical. In ihren beschädigten Klangformen, den Montagen von Totem, legen seine affirmativen Werke davon bedrohliches Zeugnis ab: Grund genug, nochmals den Blick auf ihn zu lenken.(214)