Capitolo 1

La scelta illuminista

 

1.1 La scelta illuminista

Nella prefazione "Per Voltaire" ai racconti filosofici Zadig (1) Paolo Flores d’Arcais lamenta la predominanza, all’interno delle correnti filosofiche più recenti, di una tendenza inflessibilmente ostile al pensiero illuminista. Con un certo senso della provocazione accomuna come facenti parte di questo "luogo comune delle filosofie dominanti" (2) certe osservazioni radicali della Dialettica dell'illuminismo (3) e alcune "sbrigative deduzioni dal libero pensiero senza fede allo sfrenato "egoismo omicida" (4) esposte nelle encicliche di Karol Wojtyla, assunto dall’estensore della prefazione come rappresentante di quella visione del mondo che storicamente è stata in contrapposizione con la ragione illuminista.

L’aspetto polemico della questione consiste nel presentare come uniti contro il medesimo fenomeno storico due posizioni di pensiero che siamo abituati a considerare opposte su tutto, ispirandosi l’una alla dialettica hegelo-marxista e l’altra alla rivelazione divina e alla tradizione cattolica (5). Flores d’Arcais propone questa contraddizione come punto di aggancio per un’apologia della battaglia di Voltaire contro l’intolleranza religiosa e della "scelta per la tolleranza quale valore che orienti l’azione e dia coerenza al rapporto della filosofia con essa" (6).

In effetti, se per proseguire l’esempio in questione si consulta l’ultima enciclica vaticana, la Fides et Ratio, è facile trovare frasi che richiamano alla mente tematiche di critica allo "scientismo" e al "predominio della tecnica" care alla Scuola di Francoforte: nello scritto papale si parla di un "eccessivo spirito razionalista" che avrebbe portato a progetti (filosofici) che

sul piano politico e sociale, sono sfociati in sistemi totalitari traumatici per l’umanità (7).

Oppure, ancora:

queste forme di razionalità sono orientate [...] al servizio di fini utilitaristici, di fruizione o di potere; [...] Conseguenza di ciò è stato l’offuscamento della vera dignità della ragione (8) [...].

La scienza, quindi, si prepara a dominare tutti gli aspetti dell’esistenza umana attraverso il progresso tecnologico. [...] La mentalità scientista [...] sembra non avere più confini [...] (9).

Molte frasi ‘estremiste’ di Horkheimer e Adorno possono dare un’analoga impressione di ‘rigidità’ nella lettura del pensiero illuminista. Ne riportiamo solo alcune, a titolo di esempio:

L’illuminismo è totalitario (10).

Ciò che gli uomini vogliono apprendere dalla natura è come utilizzarla ai fini del dominio integrale (11).

I suoi apologeti [...] coprivano, negandolo, il vincolo assoluto di ragione e misfatto (12).

Come mai dunque mettere sullo stesso piano il giudizio filosofico di due tra i più importanti esponenti della "laica e progressista Scuola di Francoforte" (13) e le osservazioni di Karol Woytjla su scienza e illuminismo significa realizzare un paradosso? Per rispondere a questa domanda si dovrà mostrare che accettare l’ambito tracciato da Flores d’Arcais significa operare un’indebita riduzione dell’orizzonte concettuale all’interno del quale si muovono Horkheimer e Adorno: il concetto di illuminismo dei due autori non è (se non in minima parte) lo stesso che la storiografia filosofica considera.

Innanzitutto, bisogna rilevare che la figura di Voltaire non rappresenta un bersaglio importante nella critica dei due filosofi (14), i quali nel corso della loro opera comune estendono il concetto di illuminismo addirittura all’intera storia del pensiero occidentale, tanto che per indicare questa particolare e complessa visione del fenomeno ed evitare di cadere in semplificazioni indebite (come quella riportata sopra), è ormai uso comune fare riferimento al termine Aufklärung:

il pensiero razionale-sperimentale (ovvero quello scientifico) si sarebbe sviluppato nella storia della cultura europea sostituendosi alla visione magica del mondo allo scopo di dominarlo, grazie all’unione di intelligenza matematica e capacità tecnica, in maniera efficace. Ma, posto che anche la precedente visione magica avesse una sua valenza sociale e che quindi questo lento mutamento dalla magia alla ragione non possa essere ridotto alla semplice scoperta di un errore teorico (del tipo ‘le pratiche scientifiche funzionano meglio di quelle magiche’) (15), bisognerà evidentemente chiedersi per chi esse siano più ‘efficaci’. La risposta indica come legati all’evoluzione in senso ‘illuminato’ della razionalità e della società vari fattori non pienamente (senza residui) riconducibili ad un evento totale, ma che intrattengono tra di loro rapporti dialettici: la lotta più propriamente illuminista della ragione contro il mito, cioè contro l’antropomorfizzazione della natura (da cui la dialettica dell’illuminismo); la comparsa del Soggetto in senso hegeliano (da cui scienza e rapporto Soggetto-Oggetto nel principio di identità e rapporto totale-particolare); l’ascesa della borghesia verso il potere sociale (da cui principio di funzionalità, pseudo-individuazione e industria culturale). Ognuno di questi elementi è legato a filo doppio agli altri, e tutti insieme al concetto di ‘dominio’; nessuno di essi è statico, sono tutti sottoposti ad un movimento (ma forse ormai sarebbe meglio cominciare a dire ‘dialettica’) che viene delineato in maniera dapprima un pò frammentaria all’inizio della Dialettica dell'illuminismo:

L’illuminismo, nel senso più ampio del termine, ha perseguito da sempre l’obiettivo di togliere agli uomini la paura e renderli padroni. Ma la terra illuminata splende all’insegna di spettrale sventura. (16) [...] I miti che cadono sotto i colpi dell’illuminismo erano già il prodotto dell’illuminismo stesso (17).[...] Come i miti fanno già opera illuministica, così l’ illuminismo, ad ogni passo, si impegna sempre più profondamente nella mitologia. Riceve ogni materia dai miti per distruggerli, e, come giudice, incorre a sua volta nell’incantesimo mitico (18).

 

1.1.1 La dialettica di mito e Aufklärung.
"Se Galilei ha chiarito il metodo della scienza, Bacone ha intravisto per primo il potere che la scienza offre all’uomo sul mondo. Bacone ha concepito la scienza essenzialmente diretta a realizzare il dominio dell’uomo sulla natura, il regnum hominis: ha visto la fecondità delle sue applicazioni pratiche, sicchè può dirsi il filosofo e il profeta della tecnica" (19). Questa formula esprime un giudizio ampiamente condiviso nel corso della storia (20), che ha portato il filosofo inglese a diventare un riferimento costante del pensiero moderno occidentale; proprio in quanto tale, Bacone è assunto da Horkheimer e Adorno come punto di partenza della loro esposizione. Il filosofo è l’emblema di quel tipo di pensiero che "si proponeva di dissolvere i miti e di rovesciare l’immaginazione con la scienza" (21).

La prima differenza sostanziale rispetto alla critica tradizionale è che i due autori non considerano il filosofo inglese un ‘profeta’, cioè un iniziatore, ma una figura che validamente rappresenta la parte rivolta al dominio tecnico di quello stesso processo di Aufklärung, che già esisteva sotto altre forme, e del quale egli non rappresenta che una tappa. L’intera storia della cultura occidentale è presentata infatti come una sorta di campo di battaglia tra due opposti principi: il mito e l’Aufklärung, nessuno dei quali è comprensibile in sè, ma solo in relazione al proprio opposto. Questa non-staticità permette di individuare il processo come già in fieri nella cultura classica, addirittura in Omero, nel Senofane derisore dell’antropomorfizzazione delle divinità, in Platone, e di seguire il suo sviluppo attraverso i secoli dell’evo moderno (con Montaigne, Hume, Feuerbach) (22) fino al suo rovesciamento nell’età contemporanea. L’inizio del processo è segnato dal desiderio (ancora senza un valido soggetto storico), di dominare la natura.

Le cosmologie presocratiche fissano il momento del trapasso. L’umido, l’indistinto, l’aria, il fuoco, che appaiono in esse come materia prima della natura, sono residui appena razionalizzati della concezione mitica. Come le immagini della generazione dalla terra e dal fiume, giunte ai Greci dal Nilo, diventarono qui principi ilozoistici, così l’inesauribile ambiguità dei demoni mitici si spiritualizzò nella forma pura delle essenze ontologiche. Da ultimo, con le idee di Platone, anche le divinità patriarcali dell’Olimpo sono rivestite dal logos filosofico. Ma nell’eredità platonica e aristotelica della metafisica l’illuminismo riconobbe le antiche forze e perseguitò come superstizione la pretesa di verità degli universali. Nell’autorità dei concetti generali esso crede ancora di scorgere la paura dei demoni, con le immagini e riproduzioni dei quali, nel rituale magico, gli uomini cercavano di influenzare la natura. D’ora in poi la materia dev’essere dominata al di fuori di ogni illusione di forza ad essa superiori o ad essa immanenti, di qualità occulte.(23)

Il passo sopra citato chiarisce in cosa consiste il concetto di illuminismo come ‘pensiero in continuo progresso’: ogni fase del pensiero individua l’elemento mitico, da cui rifugge, nelle fasi precedenti, che pure avevano fatto la loro comparsa proponendosi come ‘già illuminate’. L’illuminismo ‘fagocita’ il mito confrontandosi con esso come ‘argomento’, cioè incamerandolo preventivamente sul piano della razionalità analitica. In questo senso per Horkheimer e Adorno "l’illuminismo è totalitario" (24). Ma se considerare il pensiero mitico superstizione ed errore è indebitamente riduttivo, in che cosa consiste questo più propriamente? Nella Dialettica dell'illuminismo non si dà una definizione chiara e univoca del mito prima di tutto perché questo, nella visione degli autori, è legato indissolubilmente al suo contrario; in caso contrario si rischierebbe di volgere la ricerca verso una sorta di ‘età dell’oro’, un fondamento ‘autentico’ tale da giustificare il successivo sviluppo (25): anche se in alcune parti si ha la sensazione che il mito sia un po’ idealizzato (la pratica dell’Aufklärung viene identificata con la rinuncia al significato e la separazione dell’uomo dalla natura (26)), programmaticamente il pensiero dialettico considera mito e illuminismo come generantisi l’uno dall’altro. Infatti, così come "i miti, come li trovarono i tragici, sono già nel segno di quella disciplina e di quel potere che Bacone esalta come meta" (27), allo stesso modo "i miti che cadono sotto i colpi dell’illuminismo erano già il prodotto dell’illuminismo stesso" (28). La differenza (un certo grado di schematizzazione è inevitabile se si cerca di esporre un libro così frammentario (29) ) tra i due modi di relazionarsi alla natura è individuabile nella dicotomia tra mimesi e intenzionalità.

Nel rito

il mago si rende simile ai demoni; per spaventarli o per placarli, si atteggia in pose orribili o mansuete. [...] Nella magia la sostituibilità è specifica (30).

Nel pensiero illuminista invece andrebbero perse le differenze qualitative, in ossequio al procedimentto della matematica:

La molteplicità delle figure è ridotta alla posizione e all’ordinamento (31).

La sostituibilità specifica si rovescia in fungibilità universale (32).

Se a questo si aggiunge che sia la magia che la scienza sono pratiche dirette a scopi (33), si ottiene che la differenza consiste in uno spostamento del livello della ripetizione: se il pensiero mitico mediante il rito colloca l’uomo nel mezzo della ripetizione, quest’ultima viene isolata nel pensiero scientifico nell’ambito della natura dalla quale l’uomo stesso si estrania: avendo oggettivato il ciclo nella legge di natura, "egli si crede garantito come il libero soggetto"(34).

Ma per dare un’idea di come il discorso di Horkheimer e Adorno dal punto di vista analitico sia costantemente in bilico tra tensione dialettica e vera e propria autocontraddizione, può essere utile l’analisi del concetto di mana (35) nell’ambito della Dialektik, con riferimento ad una critica di Günther Rohrmoser riportata da Stefano Petrucciani nel suo Ragione e Dominio (36): "l’insistenza sulla progressiva deantropomorfizzazione e demitizzazione delle immagini del mondo ha spinto qualcuno a sospettare una curiosa identificazione dei nostri autori con la filosofia della storia positivistica, e segnatamente con quella comtiana; Günther Rohrmoser, nel suo Das
Elend der kritischen Theorie
, ha rilevato che tanto nella Dialektik der Aufklärung, quanto nella comtiana legge dei tre stadi, teologia e metafisica vengono considerate come forme "in denen sich die praktische Schranke der Überwindung der Abhängigkeit des Menschen von der Natur niedergeschlagen hat". In effetti, nella Dialektik, il mimetico, il metafisico, lo scientifico, compaiono quasi fossero stadi di sviluppo classificati alla maniera positivistica (37)[...]". Al contrario, secondo l’interpretazione da me fornita a p.3 (cfr. anche la relativa nota), nella Dialettica dell'illuminismo il rapporto pensiero razionale-mito è mantenuto dal punto di vista dialettico ad un buon livello di coerenza (38). Qualche problema comincia a sorgere quando gli autori introducono una nuova fase presentandola come precedente rispetto alla dicotomia mito-illuminismo: la fase del mana.

Il paragrafo in questione si apre con "cielo e terra erano strettamente legati" (39) e prosegue parlando di "torbida indistinzione del principio religioso, che nelle prime fasi note dell’umanità era venerato come mana" (40).

Ciò che il primitivo sente in essa come soprannaturale, non è una sostanza spirituale opposta a quella materiale [...]. Il brivido di terrore con cui è esperito l’insolito diventa il suo nome. (41)

Il concetto di mana è presentato come indistinto e precedente la stessa fase mitica, visto che, come assicurano Horkheimer e Adorno, quest’ultima contiene già in sè il suo opposto, il principio illuminista

Lo sdoppiamento della natura in apparenza ed essenza, azione e forza, che solo rende possibile il mito, come pure la scienza, nasce dalla paura dell’uomo [...]. (42)

Quindi si è posta una deduzione ("solo rende possibile") dell’origine di mito e illuminismo da uno sdoppiamento, che a sua volta deriva dalla paura; ma affermando subito dopo che "mana non è una proiezione" (43), si colloca allora questo concetto a metà strada tra ‘la paura’ e ‘lo sdoppiamento’. È esistita quindi una paura a cui l’uomo ancora non reagiva con la separazione tra uomo e natura, altrimenti la dichiarata specificità del mana rispetto alla fase che accomuna mito e illuminismo non avrebbe senso. Ma si legga la frase immediatamente successiva, e si resterà sorpresi:

La separazione di animato e inanimato, l’attribuzione di determinati luoghi a demoni e divinità, deriva già da questo preanimismo. In cui è già implicita la separazione di soggetto e oggetto.(44)

Di colpo mana non è più "la torbida indistinzione del principio religioso", ma entra a far parte a pieno titolo della dialettica di mito e illuminismo; Horkheimer e Adorno rinnegano così quel principio di mana come originario che avevano appena posto.

A questo punto è possibile considerare due diverse interpretazioni:

a)i due autori stanno in realtà sostenendo che considerando il mana dal punto di vista illuminista lo si travisa. Questa possibilità trova sostegno nel seguente passaggio: "Se l’albero non è più considerato come albero, ma come testimonianza di qualcos’altro, come sede del mana, la lingua esprime la contraddizione, che una cosa, cioè, è se stessa e insieme qualcos’altro da ciò che è" (45). Le espressioni ‘considerare un oggetto come qualcosa’ e ‘la lingua esprime la contraddizione’ sembrano riferirsi all’intenzionalità dell’Aufklärung. Ma se qui può sembrare che l’indistinto del mana non sia coglibile dal pensiero razionale se non come contraddizione, e quindi il mito e la scienza, in quanto hanno in comune (la separazione uomo-natura), sono in effetti altro dal mana, resta sempre insoluta la contraddizione originaria, dovuta all’asserzione che nel mana "è implicita la separazione di soggetto e oggetto" (46), che precede queste ultime osservazioni.

b)Possiamo vedere tutto questo ragionamento dal punto di vista opposto, come se Horkheimer e Adorno ponessero in realtà il mana come principio originario come una semplice ipotesi, solo per giungere poi a rifiutarlo, fedeli all’ottica dialettica per cui non può esistere un punto di partenza esterno, ma questa sarebbe un’applicazione del principio di carità che non trova nessun punto di appiglio nelle pagine in questione.

In conclusione, se nella Dialektik si può trovare non tanto un’eco di classificazione positivista, come sostiene Petrucciani, ma una deroga al principio dialettico di sviluppo della civiltà, questa sarà in relazione alla trattazione del preanimismo.

Per tornare alla trattazione vera e propria dell’illuminismo, si è visto che questo mira a esercitare un dominio sulla natura orientato ai bisogni dell’uomo, e considera qualunque credenza fondata sulla tradizione come pura ed inefficace superstizione. In questo modo esso esplicita e sviluppa il principio contenuto già in nuce nel mito: l'uomo e la natura sono separati, come si evince dalla pericolosità della natura. Ma l’uomo ha nella ragione un non illusorio strumento di difesa. Questa possibilità, già presente agli albori della civiltà occidentale, si presenta in tutta la sua forza a partire dalla nascita della concezione moderna della scienza e della tecnica. Il mutamento gnoseologico che ne deriva ha come principale punto d’approdo filosofico il positivismo logico, in cui il rovesciamento mitologico dell’illuminismo, sotto forma di tabù gnoseologico, diventa evidente.

Come già visto, se la continuità tra il mito e l’Aufklärung consiste nell’esigenza di dominare la natura, la diversità si trova nella posizione del soggetto rispetto al ciclo della natura, espresso dai francofortesi nel concetto di ripetizione (47) : la scienza, che con l’intento di eliminare l’illusione colloca la ragione all’altro polo rispetto alla natura, isola in quest’ultima la ripetizione sotto la forma di leggi. Natura diventa

ciò che bisogna concepire in termini matematici; anche ciò che non torna perfettamente, l’irrisolvibile e l’irrazionale, è stretto davvicino da teoremi matematici. Identificando in anticipo il mondo matematizzato fino infondo con la verità, l’illuminismo si crede al sicuro dal ritorno del mito. (48)

Ma concependo la natura a livello di oggetto, il pensiero stesso si pone come puro 'strumento' (49) finendo così a sua volta per reificarsi e porsi di nuovo al livello del mondo: si ha così una nuova mimesi, per la quale il soggetto si trova ad essere assoluto rispetto ciò che reifica, "la conoscenza si limita alla sua ripetizione, il pensiero si riduce a tautologia":

Il mondo come gigantesco giudizio analitico, il solo rimasto di tutti i sogni della scienza, è dello stesso stampo del mito cosmico [...]. (50)

Ma in cosa consiste infine questo rovesciamento dell’Aufklärung nel suo contrario? Secondo Petrucciani, "l’irrazionalità della coscienza mitica è identificata dal rischiaramento, nella proiezione irriflessa, nella pretesa ingenua che ciò che è prodotto dalla coscienza sia un oggetto indipendente, altro da lei; ma questa pretesa nutre l’illuminismo, quando considera la superstizione un’alterità irriducibile alla ragione. L’esecrazione di ciò che non rientra nei principi che il rischiaramento di volta in volta fissa è dunque la riproposizione di un arcaico tabù; la lotta contro la superstizione è una nuove superstizione, la cui funzione è quella di proiettare fuori dalla ragione quell’irrazionalità che in realtà la ragione stessa è, nel momento in cui, senza volerlo, la fissa come irriducibile trascendenza"(51). Adorno e Horkheimer sostengono che il ciclo dialettico della ragione si conclude nel mito, ma non certo nel senso che gli scienziati riconoscono e accettano consapevolmente l’eventuale residuo ritualistico del loro operare: non c’e nessun ripensamento dell’illuminismo in quanto blocco unico (com’è considerato di fatto dai due autori) su sè stesso. Infatti l’argomento principale a sostegno di questa parte più strettamente gnoseologica della più ampia Dialektik non si basa sullo sviluppo storico del pensiero:

L’illuminismo prova un orrore mitico per il mito. Di cui esso avverte la presenza non solo in concetti e termini confusi [...], ma in ogni espressione umana, in quanto non abbia un posto nel quadro teleologico dell’autoconservazione. (52)

Questa è sempre la stessa critica che era mossa alla mitologia omerica, a Platone e ad Aristotele, a Hume, Berkeley e molti altri, ed è l’impulso che ha accompagnato l’Aufklärung nel suo porsi come pensiero in continuo progresso: in vista del dominio sulla natura la ragione ha sempre depurato quegli aspetti del pensiero mitico che essa riconosceva nel suo passato proprio in base a questo impulso. Questa critica da sola non basta a spiegare il perché Horkheimer e Adorno identifichino nell’illuminismo la causa della sciagura della società contemporanea ("Ma la terra interamente illuminata splende all’insegna di trionfale sventura" o il presupposto legame tra pensiero scientifico e totalitarismo (53)). Infatti, perché questa dialettica potenzialmente pericolosa dell’illuminismo, esistente fin dagli albori della civiltà dovrebbe manifestarsi solo nel nostro secolo? La risposta va cercata nell’ascesa della classe borghese verso il potere sociale e nel suo rapporto con la ratio scientifica. Ma prima di passare al lato storico-sociale della Dialektik, rimangono alcune considerazioni importanti. La concezione dell’illuminismo dei pensatori francofortesi è fondata su una visione monolitica del rapporto tra la scienza e il più generale pensiero filosofico non dialettico. É probabile che questo sia dovuto, altre che alla pesante eredità nei due pensatori della critica romantica dell’illuminismo (54), anche alla contingenza dell’esilio negli Stati Uniti, dove il positivismo logico arrivato dall’Europa aveva trovato un terreno molto fertile (55). Questa corrente filosofica, che aveva in Carnap, Popper, Reichenbach i suoi maggiori esponenti, si fondava effettivamente "sulla valutazione della scienza quale attività conoscitiva per eccellenza. Proseguendo il filone illuministico settecentesco e quello positivistico ottocentesco il movimento neopositivistico o neoempiristico del nostro secolo rivendicava alla scienza – e soltanto ad essa – il compito essenziale di dirci com’è fatto il mondo, come funziona, quali leggi ci consentono di prevedere i fatti futuri" (56). La Dialektik è del 1944, e ovviamente i due autori non potevano immaginare che da lì a vent’anni sarebbe cominciata proprio all’interno del neopositivismo una fase di critica di questa visione della scienza. Certamente nè Horkheimer nè Adorno, pur con tutta la loro vis dialettica, potevano prevedere che un’istanza di revisione del dogma del ‘pensiero in continuo progresso’ sarebbe venuta proprio dall’interno del movimento direttamente erede dell’illuminismo e non solo dal pensiero dialettico di ispirazione hegeliana. Autori di questa svolta furono infatti personaggi come Quine, Kuhn, Lakatos e Feyerabend.

Ciò che mi preme rilevare è che questo movimento critico, rivolgendosi alla razionalità scientifica con strumenti diversi da quelli della Dialektik, mette in luce un importante limite di quest’ultima. Faccio riferimento in particolare all’opera di Paul K. Feyerabend, filosofo ed epistemologo il quale per il gusto della polemica aperta, per le frequenti riflessioni sulle implicazioni politiche del pensiero e per l’ostilità all’idea di Metodo, è almeno in parte paragonabile ad Adorno. In Contro il metodo (57), la sua opera più famosa, la filosofia della scienza è vista come entità radicalmente separata rispetto alla pratica della scienza: l’esplicitazione di un Metodo, cioè di ineludibili presupposti logici della ricerca scientifica, inteso a descrivere in modo neutrale il lavoro degli scienziati, produce soltanto fraintendimenti e dogmatismi, e se fosse effettivamente assunto come guida dai ricercatori, causerebbe la paralisi del pensiero scientifico. La prova che non esiste un metodo universalmente valido atto alla produzione di teoria vere (sia che si dia a questa espressione il significato tradizionale di rispecchiamento della realtà, sia che si abbracci una visione della conoscenza postempiristica e ipotetica come quella popperiana) e che lo sviluppo della scienza è sempre avvenuto contro questa pretesa, si trova nella storia stessa della scienza. I presupposti dell’empirismo logico (coerenza logica, invarianza dei significati, rispecchiamento dei fatti nella teoria, in sostanza gli stessi che la Dialektik rileva nell’illuminismo), sono smentiti in continuazione dalla pratica scientifica reale (58).
I singoli esempi riportati da Feyerabend relativi al lavoro concreto degli scienziati contemporanei nei laboratori sono numerosissimi, ma la prova determinante è la descrizione del lavoro di Galileo Galilei, padre indiscusso della moderna scienza sperimentale, e della vittoria della concezione copernicana su quella tolemaica.

Galileo sostituisce un’interpretazione naturale con un’interpretazione molto diversa e fino allora (1630) almeno in parte innaturale. In che modo procede? In che modo riesce a introdurre asserzioni assurde e controinduttive, come l’argomento che la terra si muove [...] ? Ci si immagina immediatamente che le asserzioni non bastino – ecco qua una limitazione interessante e molto importante del razionalismo – e i discorsi di Galileo sono in effetti argomentazioni solo in apparenza. Galileo si serve dei mezzi della propaganda.(59)

Ora, considerando l’insistenza di Adorno in tutte le sue opere sull’importanza e sulla funzione rivelatrice del ‘giudicare le cose dall’interno’, e del ruolo che vi riveste il richiamo al particolare, alla forza antisistemica dell’evento singolo (60), ci accorgiamo che la visione della storia della scienza cui fà riferimento la Dialektik, prescinde totalmente da questi presupposti. Le analisi particolari di Feyerabend mostrano invece che la razionalità positivista è in relazione dialettica-conflittuale non soltanto con il mito, ma anche con la scienza stessa cui essa si ispira; incanalare la complessità del progresso scientifico nella corrente che sfocia nell’empirismo logico significa imporre al primo una visione almeno parzialmente esterna e con ciò fare violenza a quei particolari cui Adorno fa continuamente appello (61).

Dal punto di vista della storia della filosofia la critica dell’illuminismo in quanto pensiero in continuo progresso riprende esplicitamente temi ed argomenti principalmente da Hegel e da Nietzsche. Per quanto riguarda il primo, come nota Stefano Petrucciani, l’impronta hegeliana si fa visibile "nel tema dell’invincibilità del rischiaramento, che troviamo non solo nella Dialektik, ma anche negli scritti di Horkheimer ad essa tematicamente affini [...]. Nella Dialettica dell'illuminismo non manca poi un richiamo a quell’altra pagina della Fenomenologia dove Hegel individua il pericolo di autodistruzione che minaccia la fede nel momento in cui questa tenta di sostenersi mediante una precisa ricostruzione di fatti storici: se, in questa ricerca, fa sul serio, ha già accettato il principio del rischiaramento"(62).

Quanto a Nietzsche, egli

ha compreso, come pochi dopo Hegel, la dialettica dell'illuminismo.[...] [Egli] vedeva nell’illuminismo sia il momento universale dello spirito sovrano, che si sentiva chiamato a condurre a compimento, che la forza '‘nichilistica'’ e ostile alla vita.(63)

La peculiarità della posizione nietzscheana consiste nell’accompagnare l’accettazione della parte critica dell’illuminismo ad una visione ‘disincantata’ dello stesso: anticipando la convinzione adorniana che la scienza parteciperebbe a quello stesso impulso di paura verso l’ignoto che caratterizza la religione, Nietzsche riconosce che "la ragione illuminata finisce per svelarsi essa stessa come mito, ed è quindi costretta a negare se medesima" (64).

1.1.2 La dialettica della borghesia.
Malgrado l’asprezza e la radicalità delle analisi della Dialektik, la posizione di Horkheimer e Adorno verso il progresso legato all’illuminismo non è quella di un rifiuto assoluto e regressivo (65). La particolarità e la complessità del loro concetto di Aufklärung non è affatto riducibile ad una " ‘summa’ di tutti gli ‘orrori’ e le idiosincrasie [...] di tutta la tradizione antiscientifica e antimaterialistica" (66). In realtà è gia chiaro in alcune dichiarazioni ‘programmatiche’ della "Premessa alla prima edizione" (67), che per gli autori l’illuminismo non debba scomparire per lasciare spazio, secondo un’ottica regressiva. a stadi precedenti di pensiero.

Non abbiamo il minimo dubbio – è la nostra petizione di principio – che la libertà della società è inseparabile dal pensiero illuministico. Ma riteniamo di aver compreso, con altrettanta chiarezza, che il concetto stesso di questo pensiero, non meno delle forme storiche concrete, delle istituzioni sociali a cui è strettamente legato, implicano già il germe di quella regressione, che già oggi si verifica ovunque. Se l’illuminismo non accoglie in sè la coscienza di questo momento regressivo, firma la propria condanna. Se la riflessione sull’aspetto distruttivo del progresso è lasciata ai suoi nemici, il pensiero ciecamente pragmatizzato [...] perde il suo rapporto alla verità.

La valutazione dell’Aufklärung è legata a quella sulla società. Per comprendere davvero l’importanza dell’illuminismo nella cultura passata e presente dobbiamo dunque capire quali sono i nessi attraverso i quali la relazione di questo pensiero con la società si è strutturata, prima in senso liberatorio e poi in senso repressivo. Dobbiamo cioè capire cosa i due autori intendono con l’affermazione che "l’illuminismo esprime il movimento della società borghese nel suo complesso sotto la specie delle sue idee, incarnate in persone ed istituzioni [...]" (68). L’intento dei francofortesi è portare l’Aufklärung a comprendere, in un ottica comunque progressiva, quella che loro considerano la sua svolta autoritaria.

Considerare in maniera analitica, cioè separando alcuni ambiti con l’intento di collegarli meglio ad altri contesti (nella fattispecie quello musicale) un testo come la Dialektik, può risultare molto complicato. Per illuminare il carattere positivo dell’Aufklärung, che a prima vista può in effetti apparire perso nei meandri dell’argomentazione dialettica (ma che è fondamentale per capire la relazione di Adorno nei confronti della società borghese (69)), sposterò brevemente l’attenzione su un testo meno complesso, che crediamo possa fare da ponte verso l’analisi della dinamica della classe borghese in Adorno: il saggio Progresso, contenuto nella raccolta postuma Parole chiave (70), nel quale l’autore si propone esplicitamente di proteggere la sua critica al positivismo "dal fraintendimento restauratore"(71). Il saggio prende il via dall’analisi della relazione del progresso con l’idea di ‘umanità’ in pensatori come Agostino, Benjamin, Kant, e ribadisce la complessità dialettica del progresso stesso, il fatto cioè che non possa essere isolato in un solo ambito:

I momenti in cui ha vita il concetto di progresso sono, secondo l’uso tradizionale, in parte filosofici, in parte sociali. Senza società la sua rappresentazione sarebbe del tutto vuota; i suoi elementi sono attinti da essa. Se la società non fosse passata dall’orda dedita alla raccolta di frutti o alla caccia, all’agricoltura, dalla schiavitù alla libertà formale del soggetto, dalla paura dei demoni alla ragione, dalla penuria alla difesa da epidemie e carestie e al miglioramento delle generali condizioni di vita, [...] l’idea di progresso [...] non avrebbe alcun contenuto. (72)

Allo stesso tempo però l’idea di progresso non si esaurisce nell’immanenza del mondo; essa contiene in se una spinta verso un concetto di umanità tale da portarlo in contrapposizione con il suo stesso contesto sociale:

[...] il progresso non è riducibile alla società, non è identico ad essa; così com’è, la società è a volte il contrario del progresso. [...] Il concetto di progresso è filosofico in quanto, mentre articola il movimento sociale, in pari tempo lo contraddice. Avendo nella società la propria origine, esso richiede un confronto critico con la società reale. (73)

Secondo Adorno, lo svolgimento sociale del progresso consiste in un primo momento libertario ("liberarsi dai ceppi del potere magico e tirannico" (74)) cui fa seguito un irrigidirsi ideologico, in cui il concetto in questione si cristallizza sulle sue implicitazioni fattuali e perde la capacità di riflettere su se stesso. Ma questo "irretimento nel pregiudizio naturalistico" non può avere l’ultima parola, in quanto l’idea di progresso "è senz’altro antimitologica per eccellenza", e il suo compito è comunque quello di riconoscere i suoi stessi limiti. (75)

Per quanto riguarda la collocazione storica della questione del progresso (ma come si vedrà tornando alla Dialektik la componente teorica è collocata in modo più elastico), Adorno nega che questo possa riferirsi all’antichità. Il progresso

si pose solo da quando divenne libera quella dinamica da cui poteva essere estrapolata l’idea della libertà. [...] Finchè la classe borghese fu oppressa, per lo meno nelle forme politiche, essa si oppose con la parola d’ordine ‘progresso’ alla situazione stazionaria dominante. (76)

Quest’idea di progresso divenne ideologia quando la borghesia ebbe occupato le posizioni di potere determinanti, e si rese conto che non poteva "realizzare la propria ragione, il proprio ideale di libertà, giustizia e immediatezza umana, senza che il suo ordinamento fosse stato eliminato". L’elemento che secondo Adorno trasforma il progresso nella sua negazione è il fondamento stesso della società borghese: lo scambio.

Nel ‘pari per pari’ di ogni processo di scambio, un atto riprende l’altro; il saldo è in pareggio. [...] Ma da tempo immemorabile, e non solo nell’appropriazione capitalistica del plusvalore nello scambio della merce forza-lavoro in cambio del suo salario di riproduzione, il contraente socialmente più potente riceve più dell’altro. [...] Le azioni sociali devono compensarsi reciprocamente nel sistema totale, eppure non lo fanno.(77)

Se l’uguaglianza come progresso della classe borghese diventa nella società borghese "menzogna dell’uguaglianza", l’idea che ne è alla base contiene ancora "la condizione su cui dovrà innalzarsi il progresso", "in cui si rende possibile la giustizia". La dinamica della borghesia tra processo di liberazione e assestamenrto repressivo è un punto comunemente riconosciuto dalla storiografia. Scive ad esempio Furet:

La borghesia [...] indica una classe di persone che attraverso la libera attività hanno progressivamente distrutto l’antica società aristocratica, fondata sulle gerarchie di nascita. [...] La borghesia non ha più un posto fisso nell’ordine economico, vale a dire nella comunità. Sta tutta nella categoria dell’economico. [...] Pur essendo una categoria sociale definita dall’economico, la borghesia sbandiera valori universali. [...] Porta alla ribalta l’autonomia dell’individuo contro le società fondate sulla dipendenza. (78)

Ma, nonostante questi valori universali, la società borghese produce dominio e disuguaglianza:

La dinamica della società borghese sta tutta nella contraddizione tra la divisione del lavoro, che è il segreto della ricchezza, e l’eguaglianza degli uomini, incisa sulle facciate degli edifici pubblici. [...] l’universalità degli uomini è definita dal rapporto con la natura attraverso il lavoro; ma il lavoro, realtà storica e sociale, si trova ad essere nella stessa epoca la maledizione del proletario, sfruttato dalla borghesia, che s’arricchisce a spese sue.(79)

Come si vede, le considerazioni adorniane sulla dialettica della borghesia si inseriscono pienamente nel filone di interpretazione appena delineato. Tuttavia, sempre prendendo spunto da questo tipo di interpretazione, è possibile mettere in luce due differenze rispetto ad essa nel pensiero di Adorno:

a) da un lato il filosofo francofortese pur evidenziando la collocazione storica della nascita del soggetto borghese, nella Dialektik si dedica a delinearne una sorta di ‘preistoria’ identificandone i tratti caratteristici già nella figura diUlisse;

b) dall’altro lato l’interpretazione storica è messa in relazione alla dialettica propria dell’illuminismo con l’individuazione di un nesso tra la svolta verso il dominio della ratio borghese e l’inadeguatezza del tradizionale concetto di scambio nella contemporanea società a capitalismo monopolistico.

a)

Il primo excursus contenuto nella Dialettica dell'illuminismo, "Odisseo, o mito e illuminismo", è basato in parte su an’analogia generale e in parte su considerazioni storiche. L’analogia consiste nel trovare aspetti dell’Odissea che richiamino la dialettica dell’Aufklärung, e quindi caratterizzare il personaggio di Ulisse in modo da farne una sorta di prototipo dell’individuo borghese.

Per quanto riguarda questo punto, "il poema si dimostra, specie nel suo strato più arcaico, legato al mito: le avventure derivano dalla tradizione popolare" (80). In relazione a questo materiale di derivazione mitica, quella compiuta da Omero sarebbe un’opera di ‘organizzazione’. Contro la comune equiparazione tra mito ed epos, i due autori ritengono che questi concetti si debbano riferire a due fasi contrapposte di un processo storico.

Nell’epos omerico,

il cosmos venerabile e pieno di senso dell’universo si rivela un prodotto della ragione ordinatrice, che distrugge il mito proprio in forza dell’ordine razionale in cui lo rispecchia.

Ma la scoperta di questo carattere ‘borghese-illuministico’, attribuita all’interpretazione tardoromantica tedesca, non è certo definitiva. Horkheimer e Adorno anche in questo caso si preoccupano di non irrigidire le contrapposizioni:

non c’è opera che testimoni in modo più eloquente dell’intreccio di mito e illuminismo di quella omerica, testo originale della civiltà europea. In omero epos e mito, forma e materia, non tanto divergono semplicemente quanto piuttosto si confrontano reciprocamente. (81)

All’interno di questo panorama di contrasti dialettici tra ‘vecchio’ e ‘nuovo’ si inserisce la figura di Odisseo, che rappresenta il soggetto in lotta per sottrarsi alla relazione mitica del dominio. Attraverso l’analisi di alcune vicende si mettono in risalto doti del protagonista che lo avvicinerebbero alla figura dell’individuo borghese. Nelle parole dello storico della scuola di Francoforte Martin Jay, famoso biografo di Adorno:

In strugglin’ against the mytic domination of fate, [Odysseus] was forced to deny his oneness with the totality. By necessity, he had to develop a particularist, subjective rationality to insure his selfpreservation. [...] His rationality was thus based on trickery and instrumentality. To Horkheimer and Adorno, Odysseus was the prototype of that paragon of Enlightenment values, modern "economic man". His treacherous journey anticipated the bourgeois ideology of risk as the moral justification of profits. (82)

Gli aspetti della personalità di Odisseo che confermano la validità dell’operazione sono: la capacità di autodominio (83) e l’astuzia, intesa come capacità di mediazione e aggiramento degli ostacoli, che conferiscono all’individuo debole (tale è infatti Odisseo in quanto isolato in balia delle forze mitiche) la possibilità di dominio della natura mediante adattamento. (84)

Dal punto di vista storico, l’attribuzione di aspetti tipici dell’economia borghese alla figura di Odisseo è più controversa. Il fatto che questi venisse presentato come signore terriero e mercante è ritenuto sufficente a collocarlo sulla linea di confine tra due diverse formazioni sociali, ma non legittimerebbe ulteriori collegamenti con la nascita di un soggetto di tipo propriamente borghese. Ma se da un lato questa critica sembra mancare il segno, in quanto ovviamente, trattandosi di un tentativo di costruire una genesi del soggetto borghese, la collocazione storica non potrà che individuare alcuni caratteri protoborghesi nel contesto di una società in sviluppo ma ancora marcatamente preborghese, dall’altro lato secondo Stefano Petrucciani "l’interpretazione adorniana sembra cogliere essenzialmente nel segno" (85). Petrucciani riporta la critica di Müller secondo il quale il mondo omerico (la Grecia dell’VIII secolo) era ancora alieno da quegli sviluppi economico-sociali che legittimerebbero le analisi adorniane, essendo ancora fondato sui legami immediati di signoria e servitù: "la nascita dell’individualità nel senso moderno va collocata più tardi, nel VII secolo [...]" (86). Oltre a ribadire che non bisogna limitare la realtà sociale a quella effettivamente descritta dal cantore (che secondo Petrucciani sarebbe quella a lui precedente), e che i segnali di novità vanno colti anche in aspetti che singolarmente si oppongono ad essa, l’autore afferma che la realtà sociale della Grecia omerica era invece effettivamente caratterizzata da un commercio marittimo sviluppato e dall’emergere di forme di organizzazione e di economia cittadina (87). Ulteriore merito storico della Dialettica dell’illuminismo sarebbe quello di offrire una visione più unitaria dei quella delle sue critiche: "l’individuo razionale capace di calcolare le sue azioni, di dominare i suoi affetti, di dissimulare i suoi pensieri e persino la sua identità, che Adorno individua in Odisseo, è il risultato di uno sviluppo sociale complesso e articolato, non riducibile né agli albori dello scambio di merci, né allo sviluppo dell’economia cittadina [...], e neppure le capacità tecniche che pure Odisseo possiede in alto grado [...]. Questi aspetti della civiltà e della mentalità dalle quali l’Odissea scaturisce, che sono al tempo stesso tratti della personaltà di Ulisse, non possono essere separati se non in modo arbitrario e falsificante." (88)

b)

Secondo Horkheimer e Adorno, la società contemporanea si delinea però come il frutto di un’ulteriore svolta, consistente nell’evoluzione da una fase ‘liberale’ ad una ‘monopolistica’(89) del capitalismo. L’emancipazione illuministica dell’individuo ha portato ad una società in cui il principio di autonomia dell’individuo stesso è cancellato, in favore dell’adattamento dei singoli alle esigenze dell’apparato tecnico-produttivo (90). A questo mutamento secondo la Dialektik corrispondono gli sviluppi più recenti del pensiero razionalista. Horkheimer ed Adorno si riferiscono evidentemente alle ricerche della logica formale:

il soggetto trascendentale della conoscenza viene liquidato, come ultimo ricordo della soggettività, e sostituito dal lavoro tanto più liscio dei meccanismi regolatori automatici. (91)

Secondo Adorno e Horkheimer, il carattere di ‘dominio’, inteso come mera appropriazione del lavoro altrui, è sempre stato presente nello sviluppo della società borghese, ma nella fase attuale sarebbe più esplicito per il manifesto fallimento del libero scambio. Il quadro proposto dai due filosofi è decisamente fosco: si parla di ‘mondo amministrato’, ‘società totale’, ‘trasformazione del mondo in industria’ per indicare il compimento della civiltà illuminista: la furia (a sua volta mitica, secondo gli autori) verso una sempre più completa separazione degli elementi soggettivi del pensiero in vista del dominio della natura, che si caratterizza per essere, in virtù della sua progressività, virtualmente inarrestabile, ha prodotto il superamento del concetto stesso di ‘soggetto’, in un tentativo di oggetivizzazione (di ispirazione matematica) del pensiero stesso (92). Secondo Tito Perlini "la ragione degrada se stessa a mera registrazione della datità": "il suo unico fine sta nella sua stessa mancanza di fini, consiste nel perpetuare un’attività coordinatrice dei dati che può invocare a propria giustificazione, tautologicamente, solo se stessa. L’attività coordinatrice della ragione persegue la neutralizzazione degli essenti su cui essa si esercita. [...] La tarda società capitalistica riceve da tali caratteristiche l’aspetto nichilistico che la contraddistingue". (93)

Le medesime implicazioni nichilistiche sono investigate in quelli che la Dialektik considera gli ‘scrittori neri’ della borghesia: Sade e Nietzsche. Questi avrebbero dimostrato l’insufficienza della ragione illuminista a produrre un qualsiasi fondamento alla morale, mostrando i limiti impliciti alla ragione formale. Il loro merito consiste nell’aver cominciato un’opera di illuminazione dell’illuminismo su se stesso (94).

Gli scrittori ‘neri’ della borghesia non hanno cercato, come i suoi apologeti, di palliare le conseguenze dell’illuminismo con dottrine armonicistiche. Non hanno dato a intendere che la ragione formalistica sia in rapporto più stretto con la moralità che con l’immoralità. [...] Proclamando l’identità di ragione e dominio, le dottrine spietate sono più pietose di quelle dei lacchè della borghesia. (95)

Le conseguenze del ‘mondo amministrato’ in quanto prodotto della fase attuale della dialettica dell’illuminismo sulla sfera della cultura (la cosiddetta ‘industria culturale’) saranno oggetto di studio del prossimo capitolo.

 

1.2. Su Husserl e Heidegger

Come si è mostrato sopra, il pensiero di Adorno non è critico nei confronti della scienza in sè (anzi l’illuminismo come progresso in positivo costituisce un punto irrinunciabile del pensiero dialettico), quanto piuttosto della pretesa totalitaria che informa il metodo cui il razionalismo si ispira: il carattere ideologico del positivismo, il suo assolutizzare la separazione di soggetto e oggetto e la conseguente riduzione del primo a elemento passivo nei confronti della ‘datità’, costituisce una sorta di luogo comune della filosofia contemporanea anche dove essa si propone come critica del processo di dominio tecnologico del mondo.

Nel campo del pensiero non positivista contemporaneo il bersaglio principale della critica adorniana è la fenomenologia husserliana (96). Il punto di approdo dell’evoluzione di questa critica è Zur Metacritik der Erkenntnistheorie (97).

Se "contro l’imperante e vuoto positivismo, più o meno scientifico, Husserl intendeva contrapporre la radicale rifondazione delle scienze" (98), secondo Adorno la fenomenologia conserva ancora verso il reale un atteggiamento positivistico, in particolare nel "celebre invito ad andare ‘alle cose stesse’", "privilegiante la percezione diretta del soggetto" (99):

Dies positivistische Kriterion hat sich in Husserl, vermöge der selbst zunächst gleichermaßen positivistischen Forderung reiner Bewußtseinimmanenz, mit dem subjektiv-idealistischen verbunden und dadurch die These vom geistigen Ansichsein, den Wesenheiten als einer Gegebenheit sui generis auskristalliert: die Phänomenologie ließe sich als der paradoxe Versuch einer theoriefreien Theorie definieren. (100)

La mancanza della fenomenologia consisterebbe nel fatto che, nell’ottica di descrittività che la caratterizza, i cosiddetti ‘dati di fatto’ della pura coscienza non avrebbero nulla a che fare con il processo della conoscenza, ma sarebbero funzionali alla costituzione, "im Rahmen der Reduktion" (101), di un’unità strutturale. Pur di non rinunciare alla possibilità della classificazione dei ‘contenuti di coscienza’, Husserl adotta la stessa separazione, ideale della conoscenza "an der Wissenschaft gebildet", tra elemento logico ed elemento empirico, optando infine per la predominanza di quello logico. Per quanto la contraddizione tra l’appello ai fatti e la richiesta di una purezza positivistica dei contenuti ("die positivistische Gediegenheit der Sachverhalt") introduca, secondo Adorno, una sorta di "Dialektik wider Willen" nella riflessione fenomenologica, lo scopo di Husserl rimane sempre quello di ricondurre i risultati della ricerca ad una ‘übereinstimmung’ con il tradizionale principio di noncontraddizione. Ma l’opera di Husserl, che Adorno definisce come "traslazione del positivismo a realismo platonico" (102), è destinata al fallimento:

weder läßt sich die positivistische Forderung purer Gegebenheit in die der bloßen Hinnahme idealer Sachverhalte umsetzen, noch gar Idealität, Begriff, Logos als Gegebenheit interpretieren. [...] Der Husserlsche Reflexionphilosophie ist die Identität der Extreme [...], nur als selber unvermilltelbare, nicht als wiederum begrifflich vermittelte erträglich. (103)

A partire dalle Logische Untersuchungen il concetto di ‘dato’ nella filosofia di Husserl è direttamente riconducibile alla teoria della conoscenza empiristica e positivista, oscillando tra osservazione basata sui sensi e fatti di coscienza intesi come essenza immediata di ogni esperienza (104). Il privilegio del dato nel descrittivismo fenomenologico riflette l’assolutismo logico a discapito dell’effettivo pensiero soggettivo: "la logica ‘assoluta’ [...] si trasmuta in razionalità indiscutibile nella misura in cui si dispiega autonomamente, si sviluppa in se stessa, contiene già tutta se stessa nelle sue possibilità future: il ‘soggetto’ le è estraneo, il pensiero si annulla" (105). Come si è visto a proposito dell’Aufklärung, secondo l’ottica adorniana nell’epoca del capitalismo monopolistico l’ipostatizzazione del formalismo logico è un’operazione ideologica, un mascheramento della realtà dell’asservimento dell’umanità al principio dello scambio. La fenomenologia non sfugge a questa regola.

Questo giudizio di Adorno è oggetto di una serrata critica da parte di Giangiorgio Pasqualotto in Teoria come utopia (106). Secondo Pasqualotto, anche se le aporie rilevate dal filosofo francofortese nel pensiero fenomenologico sono reali, è invece scorretto l’atteggiamento "ingenuo" e "utopico" (107) con cui si tenta di dialettizzare i risultati della filosofia husserliana. Adorno interpreterebbe come regressivi quegli stessi aspetti della fenomenologia che invece la pongono (secondo il giudizio di Pasqualotto) all’avanguardia tra le filosofie borghesi, proprio in quanto essa è "programma di dominio sul mondo, riduzione delle cose a ‘oggetti ideali’, a ‘essenze’, a ‘verità in sé’, in funzione di una maggiore manipolabilità delle stesse" (108). Secondo Pasqualotto, il merito di Husserl sarebbe il tentativo di fondazione scientifica della logica. Al contrario, l’ostacolo maggiore al riconoscimento di questo merito sarebbe l’ostinazione del carattere valutativo, etico della dialettica adorniana: "Adorno finisce per dimenticare che l’etica blocca la possibilità della chiarezza scientifica."

Se la critica adorniana alla fenomenologia, per ammissione dello stesso Pasqualotto, coglie nel segno, è evidente che l’attacco di quest’ultimo nei suoi confronti è caratterizzato da un certo fastidio rispetto all’idea di un pensiero critico verso la realtà attuale. Questo atteggiamento è riflesso sia dal frequente caratterizzare come ‘ingenuo’, ‘regressivo’, ‘utopistico’ e ‘inutile’ lo slancio etico di Adorno, sia in alcune mistificazioni del suo pensiero. Ad esempio, non è vero che "Adorno e, in generale, la Scuola di Francoforte, si esclude dalla possibilità di cogliere la scienza come uno dei fattori chiave dello sviluppo economico e sociale della ‘civiltà’ capitalistica" (109). Infatti, come ho mostrato nel paragrafo precedente, già nella Dialektik, ma in modo del tutto esplicito nel saggio Progresso, per Adorno il giudizio sulla positività del pensiero scientifico è scontato tanto quanto l’esigenza di ‘porre in movimento’ le aporie in cui questo si è incagliato nella società borghese avanzata. Inoltre affermare che l’arretratezza di Adorno consiste nel fare ancora ricorso al sorpassato pensiero dialettico, e poco dopo (p.100) sostenere che "l’utopia di Adorno concorda, alla fine, con quella dell’Husserl delle Ideen: mantenimento della capacità critica della soggettività fondata sull’autonomia del soggetto, sulla soggettività trascendentale come condizione del mondo", significa non tener conto proprio della dialetticità del pensiero critico, di quella costante tensione verso l’abbattimento dell’ipostatizzazione del dualismo gnoseologico e delle sue conseguenze nella sfera del dominio sociale che caratterizzano gli scritti del filosofo (110).

Molto più inserita nel contesto del pensiero di Adorno è la lettura della Metakritik di Tito Perlini (111), che non rinuncia a mettere in evidenza le implicazioni sociali della fenomenologia: Husserl persegue un assolutismo logico che "lo induce a mitizzare la ragione come facoltà su cui si fonda essenzialmente l’autonomia dell’individuo", occultando i condizionamenti sociali cui esse è sottoposto: "il preteso disoccultamento husserliano della verità, occulta la realtà sociale in cui gli individui sono implicati, e, con essa, l’alienazione che pervade di sé la sfera sociale"(112). Nella critica di Adorno l’assolutismo logico perseguito da Husserl si collega alla ricerca di un primum immediato, di un originario a scapito della particolarità e del diverso, e in questo presenta pericolose analogie con le ideologie totalitarie: "Il privilegiamento dell’elementare (che è insieme lo scientificamente semplice e il mitico-originario) ha reso un ottimo servizio alla mentalità che trova il proprio trionfo nei sistemi totalitari. Il fascismo, in fondo, ha cercato di porsi come la realizzazione integrale della prima philosophia. Ha il diritto a dominare ciò che è più antico. Da questo al delirante culto delle potenze primigenie il passo è breve" (113). Questo è l’ambito concettuale in cui si comprende come il ‘carattere regressivo’ della fenomenologia sia riconducibile al tentativo di sottrarsi all’immanenza sociale.

Il carattere apologetico dell’ontologia nei confronti dell’ordine esistente è l’elemento centrale anche nel pensiero di Heidegger, che Adorno sottopone nella Dialettica negativa (114) ad una serrata analisi.

Il pensiero di Heidegger costituisce uno sviluppo di quello di Husserl in quanto prescinde dalla ricerca del metodo e dall’intento classificatorio: in Heidegger, avendo tagliato i legami con la critica della conoscenza, "la dogmatica diventa semplicemente una saggezza superiore, contro la tradizione della sua critica" (115). L’arcaismo di Heidegger è la volontà di evitare le aporie del pensiero razionalistico (la separazione di pensiero e realtà) postulando uno stadio precedente a quello critico. Ma in questo modo l’essere, antecedente alla divisione tra concetto e fatto, è "esente da critiche. In qualunque punto vengano esercitate, possono essere respinte come malinteso" (116). Per Adorno le implicazioni di questo "bisogno ontologico" sono inequivocabilmente regressive:

l’ontologia vorrebbe, a partire dallo spirito, ricostituire l’ordine e la sua autorità fatta saltare dallo spirito. L’espressione progetto tradisce l’inclinazione a negare la libertà a partire dalla libertà: la cogenza transsoggettiva viene affidata ad un atto di soggettività ponente. Lo Heidegger della maturità potè cancellare questo controsenso troppo evidente soltanto in modo dogmatico. (117)

L’ontologia si configura come il richiamo verso una garanzia stabile per un’umanità esclusa dalla possibilità di realizzare se stessa nella dinamica storica.(118)

Rispetto a quanto mostrato sopra, l’analisi di adorniana di Heidegger è criticata da Pasqualotto con termini ancora più duri. Di nuovo, la colpa di Adorno sarebbe di vedere nell’ontologia dell’esistenza "soltanto la nostalgia di un ritorno alla purezza", e non "il coraggio [...], la decisione di far chiarezza, una volta per tutte, sul ‘destino’ della filosofia, sulla sua tragedia" (119).

La ‘tragedia’ si rivelerebbe in quella che Adorno chiama "ontologizzazione dell’ontico" (120), concetto heideggeriano che per Pasqualotto "descrive pienamente il presente del tutto inautentico e ne prefigura l’aspetto futuro" (121).

Nelle pagine di Dialettica negativa l’ontologizzazione dell’ontico è presentata come un inganno volto a reprimere la dialettica di essere e essente, presente in Heidegger sotto forma di ‘differenza ontologica’. Il ‘capolavoro strategico’ con cui si vorrebbe risolvere il problema della differenza ontologica è in realtà un circolo:

lo stato di necessità dell’ontologia dovuta al fatto di non poter prescindere da ciò che le è contrapposto, l’ontico; la dipendenza del principio ontologico dalla sua controparte, lo scandalo inevitabile dell’ontologia, ne diviene parte integrante. Il trionfo di Heidegger sulle altre ontologie meno acute è la ontologizzazione dell’ontico. Il fatto che non c’è essere senza essente viene riformulato nel senso che all’essenza dell’essere appartiene l’essere dell’essente. Così una verità diventa falsa: l’essente diventa essenza.(122)

Per usare i termini della dialettica dell’Aufklärung, l’ontologizzazione dell’ontico è l’equivalente del procedimento con cui la ragione illuminata si appropria dell’oggetto: la risoluzione dell’essente nell’essere non è possibile se non prescindendo dall’aspetto che caratterizza l’essente in quanto tale, ovvero il suo essere refrattario alla classificazione. Ma "essente" è anche il concetto con cui si indicano i singoli essenti effettivi, e in quanto tale rappresenta il concetto di non-concettualità; perciò secondo Adorno il concetto di ‘differenza ontologica’ viene risolto surrettiziamente con un ‘salto linguistico’:

poiché ‘l’essente’ è il concetto per ogni essente, l’essente stesso diventa concetto, struttura ontologica, che trapassa senza soluzioni di continuità in quella dell’essere.[...] Dalla definizione di, essente qui, esistente in quanto tale, grazie ai concetti esserci ed esistenza salta fuori che proprio quel che nell’essente qui non è essenziale, non ontologico, è ontologico. La differenza ontologica viene eliminata grazie alla concettualizzazione del non concettuale in non-concettualità. (123)

La funzione del concetto di differenza ontologica nel pensiero heideggeriano sarebbe dunque, previo questo ‘addomesticamento’ dell’ontico (ovvero in termini più vicini ad Adorno, del particolare, del singolo, dell’oggetto) quella di neutralizzare la portata del pensiero critico. In questo senso si comprende l’affermazione secondo cui l’ontologia dell’originario "pone la domanda più in alto della della risposta; laddove essa resta debitrice di quanto ha promesso, ha da parte sua elevato il fallimento ad esistenziale, in modo consolante" (124): "al posto di qualsiasi istanza critica per l’essere si ha la ripetizione del puro nome" (125). Così il pensiero di Heidegger, in quanto propone una visione unitaria di ciò che nella realtà è diviso, acquista un carattere mitologico (fermo restando il concetto di mito nell’Aufklärung come "unità ingannevole dell’inseparato" (126)), e conseguentemente sarà portato a considerare la storia della filosofia, in quanto luogo del lavoro critico del concetto, come "storia di una decadenza" (127).

Il giudizio di Adorno sulle implicazioni politiche di questa filosofia è molto netto:

l’ontologizzazione della storia permette di attribuire alla potenza storica irriflessa la natura di potenza dell’essere e così di giustificare la subordinazione a situazioni storiche, come se fosse imposta dall’essere stesso. (128)

Nel cielo oscurato della dottrina esistenziale [...] dell’idea eterna, cui l’essente dovrebbe partecipare o da cui dovrebbe essere prodotto, non è rimasto altro che la nuda affermazione di ciò che comunque è già: affermazione di potere. (129)

Secondo Pasqualotto, nessuna di queste analisi del pensiero di Heidegger è valida e anzi le critiche mosse all’ontologia dell’esistenza andrebbero più proficuamente ribaltate contro Adorno stesso: "Heidegger non regredisce affatto a mitologia e ad archeologia, ma chiarisce una situazione presente, descrive una condizione irreversibile" (130). Coerentemente con questa visione, il merito di Heidegger sarebbe mostrare, in virtù di questo appello avalutativo al ‘Dato’, "la ‘miseria’ dell’utopia che nutre ogni forma di ‘filosofia di sinistra’, di ‘filosofia concreta’, di Teoria Critica, di Dialettica Negativa" (131), oltre che, prosegue Pasqualotto, "l’impotenza, ormai cronicizzata, della filosofia critiche e delle culture ‘alternative’" (132). Queste critiche provocano inevitabilmente una domanda: se sia Adorno sia Heidegger giungono, più o meno consapevolmente, alle stesse conclusioni sulla reificazione della società, cosa dovrebbe impedire al primo di assumere verso di essa una posizione ragionevolmente critica? In realtà, ritengo che nel caso di Pasqualotto siamo di fronte non tanto ad una critica immanente al contesto concettuale di Adorno quanto piuttosto ad una presa di posizione politica che travalica l’intento propositivo (e non dogmatico) del concetto di utopia nella teoria critica (come spiega qualunque manuale di filosofia); quindi sottovaluta (come già si è mostrato con Husserl) la pervasività del concetto di dialettica in Adorno; e infine non entra nel merito della vastità di analisi che portano il filosofo francofortese alla formulazione del giudizio di ‘regressività’ per il persiero di Heidegger. Mi riferisco nello specifico al Gergo dell’autenticità (133), in cui Adorno analizza il linguaggio in cui si esprimeva in Germania il ‘bisogno ontologico’ tra gli anni ’20 e ’50, fornendo al pensiero di Heidegger e dei suoi seguaci una circostanziata collocazione storico-sociale. Ritengo che la lettura di questo volume sia necessaria per la comprensione di molti passaggi della critica ad Heidegger e all’ontologia contenuta nella Dialettica negativa(134), e che in questo caso la pretesa di Adorno, riportata da Martin Jay, secondo cui il significato di ciascuna sua opera "poteva essere inteso soltanto attraverso una reale comprensione di tutte le altre" (135) possa effettivamente aiutare a non sottovalutare le sue critiche, e la vastità di connessioni e riferimenti in cui queste sono inserite.

 

 

 

1.3. La dialettica hegeliana

Come ho mostrato sopra, per Adorno la teoria scientifica della conoscenza esige la riduzione del pensiero a ‘metodo’, e la filosofia, da quando ha concentrato le sue energie sulla concezione razionalista della conoscenza, non ha fatto che avallare l’irrimediabilità della separazione del Soggetto e dell’Oggetto. La discipina scientifica contemporanea, ponendo la priorità dell’oggetto in modo ‘ingenuo’, otterrebbe l’autoannullamento del soggetto.

La funzione del pensiero è stata posta nella storia della gnoseologia sia come adattamento passivo del soggetto all’oggetto, sia viceversa come funzione creatrice dell’oggetto stesso cui imporrebbe le proprie leggi. La conseguenza di questa posizione è la teoria della verità come ‘residuo’: la verità è ciò che resta dopo l’eliminazione del soggetto.

Ora, se anche in Adorno per il pensiero l’attenzione all’oggetto dovrebbe essere prioritaria, è evidente che il pensatore francofortese dovrà fare riferimento ad una tradizione filosofica in grado di garantirlo dalla rigidezza del dualismo razionalista.

Nel saggio Annotazioni sul pensiero filosofico (136) Adorno condensa le sue critiche e le sue esigenze in materia di pensiero. Oltre alle consuete osservazioni sulla limitatezza della ragione scientifica, l’autore si focalizza sul bisogno di fissare la predominanza dell’oggetto nella filosofia "in un contesto di mediazione reciproca di soggetto e oggetto" (137). Nelle pagine del saggio Adorno sostiene tra l’altro che anche in Kant si troverebbe la medesima esigenza di agganciare il pensiero alle cose; pur avendo Kant centrato la sua analisi della conoscenza sulle forme a priori del soggetto, "ciò non pertanto essa cerca il suo scopo nella determinazione dell’oggettività. Nonostante la rivoluzione copernicana e attraverso di essa, Kant conferma senza volerlo la priorità dell’oggetto" (138).

Ma chi ha realmente superato la scissione tra ciò che viene pensato e il come viene pensato è Hegel, al quale nel saggio in questione viene riconosciuto il merito di non concepire la riflessione filosofica come un ‘percorso automatico’ "in cui il soggetto sia sì facilitato, ma non risulti neccessario" (139), e di sciogliere la distinzione scientifica tra processo e risultato portandola a contatto con l’esperienza della cosa. In questo modo viene a cadere anche la teoria della verità come residuo, sostituita da quella di una verità come ‘divenire’: "Hegel si è rappresentato la verità come processo e risultato, in un tutto unico differenziato" (140). La filosofia hegeliana rappresenta dunque per Adorno un vero e proprio punto di svolta nella storia del rigido dualismo soggetto oggetto:

I pensieri, quelli veri, è necessario che si rinnovino incessantemente per l’esperienza della cosa, che tuttavia si determina soltanto in essi. [...] La meschinità degli innumerevoli trattati filosofici che non si preoccupano affatto di ciò è più di una semplice insufficienza estetica: è indice della loro falsità. Se il pensiero filosofico, persino in opere importanti, ricade al di qua dell’ideale del rinnovamanto incessante a partire dall’esperienza della cosa, soccombe. Pensare filosoficamente equivale a pensare per intermittenze, ad essere disturbati da ciò che è diverso dal pensiero. (141)

Analoghi riconoscimenti all’attenzione dimostrata da Hegel in polemica con il pensiero ‘astratto’ (142) a favore di un fondamento concreto della conoscenza si trovano nella dodicesima lezione riportata in Terminologia filosofica (143), nella parte in cui si mette sotto critica il concetto di ‘profondità’ presente nella rappresentazione comune, che sarebbe portata a classificare come ‘profondo’ quel tipo di pensiero che si ritrae interamente nella soggettività (l’immagine del sapiente che "contempla il proprio ombelico" (144)). Ovviamente, precisa Adorno, in un contesto dialettico (lo si è visto anche a proposito della Dialettica dell'illuminismo) questa immagine non è del tutto infondata, dato che la separazione del soggetto e dell’oggetto e la conseguente concentrazione del soggetto su se stesso sono momenti imprescindibili dell’evoluzione del pensiero. Il punto critico è che la pretesa di questa riflessione di porsi come autosufficiente sfocia inevitabilmente in una ‘falsa profondità’ (145):

uno dei punti essenziali della filosofia hegeliana consiste proprio nella tesi che la profondità del soggetto si costituisce solo in quanto si aliena da se (come dice Hegel) e cioè esce da se e entra nell’altro.

Infatti, quanto più il soggetto si isola, tanto più è costretto ad escludere da sé i contenuti del pensiero. Ma gli oggetti del pensiero non sono separati dal pensiero stesso in modo assoluto (infatti soggetto ed oggetto si mediano l’un l’altro); il soggetto si trova dunque sprofondato nell’astrazione del proprio concetto, e la proclamata ‘profondità’ della riflessione soggettiva si risolve in mera tautologia.

Se è vero che la profondità del pensiero non viene conquistata con la pura autoriflessione astratta, ma nel rapporto con l’oggetto (e questo è veramente del buon Hegel), l’oggetto deve essere preso allora nella piena mediazione e concretezza con cui ci è dato.(146)

Se nelle parole dello stesso Adorno il debito intellettuale verso Hegel è così profondo, bisognerà, come sottolinea Sergio Moravia, mettere in luce la predilezione dell’autore verso la parte antisistematica di Hegel stesso, quindi verso la Fenomenologia dello spirito, verso "il pensatore ‘dialettico’ contro quello ‘sistematico’, colui che ha contrapposto il ‘travaglio del negativo’ all’opaca staticità del positivo, all’estrinseca astrattezza e falsità del particolare se avulso alle connessioni e al processo cui appartiene". (147)

Nei Tre studi su Hegel, in particolare nel primo, "Aspetti della filosofia hegeliana", possiamo seguire le argomentazioni con cui Adorno opera questa scelta riscattando Hegel dall’accusa di chiudere il pensiero dialettico nel sistema.

Contenuto del saggio è l’esposizione e l’interpretazione di quello che nell’ottica adorniana si configura come il paradosso di Hegel e dell’idealismo: come mai un pensiero che è in grado di comprendere e superare la scissione tra soggetto e oggetto, che ha una grandissima attenzione per il particolare e l’individuale (148), e che vede in esso l’elemento motore della riflessione possa sfociare nell’affermazione dogmatica del Soggetto e nella predominanza del Tutto in quanto sistema sui suoi momenti particolari.

Innanzitutto, il sistema hegeliano si caratterizza per la sua organicità: non c’è al di fuori di esso nessun principio primo o alcuna massima da cui questo si lasci dedurre; il sistema vive solo nella connessione e nella mediazione dei suoi singoli elementi. Ma questa stessa mediazione non ha nessuno spunto ‘armonicistico’, non costituendo una via di mezzo tra gli estremi. Essa si raggiunge infatti "attraverso il passaggio fra gli estremi in quanto tali" (149). All’organicità del pensiero hegeliano va il merito del superamento del dualismo soggetto-oggetto:

La scomposizione statica della conoscenza in Soggetto e Oggetto, che pare cosa che s’intenda da sé alla logica della scienza oggi accettata; quella teoria della verità come residuo, [...] viene centrata nella sua vacuità dalla critica hegeliana; e colpita a morte quando egli non le contrappone nessuna unità irrazionale di Soggetto e Oggetto, bensì [...] li comprende di nuovo come mediati l’uno all’altro. (150)

La Dialettica è questa costanza nel "far venire in congiunzione la coscienza critica della Ragione rispetto a se stessa e l’esperienza critica degli oggetti" (151), nella misura in cui non si tramuta in un vero e proprio principio ontologico e metodologico.

Il rapporto con l’Idealismo si configura come problematico. Se da una parte Hegel, configurandosi il suo sistema come una totalità dinamica di forze tra loro in contraddizione, si pone di fatto come superatore del lavoro di Fichte con la rinuncia all’affermazione di un ‘principio originario’, dall’altra parte egli non rinuncia all’idealismo. Ciò significa che malgrado tutte le attenzioni e le precauzioni a che un principio non si assolutizzi rispetto all’altro e a cogliere la realtà come ‘mediazione’, Hegel afferma la predominanza del Soggetto nella costituzione del mondo: "il Soggetto-Oggetto hegeliano è Soggetto" (152). In questo modo si crea un contrasto tra il principio dell’irriducibilità del momento empirico a quello soggettivo e il principio d’identità, fondamento delle dottrine idealiste, per cui "ogni esserci si lascia risolvere senza residuo nel suo concetto". (153)

Se Adorno presenta questa situazione come invalicabile, come prova di fatto del fallimento della filosofia hegeliana, d’altra parte la contraddizione di questo sistema presenta in sé i germi del suo stesso superamento: "la filosofia di Hegel è non-vera stando alla sentenza del suo proprio concetto. Come mai essa è purtuttavia vera?". (154)

Esiste dunque, come abbiamo appena visto, una sorta di principio fondativo nel sistema hegeliano, il quale non entra in rapporto dialettico con il suo opposto, ma si presenta come illimitato e assoluto (libero, nella terminologia hegeliana): lo Spirito che, "senza lasciarsi fissare cosalmente, regge e domina la filosofia hegeliana nel suo complesso" (155). Questo è caratterizzato (Adorno riprende una definizione dell’Enciclopedia delle scienze filosofiche) come "essenzialmente attivo, producente" (156). In quanto lo Spirito viene posto come assoluto, cioè produttività separata dai suoi rilievi concreti, abbiamo un’ipostasi del concetto astratto; ma se si tiene conto del fatto che la dialettica in quanto tale non può assolutamente rifuggire dal contatto con il concreto, e che anzi la capacità produttiva del soggetto è un suo momento essenziale, troviamo che lo Spirito rappresenta (al di là dalla reale intenzione di Hegel e anche in contrasto con essa) il lavoro sociale.

Questa lettura ‘sociologica’ dello Spirito, nella quale Adorno vede una possibilità di interpretazione della contradittorietà del sistema hegeliano, provoca a sua volta una contraddizione. Infatti, non è possibile prescindere dal fatto che Hegel era in realtà un ‘analitico trascendentale’, considerava la sua opera come il completamento di quella di Kant e di Fichte ed assegnava alle sue categorie lo statuto di costituenti trascendentali. Anche in questo caso secondo Adorno si tratta di una contraddizione superabile. Infatti, "ogni interpretazione hegelista ha insistito giustamente sul fatto che nella sua filosofia i momenti capitali, che in essa si distinguono, sono sempre, ciascuno singolarmente preso, anche l’Intero" (157). Questo vale anche per il rapporto Spirito-società. La società non si configura come un mero prodotto dello spirito, ovvero qualcosa di separato da esso: significherebbe fare ricorso ad una dimensione "logico-trascendentale di ‘costituente’ e ‘costituito’" (158), in un’ottica dunque di assolutezza, nel senso di non-mediazione.

L’analogia induce riferimenti ancora più stretti: secondo il principio della equivalenza del lavoro sociale, il lavoro è lavoro "solo come un per-altro, commensurabile con altro, come un procedere oltre l’accidentalità del soggetto singolo soltanto".

Il riportare il movimento produttivo dello spirito a un Soggetto universale, anzichè alla singola persona dell’individuo lavoratore, definisce il lavoro come organizzato o sociale; la sua specifica ‘razionalità’, l’ordinamento delle funzioni, è un rapporto sociale.(159)

In quanto è leggibile come principio dell’organizzazione del lavoro individuale, la società è astratta nello stesso senso in cui il soggetto assoluto trascende i suoi momenti empirici, e quindi entrambi partecipano della stessa razionalità: "ad ogni passo il pensiero inciampa nella società; e mai che gli riesca di inchiodarla come una cosa tra cose" (160). Il pensiero concepito soggettivamente si ritiene separato dall’oggetto sul quale opera (161) allo stesso modo in cui il lavoro si rapporta alla sua materia prima.

Con ciò siamo arrivati al punto nodale dell’interpretazione delli’idealismo hegeliano: se Spirito e lavoro hanno la stessa razionalità, collocare la visione del lavoro nel suo ambito sociale metterà in luce da una parte la natura sociale dell’idealismo, e dall’altra la posizione di Hegel verso la società in cui viveva.

Ma separare il concetto di lavoro dalla sua relazione con la natura, conseguenza implicita della sua equiparazione al Soggetto assoluto, significa contraddire il principio di mediazione, misconoscere la distinzione tra valore d’uso e valore di scambio e dunque cadere in pieno nell’ideologia borghese del lavoro. Adorno si riferisce alla marxiana Critica del programma di Gotha: è un errore attribuire al lavoro il carattere di fonte di tutte le ricchezze, perché in realtà parte della ricchezza, cioè il valore d’uso, è fornita ineludibilmente dalla natura. Dunque soltanto se l’uomo è in contatto con la natura il lavoro produce ricchezza. Nella società borghese la divisione del lavoro fisico da quello intellettuale sancisce il dominio della classe proprietaria dei mezzi di produzione su quella la cui unica possibilità è la propria forza lavoro, la capacità di manovrare la materia:

Coloro che dispongono del lavoro altrui gli ascrivono dignità per sé, quella assolutezza ed originarietà, solo perché il lavoro è un lavoro per altri. Metafisica del lavoro e appropriazione del lavoro estraneo sono complementari. Questo rapporto sociale detta la non-verità in Hegel, il mascheramento del Soggetto come Soggetto-Oggetto, il misconoscimento del Non-identico nel Totale, come anche nella riflessione che ogni giudizio particolare risulta al Soggetto solo l’essere divenuto di ciò che è il Suo. (162)

In una pagina della Dialettica negativa, in cui l’intento critico verso Hegel è molto meno smorzato rispetto ai Tre studi, questo pensatore è inserito a pieno titolo in quel diffuso ‘bisogno di sistema’ della borghesia che Adorno interpreta come ‘funzione compensatoria’, incapacità di "accontentarsi delle membra disiecta del sapere" (163) e volontà di esigere un sapere assoluto:

la stessa ratio che aveva distrutto, in concordanza con l’interesse della classe borghese, l’ordine feudale e la corrispondente forma della riflessione, l’ontologia scolastica, ebbe subito paura del caos di fronte alle macerie, sua opera. [...] La ratio borghese si propose di produrre al suo interno l’ordine che aveva negato all’esterno. [...] Un tale ordine prodotto in modo insensato-razionale fu appunto il sistema: qualcosa di posto, che si presenta come un essere in sé. (164)

Infatti, l’ipostatizzazione del lavoro come l’Assoluto decreta il fallimento del principio di identità dell’idealismo. Tuttavia Adorno individua in questo fallimento una sorta di capacità premonitrice (165) nei confronti del destino della società borghese: il sistema conciliato, assoluto, sarebbe una valida descrizione della situazione del cosiddetto ‘mondo amministrato’, il capitalismo nella fase monopolistica (166). Questa osservazione permette ad Adorno una lettura in chiave più apologetica del lato ‘regressivo’ di Hegel. La stessa filosofia dello Stato sarebbe "un atto di violenza necessario": avendo riconosciuto la società civile come intrinsecamente antagonista, senza una teoria autoritaria dello Stato la tesi dell’identità assoluta del soggetto non avrebbe potuto reggere.

La medesima dinamica di dialettica e dogmatismo si trova nel rapporto Particolare-Universale (fondamentale fra l’altro per l’interpretazione adorniana di Beethoven), che Adorno riconduce ancora una volta alla società borghese, fondata sulla contraddizione tra il considerare l’individuo come produttore autonomo e la realtà degli uomini sottomessi alle esigenze della produzione. Anche il fatto che Hegel prescriva "espressamente agli uomini di sottomettersi [...] ad una necessità a loro estranea"(167), è indice, secondo il tratto tipico di Adorno nei Tre saggi su Hegel, consistente nell’alternare obbiettiva lettura analitica e volontà apologetica, della critica della filosofia hegeliana alla società, "nell’atto stesso che se ne fa il difensore"(168).

Possiamo riassumere la posizione di Adorno nei confronti di Hegel con le parole di Tito Perlini(169): "Adorno riscopre Hegel passando attraverso l’esperienza della crisi radicale dell’hegelismo. Alla fine ritrova Hegel, ma uno Hegel corretto alle radici e intimamente trasformato dalla critica di Marx"(170); il che d’altra parte costituisce un’operazione tipica degli esponenti della scuola di Francoforte (171).

1.4 La dialettica negativa (il rispetto della finità)

Il fallimento della dialettica hegeliana consiste dunque nell’oblio del riferimento al particolare, frutto della volontà idealistica di ontologizzare il soggetto trascendente. Proprio questo fallimento costituisce il punto di partenza della Dialettica negativa (172) . Il rapporto tra affermazione del Soggetto e dialettica non è però tale da potersi confermare nella pura legge di identità: l’eterogeneo, il particolare (o, per rimanere all’esempio del paragrafo precedente, il valore d’uso rispetto al valore di scambio), il "qualitativamente diverso" (173) fa la sua comparsa nella totalità apparente della conciliazione concettuale sotto forma di contraddizione. Secondo Adorno, la contraddizione è inevitabile:

La contraddizione è il non-identico sotto l’aspetto dell’identità; il primato del principio di contraddizione nella dialettica misura l’eterogeneo rispetto al pensiero basato sull’unità. [...] La dialettica è la conseguenza cosciente della non-identità. [...] Il pensiero è spinto verso di essa dalla propria inevitabile insufficienza [...]. (174)

Ma questo appello della dialettica al concreto non ha trovato risposta nella filosofia successiva. Dopo Hegel infatti, se la forma idealistica della dialettica "fu degradata a patrimonio culturale"(175), i suoi sviluppi materialstici presero la strada del dogmatismo: gli interventi polemici contro il materialismo dialettico (il cosiddetto Diamat) sono frequenti negli scritti di Adorno. Il tentativo di Friederich Engels (176) di estendere la dialettica da metodo (secondo l’ottica marxiana) per interpretare la storia e la società a tutta la natura, con l’intento di conciliarla con le contemporanee dottrine positiviste rappresenterebbe infatti un’irrigidimento al pari dell’idealismo: "l’hegeliano movimento del concetto è congelato nel Diamat a confessione di fede" (177). Sempre a questo proposito, Adorno scrive inoltre:

Gli amministratori della Dialettica nella sua versione materialistica, la cricca del pensatoio ufficiale del Blocco orientale, hanno abbassato irriflessivamente la Dialettica alla piatta teoria del riflesso. Una volta priva del fermento critico essa sia adatta benissimo al dogmatismo. (178)

La possibilità di "pensare i contenuti" (179) è continuamente rinnegata a vantaggio del lato formalistico del pensiero. Ma se la concettualizzazione è la causa del fallimento della filosofia nel rapporto con il reale, la soluzione proposta da Adorno è che la filosofia dovrebbe cercare il non concettuale all’interno del concetto (180), rimanendo quindi sempre in un contesto dialettico:

La necessità della filosofia di operare con concetti non deve trasformarsi nella virtù della sua priorità, né d’altra parte si deve derivare dalla critica di tale virtù della filosofia.(181)

‘Antidoto’ della filosofia sarebbe "il disincantamento del soggetto": riconoscere che "nella logica dialettica il concetto è un momento come gli altri" (182). La filosofia deve abbandonare la pretesa ad una esaustività di tipo scientifico, che non le compete: solo questa nuova condizione di ‘inconclusività’ le permetterà di "calarlsi letteralmente in ciò che le è eterogeneo, senza ridurlo a categorie già predisposte" (183). Mentre le filosofie idealistiche, con la loro pretesa di cogliere l’infinito, finivano senz’altro (Hegel compreso) nel postulare di fatto come finito il proprio oggetto, una dialettica negativa, non presupponendo l’identità di realtà e concetto, potrebbe guadagnarsi l’appellativo di ‘infinita’ proprio in virtù della sua inconclusività. Secondo Adorno, una dialettica corretta dovrebbe recuperare, ma in senso contrario, un rapporto con l’oggetto simile a quello della monade leibniziana:

l’aspettativa non garantita che ogni singolo e particolare che essa [la filosofia] decifra rappresenti in sè, come la monade leibniziana, quel tutto, che come tale le sfugge continuamente, però in base ad una disarmonia prestabilita piuttosto che ad una armonia, (184)

fermo restando, come l’autore non si stanca di ripetere, che il pensiero critico deve essere in grado di cogliere l’’armonia’ quando essa, sotto forma ad esempio della falsa identità del principio di scambio, si presenta come reale nella società; infatti è proprio la stabilità di simili mistificazioni che necessita di essere ‘posta in movimento’ dalla dialettica.

Così come per Schönberg (185) la teoria musicale tradizionale è in grado di spiegare soltanto "come una frase cominci e finisca" (186) ma non dice nulla a proposito di ciò che la caratterizza individualmente, ovvero del suo sviluppo, allo stesso modo in filosofia non sono tanto importanti le tesi e le conclusioni quanto piuttosto il processo in cui questa si rinnova e si sviluppa per frizione con ciò con cui si misura. In questo senso il fatto che una determinata filosofia si presti facilmente ad un resoconto testimonia contro la sua veridicità, in quanto, essendo astraibile dal suo oggetto, dal concreto, non intrattiene con esso un reale rapporto dialettico (187). Al contrario, "abbandonarsi all’oggetto" comporta lo spostamento dell’attenzione sull’aspetto qualitativo rispetto alla tendenza alla quantificazione che da Descartes in poi domina il pensiero filosofico. Questa posizione ha precise conseguenza sul piano linguistico:

contro l’opinione volgare, nella dialettica il momento retorico prende partito per il contenuto. Mediandolo con il momento formale, logico, la dialettica cerca di dominare il dilemma tra l’opinione arbitraria e la correttezza inessenziale. Essa inclina però al contenuto in quanto elemento aperto, non predeterminato dall’impalcatura.(188)

In sostanza, nelle parole di Roberto Nebuloni, la dialettica negativa è "lo sforzo di aiutare il non-identico ad esprimersi, pur nella consapevolezza che l’espressione è sempre identificazione".(189)

Questo ‘rivolgersi all’oggetto’ non costituisce un tentativo di regressione ad una fase predualistica (190). Il momento unificante tipico del soggetto trascendentale sopravvive, privo della pretesa di poter arrivare grado dopo grado al ‘concetto supremo’, nell’idea di ‘costellazione’: l’elemento specifico dell’oggetto è messo in risalto non attraverso il procedimento classificatorio in funzione della sua astrazione ma come qualcosa che può essere rivelato da una costellazione di idee la relazione tra le quali non sia fissata preventivamente:

come costellazione il pensiero teorico gira intorno al concetto, che vorrebbe aprire sperando che scatti un po’ come le serrature di casseforti ben custodite, aperte non solo da una singola chiave o numero, ma da una combinazione di numeri. (191)

Nell’ambito del rapporto tra soggetto e oggetto questa nuova dialettica, che Adorno chiama ‘materialistica’ in quanto tende in direzione della preponderanza dell’oggetto (192), non intende "procacciare all’oggetto il trono deserto del soggetto, su cui l’oggetto non sarebbe che una divinità, bensì eliminare la gerarchia"(193). Soggetto e oggetto non possono costituire un’unità e nessuno dei due deve avere il sopravvento sull’altro: il loro rapporto si sviluppa come un insieme di negazioni determinate.

Giangiorgio Pasqualotto dedica la terza parte (dopo quelle, già esaminate, su Husserl ed Heidegger) del suo saggio su Adorno (194) alla dialettica negativa.

Lo studioso focalizza l’attenzione sul rapporto del francofortese con Hegel, mettendo in evidenza i limiti e le contraddizioni in cui si sviluppa la posizione di Adorno, derivandone considerazioni sulle aporie dell’impianto complessivo del suo pensiero. I punti fermi della critica di Pasqualotto sono sostanzialmente due: da un lato, nel saggio in questione si esprimono delle riserve sulla reale possibilità (e opportunità) di una lettura originale dell’opera hegeliana come quella di Adorno; dall’altro restano immutati i giudizi già espressi nel confronto con Husserl e Heidegger sull’impegno etico come elemento squalificante del lavoro teorico.

La prima parte della critica, quella più strettamente filosofica, contesta la validità filologica dell’interpretazione contenuta in Tre studi su Hegel e Dialettica negativa: la pretesa di separare lo Hegel antisistematico della Prefazione alla Fenomenologia da quello sistematico della Scienza della Logica, violerebbe "completamente il senso della filosofia hegeliana, che rifiuta ogni separazione"(195). Questa mistificazione sarebbe causata dall’incapacità di cogliere la funzione del sistema in Hegel: secondo Pasqualotto il rapporto di questo verso il particolare non si configurerebbe come ‘usurpativo’ o ‘tirannico’. Totalità e particolare vivrebbero in una sorta di ‘simbiosi’ per cui "il ‘qualcosa’, il non-identico, proprio nella misura in cui contrastano l’universale, l’essere, l’identico, ne garantiscono lo sviluppo"(196). In sostanza l’opposizione al sistema sarebbe impossibile proprio in virtù del fatto che esso è appunto ‘sistema’. A queste critiche si può rispondere prima di tutto rilevando che (come ho gia mostrato sopra) la lettura adorniana di Hegel nei Tre studi non pretende affatto di essere filologica, e anzi cerca di portare il filosofo ‘oltre se stesso’ in una chiave a tratti apertamente apologetica, mentre nelle pagine della Dialettica negativa Adorno è pienamente consapevole dei limiti della dialettica tradizionale; in secondo luogo la seconda parte di Dialettica negativa (Concetto e categorie), sviluppa il rapporto di particolare e sistema (come visto sopra a proposito di soggetto e oggetto) in modo tutt’altro che rigido. Se nel ragionamento di Adorno nessuno dei due concetti deve (e può) essere consideraro preminente rispetto all’altro, il ‘rischio-utopia’ cui si riferisce Pasqualotto affermando che "il negativo [...] rischia costantemente di tramutarsi in negazione astratta" (197), perde il suo terreno: l’astrattezza di un dualismo astratto-concreto che Adorno rifiuta e di cui si colgono invece le tracce in diverse osservazioni dello stesso Pasqualotto sulla "distanza da cui e con cui Adorno coglie i processi reali [...] dello sviluppo capitalistico". (198)

Per quanto riguarda le considerazioni sull’opportunità di un’opposizione come quella adorniana al sistema come raffigurazione della ‘società totalmente amministrata’, considerazioni che anche in quest’ultima parte del saggio offrono lo spunto a toni molto duri, oltre alle consuete accuse di ‘inutiltà’, si ha l’impressione che la lettura operata tenda a semplificare le analisi di Adorno o quanto meno a soffermarsi oltre misura sui suoi aspetti retorici (199) e ad offrire un’immagine un po’ semplificata di alcuni altri. Ad esempio, se è certamente lecito e doveroso analizzare la problematicità del rapporto di Adorno verso Marx (200), affermare che il presunto "’metaphysischen Bedürfnis’ nascosto nel pensiero di Adorno liquida ogni tentativo di confrontarlo con Marx" (201) significa esporsi al rischio di non comprendere la particolarità della visione adorniana di Hegel, la cui comprensione non può prescindere (come ho mostrato sopra) dal concetto marxiano di valore d’uso, così come la dialettica di soggetto e oggetto dal concetto di ‘feticismo delle merci’ (come mostrerò nel prossimo capitolo). Solo attraverso l’ancoraggio a questo retroterra concettuale l’aspetto romantico che Pasqualotto critica in Adorno viene smascherato come secondario. Infatti, come scrive Roberto Nebuloni, compito della dialettica negativa non è tanto quello "di mostrare l’alternativa al presente, di dipingersi positivamente l’utopia – direbbe Adorno – ma di mostrare le lacerazioni dell’attuale stato di cose, e di demolirne le false certezze e i falsi assoluti"(202).