INTERVISTA
A RICCARDO GIAGNI
1)
Prima di affrontare qualsiasi discorso su L'ora di religione, mi
interessa conoscere il suo percorso, sapere insomma, come arriva
a Bellocchio, maturando quali esperienze, quali convinzioni e, se
vuole, quale poetica nell'ambito della musica da film.
Appartengo
a una generazione - quella dei "bravi ragazzi del '56"
- che in diversi casi individuali ma molto tipici si è accostata
alle cose dell'arte, e spesso anche a quelle della vita, seguendo
come principale criterio d'orientamento l'istinto e assecondando
il metodo e la logica delle passioni. E così il mio percorso,
se ne esiste uno, è stato quello di un selvaggio: curiosità
prensile, onnivora, studi irregolari ma febbrili, pratica quotidiana
dell'improvvisazione e irreprimibile tendenza, non appena si annusa
aria di "carriera", ad alzare rapidamente i tacchi e scappare
in direzione opposta. In questo senso riconosco maggior valore formativo
a modelli o punti di riferimento apparentemente stravaganti (Georg
Groddeck, Paul Gauguin, Charles Fourier, Emil Cioran, Guy Debord...)
che non a questo o a quell'altro musicista.
La
mia formazione musicale più autentica, più profonda,
è peraltro di natura filosofica: l'attenzione al suono come
forma simbolica, al suo ruolo nell'esperienza degli esseri umani,
al suo agire più che al suo "esprimere" o "rappresentare"
mi accompagna, direi mi perseguita sin dai primi anni settanta.
Di quel periodo cito solo alcune tappe significative, almeno per
me: una laurea in filosofia con Diego Carpitella e Giorgio Cardona
(i suoni, le culture e i saperi tradizionali, il linguaggio...),
l'amicizia e le discussioni con Corrado Bologna (la voce...), i
primi incontri - deprimenti - con le Istituzioni Ufficiali della
Musica.
Non
si ha un'idea di quale mentalità fosse espressione il Conservatorio
(ma anche la programmazione concertistica, l'informazione musicale,
la radio nonché i salotti buoni dell'avanguardia cosiddetta)
nella capitale di un paese come il nostro, alla metà del
decennio Settanta. Un paio di sostantivi possono forse restituire
il clima di allora: noia e censura. Un'ostilità assoluta,
nel migliore dei casi una completa sordità nei confronti
di qualsiasi cosa che suonasse diverso, che scartasse dai binari
delle convenzioni riconosciute (ma da chi?) a "destra"
e a "sinistra". Da un lato, ci si fermava orgogliosamente
a Beethoven, in rari casi a Brahms; dall'altro, non c'era altro
che Darmstadt e i suoi riti, già allora piuttosto logorati
dal tempo e dalla routine. Risultato: non c'era praticamente nessuno
che scrivesse qualcosa di interessante, di appetibile per me e per
quelli come me.
Io
studiacchiavo a L'Aquila con Paolo Renosto. Era uno che entrava
e diceva: "Io la penso così: in composizione si usa
soltanto il totale cromatico. Voi dunque dovete comporre usando
soltanto il totale cromatico". Il "totale cromatico":
dopo meno di trent'anni c'è ancora qualcuno che si ricorda
cos'era? Alla fine tutti gli allievi di Renosto scrivevano come
Renosto, così come tutti gli allievi di Donatoni scrivevano
come Donatoni, ecc. ecc. Arrivavano ad assomigliare persino fisicamente
ai loro maestri. Domenico Guaccero, invece, diceva: "Posso
darvi una mano e insegnarvi un po' di tecniche. Ma il linguaggio,
lo stile no: quello lo decidete voi". E infatti è stato
il maestro di Carlo Crivelli e di un pugno di altre individualità
molto forti e molto libere. Insomma, sia pur con qualche nobile
eccezione, l'etica dell'eleganza e della bellezza non era per nulla
in voga. Se non si era della partita - e se ci si ostinava a non
volerlo diventare - si poteva soffrire parecchio.
Molti
"irregolari" della mia generazione si trovavano in una
condizione continua di conflitto tra ciò che amavano e ciò
che erano costretti a inghiottire e talvolta persino a scrivere:
parlo per me, ma parlo soprattutto di gente come Paolo Scarnecchia
(che a vent'anni organizzava a Venezia la Biennale Musica del Dissenso
con Messinis, e che già nel '77-'78 osava divulgare i Reich,
i Glass, i Bryars in un paese privo di orecchie); o come Franco
Masotti, che dalla fine del decennio iniziava a mettere in piedi
nell'indifferenza più totale iniziative, sezioni di festival
assolutamente coraggiose (Aterforum Contemporanea a Ferrara, per
esempio) che ci mettevano in contatto con ciò che di nuovo,
di inaudito si muoveva nell'ambito dell'"altra" musica
del nostro tempo (Arvo Pärt, i minimalisti, certo jazz, ma
anche Glenn Branca e i migliori musicisti inventati o fiancheggiati
dalla Ecm). Oggi è tutto facile e apparentemente digerito:
Jarrett, l'elettronica, Zappa, l'eclettismo intelligente, il mistero
delle voci bulgare, ecc. ecc. Ma garantisco che a quei tempi era
proprio dura in Italia: dovevi avere la vocazione del missionario
o lo stigma dello "spostato", in ogni caso ti mettevi
nella condizione della vox clamans in deserto.
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