Certo,
in un contesto come quello la tentazione del dandysmo era sempre in
agguato. E alcuni di noi indulsero allo snobismo della diversità,
a una sua tranciante rivendicazione, sia pure sottovoce e col sopracciglio
alzato. Io invece ho preferito sporcarmi le mani senza mettere da
parte l'istinto. Dalla fine degli anni Settanta ho fatto un mucchio
di radio, ficcando il muso e la zampa in certe trasmissioni di Radiotre
che hanno finito per qualificare la storia (anche) musicale del mezzo
e della rete: Un certo discorso, Stereonotte, e più avanti
Alfabeti sonori, Lampi e Appunti di volo. Alla metà degli anni
Ottanta avevo già conosciuto personalmente e talvolta avviato
rapporti di confronto intellettuale con quelle poche figure della
musica che avevo da sempre avuto voglia di conoscere: Philip Glass,
Steve Reich, Terry Riley, Pierre Boulez, Frank Zappa, Brian Eno, persino
dei "fuori strada" come Peter Hammill... Nel frattempo scrivevo
di musica, ma non disdegnavo di lavorare per l'industria discografica.
Avevo cominciato come arrangiatore e autore nella Milano del 1976-77,
nel giro di Nanni Ricordi e della sua etichetta indipendente Ultima
Spiaggia. La storia è andata avanti per più di una decina
d'anni (Matia Bazar, Miguel Bosé, Grazia Di Michele, Cristiano
De André...). Poi ho iniziato ad avvertire un inconfondibile
profumino di carriera e mi sono voltato dall'altra parte. Senza rimpianti
ma nemmeno rimorsi: a quel punto avevo imparato un sacco di cose utili,
soprattutto frequentando gli studi d'incisione e gli ingegneri del
suono.
Nel
1990 ho finalmente registrato e prodotto un album "come dicevo
io": s'intitolava Intonos e fotografava al culmine delle loro
potenzialità le quattro voci di pietra dei Tenores di Bitti.
Frank Zappa scrisse la nota di copertina e in cambio ricevette i
campionamenti, suono per suono, delle singole voci dei quattro vecchietti
sardi. Ci ho preso gusto e la cosa è proseguita con un paio
di progetti, tra cui il primo album di uno dei massimi virtuosi
arabo-orientali di 'ud, l'iracheno Naseer Shamma. Era l'alba del
boom cultural-mercantile della "musica etnica", e dunque
presto non ho avuto più voglia di fare il discografico e
ho continuato a coltivare in silenzio le mie passioni più
segrete e più antiche.
Anche
il cinema (con i suoi suoni) è arrivato presto, come impegno
e come passione, anche se disordinatamente. Io guardavo praticamente
da sempre a Bresson, a Bergman, a Godard, persino a Pasolini e a
Paradjanov come a modelli assoluti di riferimento, li consideravo
i protagonisti visionari della lega del suono e dell'immagine. Era
quella la mia cultura audiovisiva. Ma ho cominciato dall'inclito
più radicale. Nel 1984 ho lavorato quasi per caso a un film
(bruttino assai) di Luciano Odorisio, protagonista - guarda un po'
- Sergio Castellitto. Il grosso della musica era firmato dai Matia
Bazar, con cui all'epoca collaboravo. Io arrangiavo e producevo,
ma ci misi anche del mio. Mi è rimasta impressa soprattutto
la fatica di lavorare a una delle più lunari versioni pensabili
di Stardust, in inglese, con la voce sottilissima di Antonella Ruggero
sullo sfondo di un'architettura elettronica potente, sensibile.
Chissà che fine ha fatto. Non si lavorava, allora: si regalava.
Altro esempio: 1987, colonna sonora del film d'esordio di Massimo
Costa, una storia di amori giovanili in chiave rockettara. Oltre
al resto, scrivo la musica della canzone-traino e mi viene l'idea
assurda di chiedere a Peter Hammill di pensare al testo. Hammill
mi manda una lirica d'amore visionaria, neo-shakespeariana, meravigliosa.
Insomma, un potlatch sontuoso per un minuscolo film italiano di
cui non si accorge nessuno. Dalla metà degli anni Ottanta
ho lavorato parecchio come consulente musicale per la televisione
e ho scritto e scelto musiche soprattutto per documentari d'argomento
sociale e storico (con Renato Ferraro, Mimmo Calopresti, Carlo Lizzani,
Guido Chiesa e tanti altri registi). Un lavoro faticoso e umile
che sento molto importante, diciamo fondamentale per la mia formazione
specifica.
Ho
conosciuto Marco Bellocchio alla metà degli anni Novanta.
Me lo ha presentato Carlo Crivelli perché lo aiutassi per
Sogni infranti. Sintonia immediata. La sorpresa di trovarmi di fronte
a un grande "acustico dell'immagine" che sapeva essere
anche un fantastico "visivo del suono". Bellocchio ha
l'istinto del suono. Io lo sospettavo sin dai Pugni in tasca, che
per questioni d'età vidi in ritardo, alla metà degli
anni Settanta in un cineclub del quartiere Prati. Un film di quelli
che forse ti cambiano la vita, sicuramente il modo di mettere gli
occhi sulle cose. In Sogni infranti compaiono musiche di repertorio
(Area, Arvo Pärt, qualcosa di Carlo e persino qualcosa di mio).
Marco ci prende confidenza e gusto e la collaborazione prosegue
con Alfabeto italiano: La religione della Storia. Anche lì
repertorio: molto vario e molto insolito, sia nelle immagini che
nelle musiche, con tante mie vecchie ossessioni, da Alan Hovhaness
a Lou Harrison. Il film/documentario è bellissimo, peccato
che sia stato visto poco. Lo ha montato Francesca Calvelli, che
è anche il "terzo orecchio" del cinema di Bellocchio:
una sensibilità ritmica e un'adesione alle ragioni della
musica assolutamente rare, preziose. Il suono dell'Ora di religione
non sono io: è Bellocchio-Calvelli-Giagni, anche se non mi
sognerei di ritrarmi di fronte alle mie responsabilità. Credo
che il mio impegno nel lavoro di Marco prosegua in più di
un senso il percorso costruito assieme a Carlo Crivelli in tanti
anni, ed abbia dunque alla radice uno stigma molto semplice, molto
diretto: simbolo e intuizione. Niente spazio per le tematizzazioni
né, genericamente, per le "atmosfere", per "l'aria
dei luoghi". Non si "vestono" musicalmente i personaggi,
non si mira a "chiarire le cose" con la musica, l'ambiguità
è benvenuta almeno quanto il silenzio e una potente austerità
sonora regna. Questo, del resto, è ciò che amo di
più al cinema.
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Autore
dell' intervista :
Luca
Bandirali
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