La questione ambientale e lo sviluppo

Dalla teoria agli interventi
http://www.manitese.it/cres/stru1098/dossier2.htm
Dalia Fano
 
 

A partire dalla decolonizzazione, nel secondo dopoguerra, la questione ambientale ed i problemi ad essa connessi acquistano rilievo e visibilità internazionale. I programmi di sviluppo economico che i paesi del nord propongono ai nuovi stati non potevano prescindere dai problemi ambientali, che divennero quindi vincolanti. La questione ambientale si conquista dunque una visibilità non come problema a sè stante ma come fattore limitante lo sviluppo: non genera risposte autoctone ma si trova a dover soggiacere all’imposizione di programmi di sviluppo decisi dai paesi tecnologicamente avanzati.

Gli anni cinquanta

e sessanta:

la growthmania

e il determinismo

ambientale

L’approccio economico al sottosviluppo presenta, in questo periodo, alcuni caratteri ben definiti.

Il sottosviluppo viene configurato come problema essenzialmente quantitativo, un problema di scarsità, sia nel senso della mancanza di alcuni fattori di produzione (i fattori limitanti: capitali, tecologie, organizzazione, ecc.) sia in quello relativo al valore di certi indicatori economici (le singole produzioni, il reddito procapite, il PNL, ecc.). Il sottosviluppo rappresenterebbe il mantenimento di una condizione di scarsità originaria da cui i paesi industrializzati sarebbero usciti appunto attraverso un potenziamento dei fattori produttivi che avrebbe ad un cer-to punto innescato un processo auto-sostenuto di crescita economica: è il noto modello degli "stadi di sviluppo" di W. W. Rostow.

Come immediata conseguenza la via maestra per uscire dal sottosviluppo sarebbe quella del potenzia-mento quantitativo della produzione: è la "growthmania", lo svilup-po assimilato alla crescita economica, all’aumento degli aggregati macro-economici (in primis il PNL), che doveva essere dunque perseguito a tutti i costi. Secondo quest’approccio l’iniziativa economica deve dunque concentrarsi sui settori (l’industria) e sulle aree (i poli di sviluppo, grandi agglomerati urbani, ecc.) che offrono le opportunità per la più rapida crescita.

Si confida pienamente nella razionalità insita nei meccanismi del mercato che dovrebbero riequilibrare automaticamente il sistema. All’intemo del paese gli effetti della crescita dovrebbero "gocciolare" sulle aree periferiche e sui gruppi sociali inizialmente emarginati (trickle down); a livello internazionale la crescita accelerata dei paesi sottosviluppati, da raggiungere tramite l’ingresso nel mercato mondiale, dovrebbe permettere loro di ridurre lo scarto rispetto ai paesi industrializzati: il commercio internazionale viene considerato come fonte di benefici per tutte le parti.

Sul piano sociologico il corrispet-tivo di questo modello era rappresentato dalla modernizzazione socio-culturale secondo la quale si sarebbe dovuto accantonare la tradizione ed elaborare una razionalità innovativa, adatta ai nuovi processi produttivi. Per quanto riguarda l’ambiente fisico, pur non espressarnente considerato nelle sue valenze ecologiche, esso viveva sullo sfondo un’inespressa contraddizione.

Da un lato l’ambiente "non esisteva", era trascurato e occultato dalle ipotesi di sviluppo, dall’altro era considerato alla stregua di uno dei fattori limitanti sopra ricordati a proposito della scarsità. Tra i tanti elementi negativi delle realtà del sottosviluppo anche la dimensione fisica dell’ambiente imponeva il proprio aspetto "ostile" nei confronti di tecnologie sulle quali si era basato lo sviluppo economico di quelle zone che per semplicità chiamiamo zone temperate. E quale ambiente poteva rappresentare limitatezza, scarsità e ostilità più di quello dell’aridità, in cui visivamente si impone addirittura la mancanza dell’acqua?

Questa contraddizione appare come frutto del paradigma del determinismo ambientale, che nell’approccio al sottosviluppo - di cui tendeva a costruire una motivazione "naturale" - neutralizzava respon-sabilizzazioni politiche ed economiche. "Le terre asciutte dell’Africa e dell’India sono povere perché non piove": questa interpretazione, più o meno celata e smussata, faceva rientrare le carenze naturali tra le cause, dirette e lineari, del sottosviluppo originario.

Fondendo idealmente il paradigma economico e quello ambientalista, i problemi ambientali e in particolare quelli delle terre asciutte - non si parlava ancora di desertificazione - erano attribuiti, soprattutto per quel che riguarda i paesi sottosviluppati, ai caratteri costitutivi delle dotazioni naturali, primariamente alla loro limitatezza, che andava quindi superata mediante interventi di po-tenziamento quantitativo. Se la diagnosi dei problemi indicava un’azione diretta della natura sull’uomo, la loro soluzione richiedeva che l’ambiente, fattore di arretratezza, venisse sottomesso alle strategie di sviluppo.

La ricerca e le strategie d’intervento

Come conseguenza dei fondamenti teorici delle politiche di sviluppo di quegli anni (Primo Decennio delle Nazioni Unite per lo Sviluppo1, 1960-69), gli interventi specifici si connotavano dunque per produttivismo, tecnicismo e settorialità. Di fronte all’urgenza della necessità di crescita, si doveva potenziare la produzione per "colmare il gap" attraverso un travaso tecnologico dal centro alla periferia ("sviluppo trasferito") riguardante i singoli settori, soprattutto quelli suscettibili di maggior espansione, nei quali sia la fram-mentazione disciplinare della ricerca sia quella operativa delle Amministrazioni suddividevano la complessità dei problemi e delle situazioni territoriali.

Emblematico è l’esempio delle innovazioni agricole, costituenti la "Rivoluzione Verde", diffuse nelle regioni rurali densamente abitate dei paesi sottosviluppati.

L’operazione si basava sull’assunto che, trattandosi di un "pacchetto" tecnologico facilmente distribui-bile e modulabile in termini quan-titativi (sementi selezionate, irrigazione, fertilizzanti, antiparassitari), esso potesse diffondersi capillar-mente, indipendemente dalla struttura sociale della produzione, indi-pendemente da interventi di sostegno extraeconomici (formazione, sensibilizzazione): lo si riteneva cioè, scale-neutral, invariante rispetto alle dimensioni, e quindi anche alla "qualità" sociale, del produttore.

Non si considerano le connessioni intersettoriali dell’ambiente, nè la sua natura sistemica. I problemi vengono così frammentati per compartimenti, di norma corrispondenti alle branche disciplinari: climatologia, idrologia, pedologia, biologia, geomorfologia. Rari sono ancora gli studi sulla dimensione umana delle questioni ambientali; mancava l’attenzione per le dinamiche sociali del rapporto tra uomo e caratteristiche del territorio.

Omologa a quella della ricerca, è da ricordare la frammentarietà operativa: di fronte ai problemi complessi e intersettoriali del reale (orizzontali) si interviene secondo un approccio suddiviso tra le contingenti competenze ministeriali (verticali). Sono espressione emblematica di questa intrinseca contraddizione i conflitti o i vuoti di competenza che si manifestano a proposito di gestione delle acque, terreni a pascolo o dei boschi. Per esempio, è stato osservato che in un caso specifico di erosione del suolo in un’area pastorale ugandese gli interventi per essere efficaci avrebbero dovuto riguardare ben sette Ministeri, che non avevano tuttavia elaborato alcuno strumento di coordinamento.

Proprio nel momento in cui l’approccio riduzionista registrava la massima diffusione, esso cominciava a manifestare profonde incrinature, sia sul piano teorico sia a livello applicativo.

La crescita dei grandi aggregati economici non si era affatto riversata nel previsto trickle down, ma aveva piuttosto registrato il progressivo aumento della povertà, accentuando i dislivelli socio-territoriali, aggravando le condizioni delle regioni e dei ceti emarginati. Le disugua-glianze, complessivamente, crescevano, sia tra paesi industrializzati e paesi sottosviluppati, sia all’interno di questi ultimi, diventando intollerabili in una condizione di elevato incremento demografico. A livello internazionale le ipotesi ottimistiche dei vantaggi comparati venivano smantellate dalle quantità crescenti di prodotti agricoli e di minerali che i produttori di materie prime dovevano esportare per poter importare lo stesso valore di manufatti.

Nel contempo, gli interventi sul territorio realizzati per potenziare la produzione e per favorire lo sviluppo scatenavano la reazione d’impatto ambientale, evidenziando, di fronte alla propria settorialità, la dimensione sistemica dell’ambiente. Gli stessi inserimenti di tecnologie innovative, effettuati senza tener conto del contesto culturale, sociale ed economico cui si dirigevano non riuscivano in molti casi a generare i processi di cambiamento preventivati, quanto piuttosto indifferenza o aperta ostilità.

++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++

Interventi contraddittori

Lo strumento d’intervento più rappresentativo di questi anni è la stazione agricola sperimentale, finalizzata all’elaborazione delle innovazioni per le produzioni agricole di base (grano e mais, sopratutto) e alla loro divulgazione, nel contesto già ricordato della "Rivoluzione Verde". In questo periodo ne vengono attivate molte, per iniziativa dei singoli stati e nel quadro della cooperazione internazionale. Focalizzate sull’aumento in vitro della produzione, preoccupate di trovare nuove cultivar dalla resa sempre più elevata, queste strutture permettono di astrarre dall’ambiente e dalla tradizione, che, con la loro inerzia, restano al di fuori dei cancelli.

Altra modalità di intervento ricorrente, la "idraulica pastorale" - cioè la perforazione di pozzi profondi, dall’abbondante portata perenne, per l’abbeveramento del bestiame - sconta anch’essa l’approccio riduzionista. Escogitata infatti per evitare il ripetersi delle morie di bestiame per sete che si erano verificate durante la siccità degli anni ’40 essa forniva una risposta specifica ad un sintomo del disagio del pastoralismo, senza tuttavia considerare le molteplici e complesse interazioni che lo legano agli altri elementi del sistema sociale pastorale: il successo dell’intervento portò paradossalmente in sè i germi del suo fallimento successivo, in quanto favorì la stazionarietà degli armenti in punti fissi, generando il sovraccarico dei pascoli.

Infine la grande diga: fiore all’occhiello della progettualità di quegli anni, panacea che avrebbe dovuto permettere un deciso salto verso lo sviluppo attraverso il potenziamento delle produzioni, attraverso un grande, indivisibile e trasferibile "pacchetto" tecnologico, la sua estraneità alla realtà tradizionale era simboleggiata dalle recinzioni entro cui si serravano i cantieri, quasi sempre condotti da tecnici e operai stranieri. Helmand in Afghanistan, Aswan in Egitto, Tarbela in Pakistan, Rahad in Sudan: alcuni esempi di una realtà dalle caratteristiche ricorrenti, con al fondo l’assunto di poter inventare, attraverso l’innovazione tecnologica, l’uomo nuovo, l’idea di poter pianificare sul deserto rimuovendo il territorio.

++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++++
 
 

Gli anni settanta: "mismanagement"

ed ecologismo

Le disuguaglianze, dunque, crescevano, in ogni ordine e grado; ci si rendeva conto che la crescita economica non era equivalente allo sviluppo anche se ne costituiva elemento essenziale. Tale crescita, lasciata al solo mercato, avrebbe privilegiato aree e gruppi sociali già ricchi e avrebbe ulteriormente penalizzato le periferie. La distribuzione del reddito era ormai diventata importante quanto la sua produzione.

Le risposte dell’economia a questa esigenza furono essenzialmente di due tipi.

Da un lato si affermò la scuola neomarxista della dependencia, che teorizzava la crescente dipendenza dei paesi sottosviluppati proprio attraverso la pratica dell’apparente processo di sviluppo. La soluzione conseguente dunque, ipotizzava che ogni intervento di aiuto, ogni operazione sulla via dello sviluppo non fa che intensificare il processo, la cui soluzione può risiedere non tanto in pratiche di riallocazione infrasocie-taria del reddito ma solamente in trasformazioni radicali della struttura sociale dei paesi dipendenti e del loro collegamento all’economia internazionale.

La critica nei confronti delle potenze occidentali, soprattutto degli Stati Uniti, individuati come primi responsabili dei processi di sfruttamento legati al neocolonialismo, si associava a esperienze rivoluzionarie e a proposte di sviluppo alternativo: la rivoluzione culturale cinese, come esempio estremo di una periferia che conta sulle proprie forze per uscire dal sottosviluppo, e del castrismo, come via per uscire dal controllo imperialista sull’evoluzione delle periferie.

Di contro anche il fronte liberale riformista cominciò a proporre di conciliare la crescita con la giustizia distributiva (Equity with Growth): essendo la crescita economica intrinsecamente iniqua, era necessario pianificare degli interventi socialmente mirati per risolvere la contraddizione. Sostenuta dalla Banca Mondiale - che insieme al FMI cominciava a sentire pressante l’esigenza di prendere atto del livello di rischio politico verso cui stavano portando percentuali sempre maggiori delle popolazioni del sud (rapporto Mc Namara del ’72) - questa preoccupazione costituiva punto di riferimento delle strategie di Targeted Deve-lopment che si affermavano negli anni ’70.

In una prospettiva di "interdipen-denza globale", cioè di un mondo come aggregato di realtà intercon-nesse, prendeva dunque corpo il Secondo Decennio delle Nazioni Unite per lo Sviluppo.

Lo sviluppo non doveva dunque più essere concentrato ed intensivo, ma diffuso ed estensivo. Almeno nelle dichiarazioni d’intenti, sviluppo regionale e Area Planning prendono il posto dei poli di sviluppo, l’industria viene affiancata nelle priorità dall’agricoltura e all’interno di questa l’attenzione passa progressivamente dalle produzioni di mercato verso quelle di autosussistenza.

L’economia dello sviluppo abbandonava dunque la connotazione essenzialmente quantitativa che l’aveva permeata nei due decenni precedenti, allargando i propri interessi agli aspetti qualitativi. Nello stesso tempo, la fiducia nel mercato re-golatore veniva decisamente meno, rimpiazzata dall’esistenza di una pianificazione. Ne deriva uno sviluppo vivacissimo delle tecniche di valutazione a priori dei progetti, applicate in uno sterminato numero di studi di fattibilità attraverso i quali si cercava, per ogni progetto, di eliminare l’aleatorietà dei suoi effetti producendo una conoscenza totale dei processi che esso avrebbe generato nell’ambiente.

Nacquero in quel decennio le "strategie alternative" di sviluppo. La strategia dei "Bisogni fondamentali" (Basic Needs), lanciata direttamente dalla Banca Mondiale nel ’72 rivendicava la priorità del soddisfa-cimento di bisogni quali alimentazione, salute, alloggio, acqua potabile, ecc. rispetto ai bisogni elitari di tipo superiore. Lo "Sviluppo Rurale Integrato" (IRDP), fatto proprio daI-l’IFAD, daII’USAID (US Agency for International Development) e da molte ONG, richiedeva un approccio intersettoriale allo sviluppò delle regioni rurali, in una prospettiva di co-ordinamento territoriale, di valoriz-zazione integrale delle risorse umane e delle dotazioni naturali disponibili, mediante tecnologie "intermedie", adeguate cioè al livello economico e tecnologico del gruppo rurale coinvolto. L’ecosviluppo, legato essenzialmente alla teorizzazione di I. Sachs, ma praticato da molte ONG, proponeva un modello di sviluppo basato sulla compatibilità ambientale, che permetta alle popolazioni interessate di "adattarsi all’ambiente che trasformano, senza distruggerlo".

E’ da notare in tutte e tre le strategie il ruolo decisivo dell’ambiente naturale, le cui caratteristiche specifiche vengono viste come fondamento delle differenti pianificazioni.

L’ambiente rientra dunque anch’esso nell’ambito della pianificazione. Il convegno internazionale "Ha-bitat", organizzato dalle Nazioni Unite a Stoccolma nel 1972, segna ufficialmente l’inizio della nuova dimensione strategica dell’ambiente, cui corrisponde l’istituzione dell’apposito Programma delle Nazioni Unite (UNEP).

Gli interventi specifici si connotano sulla base di integrazione mul-tisettoriale e adeguatezza socio-ambientale: il potenziamento della produzione viene perseguito integrando, sia a livello analitico che ope-rativo, i diversi settori e le diverse risorse e considerando il contesto culturale e ambientale in cui si agisce. Risultano a questo proposito rivalutati i processi produttivi tradizionali, in precedenza accantonati a favore della modernizzazione, mentre la conservazione comincia ad imporsi come criterio di scelta.

Come la teoria economica dunque, negli anni settanta anche le ipotesi riguardanti l’ambiente vennero intaccate e poi decisamente travolte dagli eventi.

Di fronte agli effetti dei grandi progetti realizzati nel corso dei decenni precedenti - interventi basati su pacchetti massicci di tecnologie dure che contrastavano con i processi tradizionali imperniati su tecnologie dalla debole potenza - si scopre che l’ambiente non è fatto di sezioni indipendenti, ma costituisce un insieme interconnesso, nel quale ogni intervento settoriale genera una risposta complessiva. La concezione sistemica dell’ambiente e il concetto di "retroazione" (feed-back) si fanno strada, in campo scientifico e nell’opinione pubblica 2.

L’ambiente, reagendo, pone dei vincoli al campo d’azione dell’uomo, in precedenza ritenuto illimitato: i limiti dell’ambiente sono anche i limiti di cui si deve tener conto nella pianificazione dello sviluppo sia a livello planetario sia a livello delle singole periferie, delle quali si devono considerare i caratteri sostanziali e specifici.

Dal determinismo ambientale, dunque, negli anni settanta si passa all’ecologismo, nel senso di una consapevolezza dell’uomo per la natura. I problemi ambientali vengono ormai considerati non più come conseguenza della "scarsità naturale", ma come effetto della "cattiva gestione" (mismanagement) delle risorse naturali da parte dell’uomo. Si pone dunque, nel quadro della generale richiesta di pianificazione sopra ricordata, l’esigenza della pianificazione dell’intervento sull’ambiente. I problemi ambientali, tra i quali proprio in questo periodo si afferma in modo deciso la "deserti-ficazione", vengono interpretati essenzialmente come effetto di una azione dell’uomo che non tiene conto degli elementi e dei processi naturali; la soluzione viene dunque indicata in strategie di sviluppo che sappiano invece adattarsi all’ambiente, rispettandone i caratteri ecologici.

Le terre asciutte appaiono fondamentali per comprendere e spiegare l’evoluzione del modo di affrontare il rapporto tra ambiente e processo di sviluppo. L’argomento assunse veste di global issue e l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite indisse, per l’estate 1977 a Nairobi, un apposito convegno mondiale. Le drammatiche siccità che colpirono il Sahel nei primi anni settanta contribuirono a stimolare l’immaginazione dell’opinione pubblica mondiale, rendendo i problemi ambientali dell’Africa subsahariana l’esempio più eclatante di stretta relazione tra sviluppo e ambiente. Proprio i grandi progetti realizzati nelle terre asciutte, sono tra quelli che maggiormente hanno sollevato dubbi e critiche riguardo al modello dei decenni precedenti. Le opere della grande idraulica, se hanno aumentato la produzione agricola nelle regioni aride di Pakistan, Egitta, India, Irak, Cina, ecc, hanno pesantemente alterato i caratteri della falda acquifera attivando intensi processi di salinizza-zione e saturazione idrica dei suoli. La ricordata idraulica pastorale ha permesso di aumentare considerevolmente il capitale zootecnico di molte regioni steppiche (dal Ferlo senegalese al Rajasthan indiano), ma ha conseguentemente aumentato il carico, sia per numero di capi sia per durata, portando così a processi di degrado per sovrapascola-mento. L’espansione dell’agricoltura seccagna verso i margini dell’aridità, per rispondere alla domanda crescente dei mercati interni e internazionali, ha esposto suoli sempre più fragili all’azione del vento e delle acque dilavanti.

UNESCO e UNEP propongono una serie di misure correttive da applicare ai precedenti progetti, ma la misura d’intervento più importante è il "Piano d’Azione per Combattere la Desertificazione" (PACD), elaborato durante il convegno di Nairobi. Vi viene dichiarato che, per i paesi colpiti, la lotta alla desertifica-zione è "parte essenziale del più vasto processo di sviluppo e del soddi-sfacimento dei bisogni umani fondamentali".

Popolazione, tecnologia, produttività e sviluppo vi sono considerati interdipendenti, cosicché la lotta alla desertificazione deve integrare tutti questi diversi ambiti. Le cause del degrado vengono individuate essenzialmente nelle modalità di sfruttamento delle risorse naturali e la soluzione va quindi ricercata nel land-use planning, una pianificazione di tutte le risorse e di tutti i processi produttivi senza la quale non è pensabile di affrontare il problema, ma con la quale, si assume, il problema può essere affrontato e risolto.

Gli anni ottanta:

aggiustamento

strutturale

e neoambientalismo

Il Secondo Decennio passa dunque all’insegna dell’ottimismo e della fiducia nella capacità operativa della volontà. Si riscontrano e si denunciano, è vero, gravi problemi presenti e si insiste molto sulle responsabilità dei criteri d’azione dei decenni precedenti, individuando la causa dei problemi stessi nella carenza o nei difetti della pianificazione. Tuttavia, si ritiene conseguentemente che sia sufficiente ottimizzare le procedure di intervento perché possa essere migliorata. La pianificazione normativa, dettagliata e onnicomprensiva (Comprehensive Planning), basata sui presupposti della razionalità e della prevedibilità, è considerata la via maestra da seguire per superare i problemi evidenti.

Riguardo alle strategie di sviluppo e al rapporto che le lega all’ambiente, si può affermare che la fine degli anni settanta segni proprio la crisi di quelle certezze, l’esaurirsi di quel panorama. drammatico ma tutto sommato consolatorio, di problemi sì acuti e gravi, per i quali si dava però una causa precisa, per di più associata all’azione umana.

Queste certezze si sgretolano su diversi fronti: la congiuntura economica internazionale, le tensioni politiche tra gli stessi paesi sottosviluppati, la crisi ambientale e l’imprevedibile divaricazione che via via si manifesta tra ogni pianificazione e i suoi risultati prospettano un processo di sviluppo sempre più incerto, complesso e sempre meno riconducibile ad analisi e progetti sistematici. Tutto sembra sfuggire di mano, soprattutto la possibilità di costruire semplici modelli di previsione e analisi.

L’indebolimento della fiducia nella prevedibilità raggiunge anche l’ambiente: l’ipotesi su cui essa si reggeva, cioè l’attribuzione di ogni responsabilità del degrado all’azione umana perde progressivamente credito.

A ciò contribuiscono, ancora una volta, gli eventi delle terre asciutte: il Sahel, dopo la siccità dell’inizio de-gli anni settanta, ne conosce una nuova alla fine del decennio, che si fa pesantissima tra il 1982 e il 1984.

E’ un fatto inaspettato, di cui non si ha ancora peraltro una completa comprensione. Infatti, con la ripresa temporanea delle precipitazioni nel 1974, mantenutasi fino al 1976, si era pensato che la siccità fosse ormai conclusa e che fossero tornate delle condizioni "normali" nelle quali la siccità è presente, ma come eccezione, come situazione anomala: ci si aspettava cioè una sequenza di anni umidi, sui quali potere impostare una buona politica di valorizzazione delle risorse naturali. Ci si aspettava, cioè, che l’ambi