SEZIONE DIDATTICA - VILLAGGIO VOLINT

 

 

Scheda tematica: Economia Internazionale

Di Luca Cristaldi – Responsabile settore Educazione allo Sviluppo VIS

 

 

Indice degli argomenti

 

A – Approfondimenti

 

 

 

 

 

 

A - Approfondimenti

Premessa

"Un bambino che nasce oggi a New York, Parigi o Londra consumerà, sprecherà ed inquinerà più nel corso della sua vita che 50 bambini nati nei Paesi in via di Sviluppo; attraverso un crudele gioco del destino, coloro che consumano meno sopporteranno il peso maggiore del danno ambientale" (Rapporto sullo Sviluppo Umano, UNDP 1998).

Nel discorso "Ho un sogno", pronunciato nel 1961, Martin Luther King richiamò l’attenzione su un punto spesso trascurato: dalla mattina alla sera, ogni cittadino dei Paesi occidentali con i suoi consumi concorre a determinare inconsapevolmente il lavoro e la vita dei lavoratori di altri Paesi, quelli da cui provengono in tutto o in parte i prodotti acquistati. Molti Paesi "poveri", infatti, sono ricchissimi di risorse naturali esportabili anche senza bisogno di distruggere l’ambiente. Molto spesso però i Paesi del Nord e le società multinazionali riescono ad impossessarsi di queste risorse e a distruggerne altre con la complicità dei Governi locali, contando sul fatto che i Paesi e le popolazioni a basso reddito non hanno ne’ tecnologia ne potere negoziale. Così il Sud finisce per esportare solo materie prime a basso prezzo o, da qualche tempo, manufatti industriali egualmente a buon mercato. Molti di loro, poi, sono costretti a svendere le proprie risorse naturali al fine di trovare i mezzi per pagare gli interessi maturati sull’enorme debito estero. Ma se l’economia non si fonda sulla produzione per il mercato interno, bensì sulle esportazioni, ecco che la sua crescita non porta maggior benessere alle popolazioni produttrici e provoca una forte competitività sia fra Nord e Sud che tra gli stessi paesi più poveri.

COMMERCIO INTERNAZIONALE

La competitività del mercato è la migliore garanzia dell’efficienza della produzione. Ma i mercati devono essere aperti a tutti, ed hanno bisogno di agire nell’ambito di un quadro normativo accuratamente predisposto e di essere integrati da provvedimenti sociali oculati. Non si tratta di scegliere tra Stato e mercato: entrambi giocano un ruolo importante ed insostituibile.

Se i mercati fossero realmente aperti, essi consentirebbero al capitale, al lavoro e ai beni di fluire liberamente attraverso il pianeta e contribuirebbero a rendere le opportunità economiche più eque per tutti. I mercati internazionali, tuttavia, non sono né liberi né efficienti. In un momento in cui i mercati nazionali si stanno aprendo, quelli mondiali rimangono estremamente chiusi. I paesi in via di sviluppo (PVS), con alcune rilevanti eccezioni, stanno incontrando notevoli ostacoli al pieno sfruttamento del potenziale di questi mercati. Questa situazione rispecchia la debolezza delle loro politiche e le restrizioni dei mercati globali.

IL SUD DEL MONDO E’ RICCO…

Se guardiamo alla disponibilità delle risorse, il Sud del mondo non è affatto povero; è anzi l’area più "ricca" del mondo. Come popolazione (risorse umane) ha più dell’80% del totale, come risorse agricole ha più del 75% e come risorse minerarie è attorno al 76%. Ma allora perché, alla fine del giro, il ricco nord (USA, Canada, Europa e Giappone) con meno del 18% di popolazione, meno del 25% delle risorse agricole e circa il 24% delle risorse minerarie si prende quasi l’80% del reddito mondiale ? Questa è la radice "statistica" del debito dei poveri. Per sopravvivere, l’80% degli uomini con solo il 20% di reddito è spesso e quasi ineluttabilmente costretto a fare debiti. E per di più, in molti casi, all’interno degli stessi paesi poveri esistono pochissimi e ricchissimi (che spesso controllano ogni potere economico, politico, militare) e tantissimi e poverissimi.

I paesi ricchi e quelli poveri competono sul mercato come partner ineguali; questi ultimi, infatti, hanno un potere contrattuale molto debole sui mercati internazionali. La maggioranza di essi dispone di mercati interni molto limitati, è in grado di vendere una quantità limitata di beni e servizi e dipende fortemente dall’esportazione di materie prime, che rappresentano spesso fino al 90% delle esportazioni delle nazioni africane e fino al 65% di quelle dell’America Latina.

I prezzi di queste materie prime sono crollati drammaticamente durante gli anni ottanta, rafforzando la tendenza di lungo periodo al peggioramento dei relativi mercati. Questo è accaduto in parte perché è crollata la domanda mondiale, ma anche perché molti paesi sono stati improvvisamente invitati a restituire i loro debiti. Per generare una quantità sufficiente di valuta estera, essi sono stati quindi costretti ad intensificare la produzione e le esportazioni, trovandosi così a competere violentemente tra di loro in un ambito di mercato in via di contrazione.

GLI SCAMBI INEGUALI

Il 20% più povero della popolazione mondiale riceve solo lo 0,2% dei prestiti delle banche commerciali, l’1,3% degli investimenti, l’1% del commercio mondiale e l’1,4% del reddito mondiale.

Molte nazioni povere sono già emarginate dal sistema commerciale mondiale, specialmente l’Africa sub-sahariana e i paesi a sviluppo minimo. La quota di scambi globali dell’Africa sub-sahariana si è ridotta a un quarto del livello che aveva nel 1960. Se non vengono aiutati da un’energica azione politica, i poveri tendono ad essere tagliati fuori dal mercato, sia all’interno delle nazioni che internazionalmente.

Ma l’elenco continua:

CHI INVESTE NEI PAESI POVERI ?

La debolezza di mercato dei paesi in via di sviluppo risulta evidente anche nella loro incapacità di attirare quantità adeguate di investimenti esteri diretti. Gli investitori cercano il massimo rendimento del loro capitale e negli ultimi anni lo hanno coerentemente trovato nei paesi industrializzati. La conseguenza è che l’83% degli investimenti esteri diretti finisce nelle nazioni industrializzate. Inoltre, i paesi del Sud del mondo che ricevono investimenti esteri tendono ad essere quelli che si trovano già in condizioni di maggiore benessere: il 68% del flusso annuo verso i PVS è andato a 9 soli paesi in America Latina e nell’Asia dell’est e del sud-est.

Persino i cittadini dei PVS investono i loro fondi nei paesi industrializzati, accrescendo così il flusso iniquo di risorse finanziarie dai paesi poveri verso quelli ricchi.

 

 

 

LE BARRIERE DOGANALI

Nei paesi industrializzati, le barriere commerciali proteggono i mercati interni dalle importazioni provenienti da molte nazioni, sia ricche che povere. Ad esempio, le misure tariffarie vengono applicate principalmente su quei prodotti in cui i PVS sono maggiormente concorrenziali, vale a dire le esportazioni ad alta intensità di manodopera, come i prodotti tessili, l’abbigliamento e le calzature. Per molti beni, inoltre, il livello dei dazi aumenta proporzionalmente al livello di lavorazione dalla materia prima al prodotto finito. Questo vale specialmente per le spezie, la juta, gli oli vegetali, oltre che per la frutta, gli ortaggi e le bevande tropicali. Questi rialzi inducono i PVS ad evitare la trasformazione delle materie prime, e quindi, ad esempio, a non fare cioccolato con il cacao o tappeti con la juta.

Secondo uno studio della Banca Mondiale, le limitazioni commerciali riducono il PNL dei PVS del 3%, pari ad una perdita annua di 75 miliardi di dollari.

Attualmente, queste barriere stanno aumentando. Venti nazioni industrializzate su 24 sono più protezioniste oggi di quanto non lo fossero 10 anni fa. E’ vero che i PVS utilizzano politiche protezionistiche per proteggere industrie nascenti e di altro genere. Ma il paradosso è che, mentre nel Sud del mondo il livello medio di protezione sta cominciando ad abbassarsi, in parte come conseguenza dei programmi di aggiustamento strutturale, nei paesi industrializzati le tendenze protezionistiche stanno guadagnando terreno.

Tutto ciò spinge milioni di persone a lasciare il proprio paese alla ricerca di "fortuna" nel Nord del mondo. Ogni anno, infatti, dai PVS si muovono 75 milioni di persone: emigranti per ragioni economiche, lavoratori stagionali, profughi o perseguitati politici. Come reazione, i paesi industrializzati stanno diventando sempre più selettivi sugli immigranti da accogliere, fissando livelli di qualificazione via via più elevati, che privilegiano i lavoratori specializzati, coloro che portano con sé del capitale o i rifugiati politici.

E’ IL SUD A PAGARE

Possiamo affermare che le restrizioni dei mercati mondiali e le condizioni sfavorevoli di partecipazione costano ai PVS circa 500 miliardi di dollari, quasi il 20% del loro PNL, e 6 volte quanto essi spendono per le priorità dello sviluppo umano, come l’istruzione primaria, l’assistenza sanitaria di base, l’acqua non inquinata e l’eliminazione della denutrizione. Se i PVS disponessero di questi 500 miliardi e li utilizzassero correttamente, questa somma avrebbe un’influenza decisiva sulla riduzione della povertà. Non va mai dimenticato che la povertà non ha bisogno di passaporti per valicare le frontiere internazionali, sotto forma di emigrazione, degrado ambientale, droga, malattie ed instabilità politica.

Perché i mercati operino nell’interesse dei paesi poveri e delle popolazioni povere sono necessarie riforme radicali. Ma i mercati da soli non possono proteggere la gente dalla povertà: sono indispensabili anche reti di sicurezza sociali forti ed efficienti che agiscano a livello mondiale e nazionale. Attualmente l’unico sistema internazionale in vigore è il WTO.

WTO – ORGANIZZAZIONE MONDIALE DEL COMMERCIO

Si chiama World Trade Organization (Organizzazione Mondiale del Commercio) ed è la più potente organizzazione legislativa e giuridica del mondo. E’ nato nel 1995 al termine dei negoziati noti sotto il nome di Uruguay Round ed ha ottenuto in dote gli accordi scaturiti dalle varie trattative commerciali svoltesi nel corso degli anni dal 1947 (anno della prima versione del GATT, l’Accordo sulle tariffe e il commercio) ad oggi. Il WTO si occupa di quello che in gergo si definiscono come barriere non doganali (non tariff barriers to trade), in pratica leggi sanitarie, regolamenti sui prodotti, sistemi fiscali interni, politiche d’investimenti e qualsiasi altra legge di un paese che in qualche modo può influenzare il commercio di qualche prodotto. Di fatto, quindi, regola il commercio internazionale.

L’influenza del WTO nelle legislazioni interne si è fatta perciò pesante. Attualmente sono 134 i paesi che ne fanno parte e 33 sono osservatori. Ufficialmente le decisioni sono prese per consenso ma nella pratica a tirare le fila sono Canada, Giappone, USA e Unione Europea.

Anche se ufficialmente dichiara di basarsi sul "free trade", nei fatti le oltre 700 pagine di regole che costituiscono gli accordi su cui si basa, creano quello che si definisce come "corporate-managed trade", ovvero, un commercio regolato dalle multinazionali. Secondo il sistema gestito dal WTO l’efficienza economica, tradotta in profitti per le società, domina qualsiasi altro valore. L’economia è un affare privato mentre i costi sociali ed ambientali sono pubblici.

La mancanza di trasparenza e democrazia all’interno del WTO è rappresentata in modo esemplare dal sistema di regolazione delle controversie. Il WTO permette a un paese di chiamarne in giudizio un altro accusandolo di violare le regole del commercio internazionale. Le cause sono risolte da giurie di tre persone che lavorano a porte chiuse. Il Paese che perde la causa ha tre possibilità:

La prima è la strada normalmente percorsa.

CONSUMI INIQUI E SQUILIBRATI

Il consumo mondiale si è ampliato ad una velocità senza precedenti durante il XX secolo, raggiungendo, nel 1998, un livello di spese di consumo pubbliche e private pari a 24 mila miliardi di dollari, il doppio del livello raggiunto nel 1975 e sei volte superiore a quello raggiunto nel 1950, mentre ancora nel 1990 erano stati raggiunti appena i 1500 miliardi di dollari.

CAMBIARE E’ POSSIBILE

I modelli attuali di consumo stanno minando le risorse ambientali di base, stanno aggravando le ineguaglianze, mentre le dinamiche legate al nesso consumo-povertà-ineguaglianza-ambiente stanno subendo una pericolosa accelerazione. Se il trend continua senza subire modifiche - cioè senza una redistribuzione che vada dai consumatori a reddito elevato a quelli a basso reddito, senza una sostituzione di beni e tecnologie di produzione inquinanti con beni e tecnologie più pulite, senza un cambiamento delle priorità da un consumo ostentato ad un consumo che soddisfi i bisogni essenziali – i problemi attuali di consumo e dello sviluppo umano peggioreranno.

Non vi sono però tendenze irreversibili e cambiare è possibile e necessario. Il consumo deve essere distribuito, deve aumentare le capacità umane, non deve compromettere il benessere di altri, non deve ipotecare le scelte delle generazioni future. Solo così sarà possibile promuovere lo sviluppo umano di domani e le scelte dei consumatori devono essere tradotte in realtà per tutti.

LE INEGUAGLIANZE NEL CONSUMO

Durante gli ultimi 25 anni, il consumo pro capite è aumentato rapidamente nei paesi industrializzati (di circa il 2,3% l’anno) in un modo strepitoso nell’Asia dell’Est (6,1%) e ad un tasso crescente nell’Asia del Sud (2,0%): per ora, queste regioni in via di sviluppo sono ancora lontane dal raggiungere i livelli dei paesi industrializzati, mentre la crescita del consumo degli alitri paesi si è mostrata lenta o, addirittura, stagnante (una famiglia media africana oggi consuma un 20% in meno rispetto a 25 anni fa).

Il 20% più povero della popolazione mondiale, e non solo quello, è stato lasciato ai margini dell’esplosione dei consumi: ben oltre un miliardo di persone è stato deprivato dei bisogni essenziali di consumo; dei 4,4 miliardi di individui che vivono nei PVS, quasi i tre quinti mancano di infrastrutture igieniche di base, circa un terzo non ha accesso all’acqua potabile, un quarto non dispone di adeguate condizioni abitative, un quinto non dispone di accesso alcuno ai moderni servizi sanitari; un quinto dei bambini non frequenta la scuola fino al 5° grado e un altro quinto non dispone di un regime dietetico e di proteine sufficienti.

Le ineguaglianze nel consumo appaiono profonde. A livello globale, il 20% delle persone, nei paesi a reddito più elevato, incidono per un 86% sulle spese totali di consumo privato, il 20% più povero per un minuscolo 1,3%.

Più specificamente:

I BISOGNI INDOTTI e SCELTE FUTURE

Le pressioni di una spesa competitiva e di un consumo cospicuo traducono l’opulenza di alcuni nell’esclusione sociale di molti.

Gli studi sulle famiglie americane hanno dimostrato che il reddito necessario a soddisfare le aspirazioni di consumo è raddoppiato tra il 1986 e il 1994. La definizione di ciò che costituisce una "necessità" sta cambiando, così come la distinzione tra beni di lusso e necessari: negli anni Ottanta, Brasile, Cile. Malaysia, Messico e Sud Afruica disponevano del doppio o, addirittura, del triplo delle automobili possedute da Austria, Francia e Germania, 30 anni prima, quando si trovavano allo stesso livello di reddito.

In molti paesi industrializzati e in via di sviluppo il debito familiare, in particolare quello legato al consumo, sta aumentando, mentre i risparmi familiari stanno diminuendo: negli Stati Uniti le famiglie risparmiano soltanto il 3,5% del proprio reddito tanto quanto 15 anni fa; in Brasile il debito per il consumo, concentrato tra le famiglie a reddito più basso, supera ora i 6 miliardi di dollari.

E’ ora che le società opulenti dei Paesi industrializzati affrontino scelte strategiche e decidano se continuare le tendenze di consumo dell’ultimo decennio oppure optare per un consumo che sia a favore delle persone e dell’ambiente.

Continuare le tendenze passate potrebbe significare aumentare il consumo dei paesi industrializzati di 4-5 volte nel corso dei prossimi cinquant’anni.

Si afferma che la crescita deve essere rallentata e il consumo abbattuto, anche se la questione reale non sta nella crescita del consumo ma nei suoi impatti sulle persone, sull’ambiente e sulla società. Se le società adottano tecnologie che diminuiscono l’impatto ambientale del consumo, se i modelli si spostano dal consumo di beni materiali al consumo di servizi, la crescita può aiutare, non impedire a procedere verso la sostenibilità. Le scelte strategiche dei paesi ricchi e dei maggiori consumatori mondiali diventeranno cruciali per il futuro.

AGENDA D’AZIONE

Alcuni obiettivi risultano fondamentali:

La chiave consiste nel creare un ambiente favorevole al consumo sostenibile, dove sia i consumatori sia i produttori possiedono gli incentivi e le opzioni per orientarsi verso modelli di consumo che siano meno dannosi e pericolosi per la società.