Le critiche alla microeconomia convenzionale e il ritorno dell'etica

Bisogna distinguere, nel dibattito economico contemporaneo, tre filoni principali di attacco alla visione etica che deriva dal teorema fondamentale dell'economia del benessere. Tutti si riallacciano alle critiche successive che sono state mosse agli assunti fondamentali della teoria economica neoclassica, e tutti ritengono che la relazione tra etica ed economia non possa essere racchiusa nell'idea di efficienza allocativa del mercato né in quella di profittabilità dell'impresa.
Un primo filone rilevante è quello che considera una iattura il dominio assunto nella teoria economica moderna da un punto di vista genericamente utilitarista o benesserista, che riduce le informazioni rilevanti per l'analisi e la valutazione delle istituzioni economiche a quelle relative all'utilità degli individui 60. Come si è già detto, è in particolare Amartya Sen ad aver sostenuto che la teoria economica deve muovere dall'assunto che non solo considerazioni di benessere individuale guidano i singoli nell'azione, ma anche una pluralità di altri valori e ragioni di principio, eventualmente in contrasto con l'interesse personale. Questi valori vanno considerati come ragioni sufficienti dell'agire, e non come trasfigurazioni di un fondamentale impulso a fuggire il dolore e cercare il piacere 61. Parallelamente, quando valutiamo le istituzioni economiche da un punto di vista etico, dobbiamo distinguere tra i due aspetti del <169>benessere<170> e della <169>facoltà di agire<170> di una persona. Il primo riguarda i risultati e le opportunità di una persona in relazione al suo vantaggio personale, mentre la seconda si spinge oltre e cosidera risultati e opportunità nei termini anche di altri obiettivi e valori 62. Occorre inoltre considerare che valori come la libertà possono avere per gli individui un'importanza intrinseca, indipendente dai risultati che consente di raggiungere (come è invece per gli utilitaristi). Egli propone quindi un modello etico nel quale da un lato vengano tenute presenti contemporaneamente informazioni relative sia al benessere (importanti per giudicare in tema di giustizia distributiva) che alla facoltà di agire (importanti per valutare le esigenze della persona su un piano più complessivo), dall'altro le valutazioni vengano compiute sia in base alle conseguenze, sia in base al valore intrinseco della libertà. Un ulteriore punto di attacco da parte di Sen, a partire da questo modello, riguarda le restrizioni poste dal criterio di ottimalità paretiana a qualunque tipo di redistribuzione delle risorse, per quanto ineguali esse siano. Con il suo tipico modo di ragionare che sfata i presupposti più consolidati della teoria economica, egli asserisce che l'indifferenza nei confronti delle ineguaglianze di benessere richiede essa stessa una giustificazione 63.
Anche Albert Hirschman, a partire da Exit, Voice, and Loyalty (1970) si oppone a una teoria economica nella quale l'individuo venga considerato solo come una macchina che registra i prezzi e altre informazioni, facendo notare che egli dispone anche di doni considerevoli di comunicazione e di persuasione, verbale o meno, che influenzano le operazioni economiche 64. La questione ha rilevanza non solo sul piano analitico, ma anche su quello etico e politico, in quanto non appare accettabile una visione che si proponga la semplice mediazione degli interessi individuali. Donde l'esigenza sentita da Hirschman di ritornare alle origini dell'economia politica, ai problemi posti dalla visione civica, da Montesquieu e da Smith.
Sul versante dell'etica dell'impresa, uno dei risvolti di questa esigenza di allargamento del punto di vista dell'efficienza è senza dubbio la scoperta del tema della cultura di impresa. E' in particolare il successo del modello giapponese, nel quale per l'appunto valori diversi da quello dell'interesse economico sembrano guidare i diversi agenti economici che formano l'impresa, ad aver attratto l'attenzione su questo tema. Sul piano descrittivo, si possono constatare due tendenze principali in questa riflessione: da un lato l'accento viene posto sul carattere convenzionale, di lungo periodo, della cultura di impresa, che è vista dunque come tradizione (solo imprese di antica istituzione, dunque, possono averla); dall'altro, invece, vi è chi sottolinea come l'imprenditore stesso sia uno sperimentatore sociale e l'atto imprenditivo stesso una decisione culturale, mentre l'impresa viene vista come il convergere di numerose competenze e culture preesistenti, che in essa si pongono a confronto ed eventualmente in conflitto. Perciò qualunque impresa ha una cultura. Sul piano normativo, questo duplice punto di vista corrisponde a posizioni altrettanto diverse tra loro. Da una parte vi è la visione conservatrice, nella quale l'impresa non può essere ridotta a un nodo di contratti ma è invece una comunità naturale e una tradizione. Il compito morale dell'imprenditore e delle altre forze che formano l'impresa è quello di vivere e coltivare questa tradizione al di là di egoismi di parte 65. Dall'altra, troviamo un punto di vista più liberal, che è più disposto ad accettare la differenza e l'eventuale conflittualità delle varie culture che convergono nelle imprese, proponendo di vedere queste ultime non come meri apparati di produzione, bensì con una crescente funzione organizzativa e come laboratori di democrazia industriale, dove la formazione professionale si possa ampliare per divenire un processo più ampio di sviluppo di una cultura generale rivolta ai singoli individui 66.
Un altro filone di attacco alle conclusioni dell'economia del benessere paretiana scaturisce dalle indagini in campo microeconomico che hanno posto in discussione alcuni assunti fondamentali della teoria marginalistica, dando luogo alla letteratura sui fallimenti del mercato. Ci si riferisce in particolare ai settori di ricerca che vengono definiti come neoistituzionalismo e nuova economia keynesiana 67 e alle teorie dell'agenzia 68. Tra gli assunti critici di partenza di questi filoni, vi è la riflessione avviata da Herbert Simon sulla razionalità limitata degli agenti economici 69, i contributi della teoria dei giochi 70, quelli sulle asimmetrie informative, i quali mostrano come i contratti che vengono a stabilirsi nel concreto della realtà economica siano incompleti, nel senso che divergono da quelli previsti dalla teoria della concorrenza perfetta, che assumeva la piena trasparenza del mercato. L'esistenza di costi di transazione legati all'acquisizione di informazioni 71 e la possibilità di opportunismo creata dalle asimmetrie informative fanno sì che nella pratica vengano scelte dagli agenti soluzioni di second best rispetto a quelle di equilibrio pieno. Inoltre appare dimostrato che ad ogni livello delle istituzioni economiche, dai mercati dei fattori, a quello della moneta, a quello dei beni, alle organizzazioni, esistono spazi di comportamento arbitrario, in assenza di quelle sanzioni che il modello dell'equilibrio concorrenziale prevedeva 72.
Tutto questo ha conseguenze sul piano dell'etica economica. La constatazione di spazi discrezionali dell'agire, minando alla base l'idea di efficienza (e quindi giustizia) allocativa del mercato, reintroduce la necessità di sottoporre le scelte individuali a valutazione etica diretta; la teoria dei contratti incompleti indica come la cooperazione tra agenti razionali - qualora se ne diano le condizioni - potrebbe ottenere risultati migliori in termini di benessere della non-cooperazione. Donde il ritorno di interesse degli economisti per le grandi opzioni etiche contemporanee, dal neoutilitarismo 73, alle teorie dei diritti 74, alle varie forme di neocontrattualismo 75, alle etiche deontologiche. Con l'esclusione parziale di queste ultime, è da notare che la predilezione degli economisti va a quelle proposte che conservano i canoni dell'individualismo metodologico e dell'ipotesi di razionalità individuale, sicché, scartato l'utilitarismo 76 per il carattere meramente allocativo della sua visione della giustizia e per la sua parziale insensibilità ai problemi della distribuzione dei beni e delle risorse 77, le preferenze sembrano orientarsi soprattutto verso le teorie contrattualistiche.
Un terzo filone di critiche, particolarmente importante nel nostro Paese, è infine rappresentato dal neoaristotelismo 78 e dalla dottrina sociale della Chiesa, che alle questioni di etica economica ha dato importanza a partire dalle encicliche di Giovanni Paolo II, in particolare la Laborem exercens (1981), la Sollicitudo rei socialis (1987) e la Centesimus annus (1991) 79. La critica principale che viene da questo filone è quella dei rischi provenienti da una mercificazione di tutte le relazioni umane, che rischia di vanificare l'ideale di una più piena valutazione della persona in quanto tale.
 

Verso un nuovo spettatore imparziale? L'etica dell'impresa come convenzione sociale

Nell'ambito del dibattito odierno su etica ed economia, la prospettiva convenzionalista inaugurata da Hume e Smith appare essere ripresa esplicitamente solo da Hayek, in una versione cioè che tende a vedere nell'ordine del mercato il frutto di una lenta evoluzione sociale il cui successo è giustificato in particolare dalla capacità di questa istituzione di valorizzare al meglio le conoscenze specifiche che ciascun soggetto accumula nel tentativo di soddisfare i propri obiettivi. A questo ordine spontaneo si oppone il punto di vista costruttivista o {= falso-individualista che deriva secondo Hayek dal razionalismo cartesiano e ha i suoi eroi eponimi in Bentham e Rousseau: secondo questo punto di vista è possibile che un solo soggetto si sostituisca alla pluralità degli individui componenti una società, centralizzando l'informazione e allocando centralmente le risorse secondo obiettivi razionalmente prefissati. Ma proprio questa pretesa è per Hayek indifendibile. Le decisioni politiche, quando non si limitino a fissare alcune regole del gioco, come la garanzia delle persone e delle proprietà, producono ordini sociali meno efficienti e soprattutto desiderabili per gli individui 80.
Credo però che l'identificazione dell'approccio convenzionalista con la difesa hayekiana del mercato conduca a sottovalutarne l'interesse, in una società complessa che sembra dare sempre maggior peso ai valori della cittadinanza sociale, dell'ambiente, della differenza, del volontariato, della solidarietà, forse anche della cultura, senza per questo diminuire nel suo complesso la consapevolezza del carattere stringente dei vincoli economici e dell'esigenza di rispettare le regole di una gestione efficiente delle risorse e dei fattori produttivi. Una società nella quale l'opinione pubblica, per quanto manipolata, riesce a esprimere opzioni fondamentali rilevanti a favore di questi valori e contro il cristallizzarsi di pericolosi interessi costituiti. Questo quadro forse un po' idilliaco non vuole far dimenticare che esistono oggi anche valori diffusi di tutt'altro segno, i quali - quando non sono retaggi antichi mai modificati dall'evoluzione della società civile - spesso sono stati promossi proprio dall'opportunismo affaristico e dalla stessa applicazione politica delle ricette neoliberiste.
E' indubbio che lo stesso tentativo di ribadire una centralità sociale dell'impresa e dei suoi valori, che ha caratterizzato anche nel nostro Paese il dibattito tra le forze sociali negli anni Ottanta 81, ha avuto l'effetto non voluto di attirare su di essa l'attenzione dell'opinione pubblica. Sarebbe più corretto dire le opinioni pubbliche, o i diversi segmenti dell'opinione pubblica, visto che le condizioni poste all'impresa per la sua accettazione sociale sono sempre più diverse e spesso in contrasto tra loro. Il crollo del comunismo all'Est e all'Ovest non significa infatti che assieme al declinare della cultura dell'alternativa di sistema scompaiano anche richieste sociali e culturali antagonistiche proprio in seno alle superstiti società liberal-democratiche di mercato. Dire opinione pubblica significa dire società civile complessa, fatta di strati economico-sociali, gruppi di potere, associazioni single issue, differenze culturali, etniche e così via. Ma significa soprattutto dire che ciascuna istituzione sociale (comprese quelle economiche e quelle politiche) che si trova all'interno di questo sistema non solo esiste, produce, forma, fissa regole di azione, organizza, delibera (ovviamente, sono gli individui che compongono queste istituzioni a compiere queste azioni), ma è anche al centro, per riprendere una nota immagine benthamiana, di un panopticon che si differenzia da quello originario per non avere al centro l'osservatore, ma l'osservato. Fuor di metafora, ognuna di queste istituzioni viene costantemente osservata e giudicata alla luce di domande e valori sociali condivisi. Questo è ciò che il convenzionalismo di Hayek tende a mettere in secondo piano: le convenzioni non sono solo regole scaturite da un'evoluzione, che ci aiutano a economizzare risorse e ad agire, ma, proprio come le vedevano Hume e Smith nelle loro teorie morali, intuizioni, valori, linguaggi condivisi, a loro volta eredi di lunghe tradizioni e di una lenta evoluzione, e continuamente in evoluzione e in trasformazione, e magari in opposizione semantica o sociale. Le istituzioni sociali, insomma, hanno sì energie proprie, che derivano loro dal potere sociale che si sono conquistate, ma sono anche sottomesse al giudizio di questo spettatore imparziale che è in tutti noi e che è in ultima istanza responsabile della loro accettazione e dunque della loro sopravvivenza sociale.
Il mondo imprenditoriale è talmente cosciente di questa pressione, di questo sguardo sociale, che ha lottato per anni, spesso in ambienti ideologicamente ostili, per ribadire valori propri: il profitto, la selezione meritocratica. L'ostilità proveniva da varie matrici culturali: quella socialista e comunista, quella cattolico-popolare, anche se spesso, come abbiamo visto, aveva radici culturali antiche. Peraltro ci troviamo oggi di fronte alla constatazione che questa affermazione di una cultura di impresa ha corrisposto alle pratiche di opportunismo e collusione politica di cui la stampa quotidiana ci parla, e non solo in Italia. La stessa teoria economica sui fallimenti del mercato ci aiuta a comprendere questo fenomeno, rivelando come esista una razionalità dell'opportunismo in situazioni non cooperative del tipo di quelle segnalate dalla teoria dei giochi.
Ma proprio quest'ultimo fatto - se ce ne fosse bisogno - mostra il carattere ineludibile della questione dell'etica dell'impresa, una questione che non può più essere risolta confinando il ruolo morale dell'impresa nella profittabilità e nella ricerca dell'efficienza. Il punto è che questa ineludibilità non appare più oggi solo come esigenza astratta segnalata dalla riflessione degli economisti e dei filosofi più attenti, ma si traduce in maniera crescente in domande sociali alla cui risposta l'impresa non può e non potrà sempre più sfuggire.
Se passiamo in rassegna i vari aspetti dell'organizzazione di un'impresa, questo fatto ci appare ancora più chiaro. Si consideri, per esempio, come lo stesso risparmio privato e i fondi di investimento abbiano tendenza a selezionare le imprese a seconda del loro carattere socialmente responsabile 82, rifiutando, per esempio, le azioni di imprese che commerciano con Paesi in cui vige la discriminazione razziale, o che inquinano l'ambiente, o che hanno politiche di assunzione discriminatorie. Oppure l'esigenza già discussa di imporre all'imprenditore e al manager non solo la gestione efficiente dell'impresa, ma anche la promozione di un progetto culturale e formativo. Quanto alle relazioni industriali, la richiesta di democrazia industriale, oltre che di giustizia distributiva, certamente in evoluzione, ma non rinviabile all'interno dei progetti di qualità totale, appare come un'esigenza sempre più pressante di cultura e di qualità del lavoro (e di rispetto della persona umana), e diviene sempre più una strozzatura prescindendo dalla quale non è più possibile risolvere il problema dell'efficienza. Nel rapporto tra impresa e clientela, almeno per quanto riguarda le società più sviluppate, diviene sempre meno importante la competitività dei prezzi e sempre più rilevante l'esigenza della qualità, sia nel contenuto tecnologico o stilistico dei prodotti che nella loro affidabilità e nel correlato di servizi alla clientela o di chiarezza dei contratti. L'impresa sa di essere sempre più sotto lo sguardo dei clienti e di non poter rispondere alle richieste con uno sconto sul prezzo di vendita. La valutazione etica è alla base delle scelte di consumo anche perché finisce per essere influenzata, o per interagire, con la pressione delle organizzazioni di categoria, ambientaliste, sociali: così un prodotto può non essere comprato perché proveniente da un Paese razzista, o perché danneggia l'ambiente (è ovvio che questa interazione può dar luogo anche a nuovi casi di opportunismo e concorrenza sleale, grazie anche al peso dei mezzi di comunicazione di massa), o un'impresa messa in ginocchio per l'opposizione di una comunità locale alla sua presenza dilapidatoria in una certa area. Così, agli istituti creditizi si domanda lo sforzo civico di farsi promotori, assumendone parzialmente i rischi, dell'economia locale anziché rifugiarsi sotto il comodo usbergo della rendita di Stato.
Si tratta solo di alcuni casi, forse i più fortunati (spesso l'opinione pubblica è all'origine di fenomeni di pressione di segno opposto, quali la contrapposizione tra manodopera nazionale e immigrata, fenomeni di consumismo dilapidatorio, richieste di connivenze, opportunismi, discriminazioni): essi mostrano tuttavia che uno spettatore imparziale produce continuamente nuovi valori, che si traducono in altrettanti vincoli cui l'impresa, se vuole sopravvivere, deve saper dimostrare di rispondere.
Che cosa può fare allora l'impresa per permanere come istanza vitale in questo contesto? Essa deve dimostrare di essere in grado di spostare sul piano del raffinamento culturale, di un nuovo rinascimento 83, lo spirito imprenditoriale e la competizione. Deve strappare la gestione dell'impresa al mero affarismo, nel quale il confine tra il lecito e l'illecito appare cinicamente impercettibile, e saper inglobare le domande etiche provenienti dall'interno e dall'esterno come variabili strategiche per le proprie scelte. Naturalmente è importante che questo sforzo venga mantenuto nei limiti di una cultura liberale (anch'essa parte decisiva dell'odierno spettatore imparziale), e anche di una cultura della differenza (soprattutto per quanto riguarda le differenze sessuali, di età, di provenienza etnica) 84 e del libero confronto tra esigenze in conflitto, per non divenire pedagogia paternalista e totalitaria. Insomma, lo spettatore imparziale moderno non sembra richiedere all'impresa di trasformarsi nell'azienda morale della letteratura economica antica.
Se tutto questo sia compatibile con gli spiriti animali dell'imprenditorialità, o se si vada con ciò verso una morte dell'innovazione, come pensava lo Schumpeter di Capitalismo, socialismo, democrazia, è una questione aperta e di non facile soluzione. La lezione della storia è che possono anche prevalere, in uno spettatore imparziale, valori contrari all'imprenditorialità, e questo, certamente, può portare alla morte dell'impresa, alla routine e all'economia stazionaria. Ora, in una società che non ha risolto - e forse è corretto pensare, non risolverà mai 85 - il problema economico 86, negare margini allo sviluppo è certamente un disvalore. E se negare spazio alla libertà imprenditoriale in nome della giustizia distributiva e della qualità del lavoro può significare diminuire le chances di sviluppo, il problema è rilevante: anche perché se c'è un punto che le moderne teorie etiche, a partire da Rawls, hanno più volte sottolineato, è come un'etica economica corretta non debba tener presente solo la condizione degli attuali stakeholders, ma anche delle generazioni future. E lo sviluppo - purché, ed è una condizione di tutto peso, non produca guasti irrimediabili al tessuto sociale (cultura compresa) e all'ambiente - investe prima di tutto l'interesse delle generazioni future.
La domanda corretta da porsi, nel quadro problematico appena illustrato, è perciò la seguente: esistono nella cultura attuale i sintomi del prevalere di valori avversi all'imprenditorialità e allo sviluppo? Una prima risposta può essere che una delle ragioni, proprio a livello di opinione pubblica, su cui si è basata la dissoluzione del socialismo reale è proprio quello dell'impossibilità in esso di mettere in atto il circolo virtuoso iniziativa individuale-innovazione-sviluppo-benessere. Sarebbe riduttivo pensare che la visione prevalente, per chi scendeva in piazza a Berlino o a Praga, fosse solo il miraggio del consumismo occidentale: il problema era di prospettive e di qualità della vita. In Occidente il valore dell'impresa e dello sviluppo appare sufficientemente radicato per poter subire certamente alti e bassi, ma non soccombere. Lo spostamento in avanti delle esigenze di qualità e di giustizia, pur ponendo vincoli a una visione affaristica della profittabilità, appare contemperato con questo genere di valori e può stimolare l'imprenditoria a spostare la competitività su un terreno che ingloba la domanda di cultura. Riprendendo Sen, possiamo concludere che lo sviluppo puo esserci, ma non è più tollerato che sia solo sviluppo dei risultati in termini di benessere.
Naturalmente, c'è sempre, per l'impresa, una possibilità di fuga, anzi, forse più di una: qui la riconsiderazione dei paradigmi passati è rilevante. Una possibilità di sfuggire a questo ambiente sociale sempre più esigente è infatti data dalla fuga col capitale - paventata dagli ideologi della virtù repubblicana, aristocratica o democratica, quale simbolo dello scarso senso civico del mercante - che si presenta oggi nella forma dello spostamento del centro degli interessi delle imprese multinazionali dai Paesi di origine a zone più arretrate, nelle quali sono garantite connivenze politiche e una maggior tolleranza di comportamenti dilapidatori a causa del carattere più gelatinoso, come diceva Gramsci, se non inesistente, della società civile. L'altra possibilità consiste nel rifugio nella rendita finanziaria ricavata alle spalle di un bilancio pubblico sempre crescente, nelle connivenze domestiche con la politica ed eventualmente con la criminalità organizzata, anch'essa, come abbiamo visto, paventata dai critici country al partito di corte dominante. A questo rischio sembra in parte sfuggire la banca (eccetto forse certe specializzazioni particolarmente orientate al mercato finanziario internazionale), per la sua natura di radicamento locale. Ma se essa non è un candidato all'esito fuga altrove, è invece costantemente tentata dalla ricerca della rendita parassitaria. In questo senso fa parte dell'etica civica della banca sia l'assumere le dovute iniziative per essere forza trainante dello sviluppo locale, sia assumere quelle forme organizzative che consentano al contempo la dimensione minima efficiente (fusioni) 87, la diversificazione delle funzioni e il radicamento locale (banca universale, quindi).
Se prevarrà invece la soluzione della fuga da queste nuove responsabilità, al di là delle contraddizioni che essa porterà su sfera planetaria, ciò significherà che da noi il capitalismo non crollerà per eutanasia o per il raggiungimento di uno stato stazionario non temibile, come pensava J.S. Mill, ma per un ritorno di quella frugalità armata che non avrà purtroppo i connotati gradevoli che vagheggiavano i gentiluomini di campagna del Settecento.
 
 

[ paragrafo precedente ]

[ capitolo precedente | indice | capitolo successivo ]

[ NOTE |elenco delle ricerche ]