Economie
di carta
a cura di Michele
Morosi
(data di pubblicazione
30 ottobre 2001)
Tratto da:
"Economie di
carta – Il gioco d’azzardo dei mercati finanziari" di Marina Ponti, Davide
Zanoni, Francesco Terreri, Marco Piccolo, Mameli Biasin – Edizioni Monti
- A cura di Mani Tese
Com’è
strutturato l’attuale sistema economico mondiale? Quali sono
le caratteristiche del sistema finanziario?
L’ottimismo
proclamato da economisti e politici che la globalizzazione dei mercati
finanziari avrebbe portato vantaggi per le economie in via di sviluppo
e avrebbe colmato almeno in parte il divario fra Paesi ricchi e Paesi poveri,
ha trovato riscontro? Chi trae vantaggio dalla nuova fisionomia del sistema
economico?
A queste e altre
domande cerca di dare una risposta "Economie di carta", un testo curato
da Mani Tese.
Innanzitutto,
qualche cifra: nel 1998
le transazioni
giornaliere di carattere puramente finanziario
(non collegate cioè allo scambio di beni e servizi) hanno toccato
i 2000 miliardi di dollari.
Nel 1970 il volume
era di 10-20 miliardi.
Secondo la Banca
per i Regolamenti Internazionali le attività meramente speculative
rappresentano oggi il 90% delle contrattazioni a livello internazionale.
Nel 1999
il Prodotto Mondiale Lordo era di 30.000 miliardi
di dollari. Nello stesso anno le attività
finanziarie hanno superato i 53.000
miliardi di dollari.
E’ evidente
il continuo allontanamento dell’economia finanziaria (gestione delle valute
e dei valori mobiliari) dall’economia reale (produzione e distribuzione
di beni e servizi). Ed è urgente attuare riforme a livello locale,
nazionale e internazionale al fine di ricongiungere le due sfere dell’economia,
e riportare i mercati finanziari al servizio
dell’economia reale. Inoltre è imperativo
porre un freno alla febbre speculativa che ha ormai invaso tutto il sistema
economico.
Le speculazioni
finanziarie caratterizzano da sempre le dinamiche economiche. Ma negli
ultimi anni la componente speculativa dell’economia ha preso il sopravvento.
Ciò ha pesanti conseguenze, soprattutto per le economie dei Paesi
in via di sviluppo, che a causa dell’estrema volatilità dei flussi
di capitale non traggono giovamento dall’apertura dei mercati, e non riescono
a intraprendere politiche di sviluppo durature ed efficaci.
In teoria, lo
scambio di attività finanziarie dovrebbe avvenire con uno scopo
ben preciso: redistribuire la ricchezza prodotta verso i settori che necessitano
di risorse per sostenere le loro attività produttive. In realtà
i mercati finanziari oggi operano al di fuori di qualsiasi controllo, e
lo scopo prioritario è la massimizzazione del profitto.
A Bretton
Woods, nel 1944, i Paesi più importanti
sulla scena mondiale, Stati Uniti e Gran Bretagna in testa, si incontrarono
per negoziare un nuovo sistema finanziario mondiale. In quella occasione
vennero istituiti come "pilastri" per il funzionamento del sistema il Fondo
Monetario Internazionale e la Banca Mondiale. Il sistema era basato sul
"gold exchange standard"
(gli Stati Uniti si impegnanavano a mantenere fisso il prezzo dell’oro
a 35 dollari l’oncia e ad assicurare la convertibilità in oro di
tutti i dollari presenti sul mercato internazionale. Gli altri Paesi si
impegnavano a fissare il prezzo della propria moneta in termini di dollari,
e le variazioni di cambio dovevano rimanere entro una banda di oscillazione
limitata). La conferenza sanciva la posizione
dominante sulla scena finanziaria mondiale
degli Stati Uniti e della sua valuta.
A seguito di
vari episodi la posizione di "banchiere mondiale" degli Stati Uniti crolla
all’inizio degli anni Settanta. Il 15 agosto 1971
il presidente degli Stati Uniti Richard Nixon annuncia pubblicamente la
fine della convertibilità del dollaro in oro, e dunque la fine del
sistema di "gold exchange standard" Le principali valute cominciano a fluttuare
liberamente secondo la legge domanda-offerta. E da un regime di cambi fissi
(seppure attenuato dalla possibilità di lievi oscillazioni dei cambi
entro un certo limite), si passa a un regime di cambi
flessibili.
Questo nuovo
contesto lascia ampio spazio a manovre speculative sull’andamento delle
diverse valute, caratterizzato da veloci fasi di apprezzamento e deprezzamento.
E dalla speculazione sulla moneta si passerà anche a quella su altri
prodotti finanziari…
Ma il regime
di cambi flessibili, seppure importante è stato solo una delle cause
che hanno condotto all’esplosione dei mercati finanziari e all’allontanamento
degli stessi dall’economia reale. Altri elementi, venuti in essere fra
gli anni settanta ed ottanta sono stati: minori vincoli agli operatori
dei mercati; deregolamentazione; liberalizzazione dei movimenti di capitale;
limitazione o fine dei controlli sulle operazioni. In altri termini, grazie
all’innovazione continua dei prodotti finanziari e alle innovazioni tecnologiche
che hanno portato ad una sempre maggiore velocità delle contrattazioni,
sono stati progressivamente tolti i freni
alla tendenza alla speculazione internazionale.
Un ulteriore
esempio del distacco fra economia reale e finanziaria può venire
dall’esame del volume dei prodotti "derivati", caratterizzati dal non essere
legati al bene reale sottostante la contrattazione, che oggi rappresentano
la quota maggiore delle contrattazioni. Il valore di questi prodotti, per
la maggior parte legati a operazioni sui tassi di interesse e sui cambi,
nel 1999 era di circa 80.000 miliardi di dollari. E se una volta si operava
con questo tipo di operazione a fini di copertura (ad esempio da rischi
connessi alla volatilità dei tassi di cambio), oggi si scommette
con questi prodotti a fini puramente speculativi.
Ma chi sono
gli attori protagonisti del mercato? Si tratta delle banche di investimento,
dei fondi comuni, delle società di intermediazione mobiliare. O
magari anche di semplici risparmiatori. Tutti operano con lo steso scopo:
comprare e vendere, indipendentemente dall’oggetto dell’operazione, solo
sulla base delle oscillazioni delle quotazioni per ottenere guadagno a
breve termine.
Anche il mercato
di casa nostra, seppure in lieve ritardo, è entrato a pieno titolo
nel gioco, grazie allo sviluppo dei fondi comuni di investimento, al calo
di rendimento dei titoli di stato, alle privatizzazioni di importanti settori
dell’economia italiana, alla liberalizzazione e all’accresciuta concorrenza
nel settore bancario e all’enorme sviluppo del risparmio gestito a scapito
dei titoli di stato.
Ma nei Paesi
in via di sviluppo cosa accade?
In un primo
tempo si credeva che la globalizzazione dei mercati e l’aumento degli investimenti
stranieri avrebbero portato esclusivamente vantaggi, colmando o almeno
diminuendo il gap finanziario fra Nord e Sud del mondo.
E’ evidente
però, e le crisi finanziarie degli anni 90 lo testimoniano, che
le cose stanno diversamente. Perché se può essere vero che
l’apertura dei mercati a capitali stranieri (o al commercio) in linea teorica
può costituire un’importante fonte di risorse, nella realtà
le cose sono diverse. Innanzitutto i flussi di capitale che entrano nei
PVS, ed è questo il problema principale, sono caratterizzati da
un’altissima volatilità ed instabilità. Questo non li rende
adatti a sostenere politiche di sviluppo o investimenti nel lungo periodo.
Al contrario, sono fonte di pericolo e potenziali causa di crisi
gravissime quali quella messicana nel 1994
o asiatica nel
1997, causate proprio dalla volatilità
dei capitali che erano presenti nel paese.
Inoltre la distribuzione
geografica dei flussi appare ineguale. Venti Paesi negli anni ’90 hanno
ricevuto il 90% dei flussi totali. E per quanto riguarda gli Investimenti
Diretti Esteri, questi si sono concentrati per la metà in soli tre
Paesi: Cina, Brasile, Messico. L’Africa continua a rimanere esclusa dagli
investimenti dei paesi esteri.
Il rapido processo
di liberalizzazione ha portato dunque più difficoltà che
vantaggi. Ed è indispensabile a questo punto adottare delle misure
di controllo dei capitali, o altre misure che possano influenzare il comportamento
degli investitori, al fine di garantire l’efficacia delle politiche monetarie
ed essere in grado di realizzare gli obiettivi di crescita nel medio e
nel lungo periodo. Esempi di misure di controllo ci sono, e tutti dimostrano
che tali misure hanno portato dei concreti risultati, contrastando i rischi
connessi alla volatilità dei flussi. Gli esempi riguardano la Malesia,
il Cile, il Brasile.
E’ necessario
riformare l’attuale sistema monetario internazionale, per porre un freno
all’eccessiva volatilità dei capitali, per evitare il verificarsi
di altre gravi crisi finanziarie, e per giungere a una distribuzione più
equa delle ricchezze e a un maggior coordinamento delle politiche economiche
a livello internazionale.
Un punto di
partenza per questo necessario processo di riforma può essere la
nascita e l’applicazione di un sistema di tassazione sulle transazioni
valutarie. La nota Tobin Tax. Questa tassa prende il nome dall’economista
americano James Tobin, che per primo agli inizi degli anni ’70 propose
questa tassa perché "i mercati finanziari erano troppo perfetti"
e occorreva "gettare una manciata di sabbia
negli ingranaggi della speculazione".
La Tobin Tax
è un’imposta molto limitata (0,05-0,01%) da applicare a tutte le
transazioni valutarie, per rendere costosi gli investimenti speculativi
e di breve periodo, senza scoraggiare gli investimenti produttivi e di
lungo periodo. Per una maggiore efficacia l’aliquota dovrebbe essere più
alta. E su questo aspetto si basa la proposta di Paul Bernd Spahn, di una
tassazione a due livelli: un’aliquota estremamente bassa da applicarsi
normalmente, accompagnata da una sovrimposta (addirittura fino all’80%)
applicabile come deterrente alla speculazione in momenti di instabilità
dei tassi di cambio.
Quali potrebbero
essere i vantaggi derivanti dall’applicazione di una tassa di questo tipo?
Innanzitutto,
secondo alcune stime si potrebbero reperire tra i 90 e i 100 miliardi di
dollari l’anno (il doppio di quanto viene oggi destinato alla cooperazione
allo sviluppo). Il gettito verrebbe raccolto e gestito dalle Banche centrali.
Ma, non meno importante, la tassa costituirebbe anche uno strumento per
il monitoraggio dei flussi finanziari, al
fine di combattere l’evasione fiscale ed il riciclaggio di denaro sporco.
In conclusione,
questa tassa potrebbe portare a una riduzione dei flussi di capitale speculativi
e di breve periodo, ad un monitoraggio dei flussi di capitale, e sarebbe
in grado di reperire risorse finanziarie da destinare alla lotta alla povertà
e a livello internazionale ad interventi di sviluppo e cooperazione.
Si rilevano
segnali positivi per quanto riguarda l’attenzione dedicata a livello locale
e internazionale allo studio dell’applicazione di una tassa tipo Tobin
Tax. I segnali provengono dal Fondo Monetario Internazionale (sebbene allo
studio vi sia una tassa con caratteristiche diverse dalla Tobin, ma pur
sempre ispirata dagli stessi motivi di preoccupazione), dal mondo politico
ed economico internazionale, e dalle Nazioni Unite. E anche a livello locale
i Parlamenti di vari paesi discutono sempre di più l’idea di una
tassazione sulle transazioni speculative.
L’attenzione
di tutta la comunità internazionale è focalizzata su quello
che succederà a Monterrey, nel marzo 2002, nel corso della Conferenza
delle NU "Financing for Development". Nell’agenda della conferenza sono
presenti le principali questioni dello sviluppo secondo una prospettiva
finanziaria: la questione delle risorse, il commercio, il debito, i flussi
e l’architettura finanziaria mondiale. Si tratta di un’occasione unica,
che vedrà riuniti attorno al tavolo anche il Fondo Monetario, la
Banca Mondiale, l’Organizzazione Mondiale del Commercio insieme ai Governi
e agli esponenti della società civile, sotto l’egida delle Nazioni
Unite.
La speranza
è che questa conferenza possa essere una "nuova
Bretton Woods", in grado di gettare le basi
per un nuovo ordine economico e finanziario mondiale.
Per riportare
la finanza al servizio dell’economia.