La globalizzazione irresponsabile
Scenari 16/2/1999 Camera del Lavoro di Milano 
Gli interventi integrali
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Intervento introduttivo di Mario Agostinelli, Segretario generale di CGIL Lombardia:

Alcuni esperti, persone di alto rilievo internazionale e il quadro dirigente della Cgil della Lombardia, ma è aperta anche al pubblico esterno, e che ha una funzione di formazione se volete, - lo sanno quelli che già hanno seguito una serie di appuntamenti - uno sforzo di natura anche culturale che va un po’ al di fuori rispetto al contingente e a quanto noi veniamo tutto sommato assorbiti dalla pratica quotidiana. Non a caso si chiama "Scenari" proprio perché la Cgil Lombardia vorrebbe descrivere assieme a voi naturalmente, quindi è importante anche il carattere interattivo di queste iniziative, quello che è il futuro dentro cui la nostra organizzazione organizza la propria autonomia e le proprie lotte e non a caso dico la propria autonomia e le proprie lotte. Siamo un’organizzazione che rivendica e quindi organizza delle lotte, siamo un’organizzazione che rischia sempre di più di essere schiacciato sul presente e di perdere un’autonomia. Su queste questioni, in modo particolare, noi parliamo spesso di trasformazione del lavoro, di trasformazione dell’economia però ne parliamo controllando a valle questi effetti ma bisogna anche avere capacità di prevederli.

La mia funzione è una funzione, come è stata negli altri casi, solo di chi tesse un filo e un collegamento. Gli interlocutori da sempre, innanzitutto non parlano la stessa lingua, non coincidono automaticamente per quanto riguarda la loro posizione e la loro analisi, portano diverse facce all’approccio che magari poi coincidono nel caso particolare, ma contribuiscono anche da versanti, magari di esperienza o di specializzazione che non si sovrappongono. L’abbiamo fatto anche in tutti gli altri casi. Abbiamo sempre una figura però leader se volete per quanto riguarda la comunicazione e in questo caso è Riccardo Petrella che molti di voi conoscono anche attraverso i suoi libri, l’ultima volta era stata Lussi Rigarai, la volta precedente era stato Wolfang Sax, torno a una relazione quindi più ampia. Si articoleranno interventi di altissima qualificazione, in particolare, Enrico Bigli è un esperto di flussi e di evoluzioni del mondo finanziario internazionale e si occuperà anche di quanto la tecnologia dalla Borsa gridata alla Borsa telematica abbia nei fatti cambiato anche il contesto della globalizzazione. Marco Vivarelli che è un docente universitario, si occuperà più direttamente dell’economia reale, quindi degli effetti sulle condizioni reali dei processi di globalizzazione. Alain Elembroila che è direttore dell’agenzia stampa economica Deer si occuperà in modo particolare dell’impostazione dal punto di vista economico di una eguaglianza a livello mondiale. 

Gli interventi da attuare da parte anche degli stati, perché il grande processo finanziario che sottostà alla globalizzazione appaia come portatore anche di elementi di giustizia, non solo di effetti negativi.

Noi abbiamo chiamato questo "La globalizzazione irresponsabile" non a caso. Noi pensiamo che siamo sottoposti a un processo formidabile di espropriazione dei poteri, dei poteri politici in modo particolare, quindi un comitato esecutivo sempre più ristretto sopprime la democrazia e non solo la democrazia economica ma la democrazia tout court. Questo è un problema di importanza enorme per un sindacato che ha sempre condotto le proprie battaglie non solo sul versante rivendicativo ma anche sul versante della democratizzazione dei processi. Ha senso un sindacato e le sue battaglie se i processi democratici hanno raggiunto una collocazione tale da rendere efficace la rappresentanza degli interessi.

L’abbiamo chiamato "globalizzazione irresponsabile" e siamo partiti dal dominio delle imprese transnazionali alla speculazione finanziaria. Vedrete dagli interventi che non ci fermiamo qui, anzi, ci proiettiamo verso le occasioni positive che la globalizzazione offre.

Nella mia brevissima introduzione, che è fatta per rendere più efficace l’intervento dei nostri relatori, mi rifaccio a due interventi ieri sulla Repubblica. Finalmente due interventi da giornale non solo locale. Siamo frastornati dal fatto che le prime dieci pagine dei nostri giornali, ormai da troppo tempo parlano della politica quotidiana che il giorno dopo è completamente bruciata: finalmente due pagine di Repubblica ieri pongono in una maniera molto, molto forte, la questione di uno snodo tra politica e mercato che si sta verificando oggi, e che va apprezzato come un cambio di fase netto. Credo che sia sbagliato se noi rimanessimo ancora attardati a una lettura dei processi internazionali come processi sottoposti a una pura liberalizzazione.

Le speranze di Petrella e del suo vecchio libro "I limiti della competitività" cominciano ad affiorare come possibilità, quello che ci siamo detti al congresso della Cgil comincia a essere in campo. L’evoluzione, ad esempio, sul piano elettorale delle vicende europee l’ha già segnato, le vicende sociali non lo segnano ancora. I governi che sono stati eletti con una chiara indicazione di abbattere il vecchio schema neoliberista non hanno ancora assunto questo mandato, e ne sappiamo qualcosa, il nostro Governo agita continuamente modelli che hanno a che fare più con il vecchio che non il nuovo: la flessibilità, licenziamenti. 

Vorrei che oggi prendessimo atto di questo fatto, lo diranno meglio loro. Siamo in una fase in cui ci si può attardare anche per ragioni politiche, per questioni di piccoli cabotaggio, per fare un po’ più piacere alla Confindustria adesso che c’è il contratto dei metalmeccanici. Ma non regge a lungo questa cosa, sembra a me che la fase nuova sia già avviata; siamo in una fase in cui il rapporto tra politica e mercato e l’influenza della politica sul mercato si configura in maniera nuova e quindi occorre elaborare al riguardo. Devo dire che il vertice di Vienna aveva preso atto di questa cosa. Qui a Milano ci sarà il 2-3 marzo il congresso del Partito Socialista Europeo, credo che prenderà ulteriormente atto di queste cose.

I due interventi su Repubblica. Ieri contemporaneamente da una parte James Wolfangson che è il capo della Banca mondiale, e dall’altra il membro più influente del governo tedesco, quindi non il Bangladesh, La Fontaine, dicono cose che hanno un peso anche culturale enorme e le racconto molto brevemente. Il presidente della Banca mondiale che da poco governa alla Banca con grandi scontri interni e che è andato lì per ristrutturare un intervento che si è dichiarato fallimentare, conclude dicendo: "Diciotto mesi per cambiare metodo nella Banca, avrò grandi sconti e poi venti anni davanti a noi per portarci a uno sviluppo sostenibile". Questo lo dice il capo della Banca, lo dice quello che dovrebbe guidare i destini delle risorse. E aggiunge: "Guardate che la crisi di Russia, Brasile e Indonesia non erano solo crisi finanziarie, erano crisi che dipendono dall’impatto sociale della globalizzazione". E poi aggiunge: "Non credo che alla riunione del G7 abbiano bisogno di una nuova architettura del sistema finanziario, hanno bisogno di fare un’altra agenda e di capire che le ragioni delle crisi è l’aumento della povertà, l’aumento incontinente della popolazione e il fatto che ci sono nel mondo meno foreste". Così dice. Conclude dicendo: "che la protezione sociale, le pensioni - pensate a quello che si dice - l’educazione e la sanità sono punti essenziali di un sistema che assieme agli aspetti sociali può dare stabilizzazione anche ai sistemi di cambio". E aggiunge: "Da soli i sistemi di cambio non si stabilizzano". Fa un discorso molto avanzato.

Nello stesso giorno La Fontaine dice: "Io credo che bisogna prendere atto che il liberismo e il monetarismo sono finite come ideologie dominanti". Non uno zuccherino, va piuttosto pesante. "Occorre un intervento sui cambi e soprattutto dei controlli sui capitali a breve termine quelli che sono soggetti a maggiore speculazione. Io credo che un intervento pubblico e la spesa pubblica siano una necessità anche a costo di una crescita dell’inflazione. Quindi credo che più che il patto di stabilità a cui io mi inchino, debba contare in questo momento per i governi europei un rapporti tra crescita e occupazione; sottolineo quello che sembrava una svolta non più reversibile se si va tutti in quella direzione. Sarà una battaglia molto dura al riguardo.

E poi finisce dicendo questa cosa: "E’ bene che sulla finanza ci si attrezzi a colpire la speculazione e non l’economia reale". Anche Soros arriva a dirlo, uomo nato dentro la speculazione e dice a proposito della trattativa sul patto sociale, dato che noi abbiamo detto il patto di Natale è un punto di riferimento per tutta l’Europa, lui dice una cosa in più: "Vogliono gli industriali intervenire sul costo del lavoro? Bene, si può fare solo se si interviene contemporaneamente sui tassi". Un buon accordo è dire fino a quanto cresce il costo del lavoro, fino a quanto possono crescere i tassi perché così non si scarica sul costo del lavoro la questione dell’occupazione.

Finisco dicendo che a noi sembra opportuno questo incontro. Mi auguro tra l’altro che il gruppo dirigente della Lombardia poi lo riprenda, lo rielabori, ne faccia tesoro, e noi faremo due cose, pubblicheremo un piccolo reprint con tutti gli interventi dei relatori in un tempo molto breve, i passi più importanti delle relazioni vengono messi, al massimo entro dieci giorni - sul WEB della Cgil Lombardia che io invito sempre a leggere perché è in tempo reale, è continuamente cambiato, è un grande strumento di comunicazione e viene però con grande determinazione non letto all’interno della Cgil forse per un punto d’onore che però non ci riesce molto chiaro, si chiama http//:www.lomb.cgil.it. Oggi abbiamo 1.600 entrate e solo il 31% viene dalla Cgil. La cosa non si capisce. Noi da dieci in giorni in qui metteremo sulla pagina Cgil Lombardia gli interventi registrati, si schiaccia un bottone e si sente la radio. Guardate che oggi alle sei di sera se schiacciate Radio Popolare avete le notizie di Popolare Network a casa vostra sul computer con il costo di una telefonata. Naturalmente non lo fate, non sentitela perché questo tranquillizza molto di più.
 
 

Intervento di Riccardo Petrella, membro del gruppo di Lisbona

Buongiorno a tutti. Vorrei anzitutto ringraziare Mario per avermi permesso di essere con voi stamane e anche perché ha già detto quasi tutto e quindi ha un pochino facilitato il compito. Allora io tenterò con il mio intervento prima di capire perché il direttore generale della Banca mondiale, perché un dirigente del paese così importante come la Germania cominciano ad affermare delle cose che i militanti hanno tentato di dire durante gli ultimi quindici-venti anni e abbiamo continuato a dire.

Tenterò di capire qual è stato l’avvenimento nel cuore del motore della modernizzazione capitalista degli ultimi venti anni. Quindi primo punto, tentare di capire qual è stata la reazione nucleare del nostro sistema, e allora poi tenterò di vedere quali sono le conseguenze in particolare su tutto il problema centrale della rappresentanza politica, della cittadinanza e democrazia dell’identità a livello individuale delle persone e poi a livello mondiale e poi tenterò di fare delle proposte con una cosa molto precisa come punto finale. Spero di riuscire a trattare tutte queste cose in una trentina di minuti.

Qual è il cuore del sistema? Il cuore del sistema a mio parere porta su due cose: porta sulla moneta che è diventata una merce e la moneta non è più uno strumento in mano del potere politico per manovrare, controllare l’allocazione delle risorse disponibili e la ripartizione dei guadagni di produttività. Tutte le politiche keynesiane e tutte le politiche basate sul welfare, implicavano il controllo da parte dei poteri pubblici e della moneta, e poi della moneta a livello nazionale. Ecco perché potevano intervenire stimolando gli investimenti oppure il consumo, e poi potevano fare una politica fiscale e quindi avevano una certa autonomia della politica di bilancio perché la politica di bilancio era lo strumento attraverso il quale una nazione determinava le priorità di allocazione delle risorse.

Quello che è successo negli ultimi venti anni, è che la moneta è stata trasformata in una merce e come tale sfuggita al controllo dei poteri politici nazionali, e siccome anche i poteri politici internazionali non esistono perché l’Onu e tante altre cose non sono dei poteri politici, la moneta è diventata una merce di scambio e di valore nei mercati finanziari. Ecco perché i mercati finanziari hanno preso l’importanza che hanno assunto negli ultimi venti anni perché sono i mercati finanziari che determinano il valore delle monete.

Il valore di scambio come anche il valore di utilità, cioè il valore in termini di averi finanziari in quanto tali. Dire, oramai la moneta può essere valore di utilità, indipendentemente dal fatto che sia un mezzo di pagamento e che sia un mezzo di accumulazione del capitale che è invece la funzione tipica della moneta. Questa è la prima grande cosa che è cambiata ed ecco perché la politica monetaria è diventata sovrana. La sovranizzazione della politica monetaria che dice che oramai tutte le altre politiche dei poteri pubblici non possono incidere sulla politica monetaria, mentre invece la politica monetaria può incidere sugli obiettivi delle altre politiche (economiche, sociali, di trasporto, di commercio ecc.) questa sovranità della politica monetaria è necessariamente accompagnata al fatto che la moneta sia diventata una merce.

Perché è sovrana? Perché la mercificazione di tutto ha dato autonomia alla merce e oramai le merci sono sfuggite al controllo degli stati e del potere politico. Ecco allora l’indipendenza delle banche centrali: l’indipendenza delle banche centrali è legata alla sovranizzazione della politica monetaria. Vi ricordo che la politica monetaria significa stabilità dei prezzi. Questa è la politica monetaria: tentare di portare il tasso di inflazione vicino a zero. Zero inflazione è il massimo della politica monetaria.

Ecco perché la mercificazione della moneta, e quindi la presa di controllo da parte dei mercati finanziari ha fatto sì che le politiche degli Stati erano delle politiche deflazioniste, erano politiche che tentavano di mantenere i prezzi vicino a un tasso di inflazione zero. Ecco perché le politiche fiscali hanno dovuto orientarsi verso una diminuzione della pressione fiscale, quindi sulla tassa dei capitali ed altro, e poi avevano dovuto fare le politiche di bilancio di riduzione delle spese pubbliche in particolare riduzione delle spese dette del welfare.

Ecco perché - altra conseguenza maggiore - abbiamo assistito allo smantellamento progressivo del welfare, e questo smantellamento progressivo del welfare si è tradotto in una amputazione fondamentale e strutturale dei famosi diritti sociali che erano i diritti sociali coprenti il trasferimento di reddito attraverso l’intervento pubblico. Ed ecco perché la gente, diminuendo i trasferimenti di reddito attraverso l’intervento pubblico, il reddito reale disponibile della gente è diminuito, perché il nostro reddito medio disponibile era il salario più i trasferimenti sociali. A partire da quel momento, i salari sono diminuiti perché in tutti i paesi del mondo occidentale il salario medio settimanale è inferiore a quello del 1979. La gente lavora di più per essere pagata meno, e quindi il salario - soprattutto il salario reale - è diminuito. E poi c’è stata la diminuzione dei trasferimenti sociali, e quindi anche lì c’è una riduzione del reddito. Ecco perché mediamente la gente, a partire dal 1975 al 1976 è diventata più povera mentre prima, tra il 1945 al 1975, la gente era diventata più ricca.

Il secondo punto del reattore del capitalismo mondiale è stata l’affermazione graduale del diritto di proprietà intellettuale. 

Non a caso, una delle debolezze della sinistra è che non si è mai preoccupata di queste cose mentre invece il capitalismo se n’è occupato benissimo. Il diritto di proprietà intellettuale non è solamente il diritto d’autore. Il diritto di proprietà intellettuale significa che un’impresa attraverso i meccanismi della brevettazione, si impadronisce a titolo di proprietà dei beni, qualunque bene che possa essere una bottiglia o che possa essere un seme, o che possa essere il genere umano. Ed è quello che è successo. 

Negli ultimi venti anni, per esempio nel campo agricolo, oramai l’82% dei semi del mondo sono proprietà di Monsanto. E questo per darvi un esempio perché non posso parlare troppo, un anno fa Monsanto ha cacciato fuori un transgene che si getta in un seme e si uccide la capacità di riproduttibilità di questo seme. Si chiama non a caso, come nei film animati, si chiama terminator; terminator significa che un seme una volta che è piantato non si riproduce più, non si può ricoltivare e tutti i contadini del mondo, una volta che hanno acquistato un seme perché oramai loro non sono più proprietari perché abbiamo ceduto la terra, gli abbiamo ceduto le foreste e queste grandi compagnie sono proprietarie del capitale biotico della terra, sono proprietari dei semi, sono proprietari delle specie vegetali, sono diventati proprietari delle specie animali e quindi oramai i contadini devono acquistare i semi che sono selezionati. Monsanto obbliga loro di prendere anche i pesticidi perché se non prendono i pesticidi quel seme eccetera eccetera e quindi i contadini sono diventati praticamente manica, testa, capelli e piedi legati a Monsanto. Con il terminator l’anno dopo devono ricomprare il seme da Monsanto perché non lo possono riprodurre.

Ecco perché un mese e mezzo fa i contadini indiani hanno devastato tutta una serie di piantagioni e si sono opposti a dover pagare a Monsanto. I contadini brasiliani stanno cominciando a fare la stessa cosa. I contadini senegalesi la stessa cosa perché nel frattempo, guarda caso, il capitalismo mondiale si è rimpadronito di tutta la terra. 

Da due anni a questa parte, il 18 maggio scorso attraverso il Parlamento Europeo, otto anni fa con il congresso americano, siccome il congresso americano dice ‘io non legifero più su leggi e nomi umani, lascio libera la gente’, invece il Parlamento Europeo ha messo le restrizioni però ha lasciato libero la possibilità da parte delle imprese di acquistare con il diritto di proprietà intellettuali dicendo ‘questo gene l’ho scoperto io e ho fatto i prodotti geneticamente modificati, il mais per esempio. Il mais non è proprietà della natura è proprietà dell’impresa.

Ho visto sui tavoli Biotec il volume di Rifkin. Rifkin ha dimostrato che con queste legislazioni nei prossimi anni noi daremo al capitale privato il potere, attraverso i diritti di proprietà intellettuale, di appropriarsi delle centinaia di migliaia di geni che compongono il capitale biotico umano. Io vi consiglio di avere dei geni cattivi che producono cancro, che producono ulcere, che producono tutto perché se avete dei geni buoni cioè che permettano di non avere ulcera, cancro eccetera, vi compreranno a pezzettini il laboratorio e il vostro corpo diventerà proprietà immediata di chissà chi.

Un altro esempio della proprietà intellettuale. Alcune compagnie che sono legate anche a Microsoft, stanno comprando tutte le basi e le banche di fotografia del mondo. Perché con la numerizzazione attuale, coloro che si impadroniscono di una foto e poi la numerizzano, dicono che la foto numerizzata è la loro, e depositano brevetti. Non so se avete visto sui giornali un mese fa, c’è stata una polemica negli Stati Uniti tra questa società che aveva cominciato a raccogliere tutte le fotografie disponibili nelle città americane e un film dove il proprietario aveva deposto il brevetto e glielo hanno dato, di una foto numerizzata della facciata della Borsa di New York e ha portato causa a un produttore di film che aveva utilizzato la fotografia della facciata della Borsa dicendo "tu non puoi utilizzare la facciata di Wall Street perché oramai è depositata, io solo ho il diritto di proprietà intellettuale sulla fotografia della facciata di Wall Street". Non è uno scherzo, questo è vero. Attraverso il diritto di proprietà intellettuale noi abbiamo dato il potere di proprietà di tutto al capitalismo.

Perché è successo questo? Perché nel frattempo quest’altra parte dello schema è tutto il processo di liberalizzazione, di deregolamentazione, di privatizzazione, il processo di competitività, il processo che l’innovazione tecnologica è l’unico strumento attraverso il quale si può fare valore aggiunto, si crea ricchezza e l’innovazione tecnologica è sempre un’innovazione ogni giorno in innovazione di processo che tenta di ridurre i costi, aumentare la qualità, migliorare la varietà, aumentare la flessibilità eccetera. Tutte queste cose che negli ultimi venti anni sono diventati principi ispiratori a tutti noi perché io credo che pochi di noi si siano battuti per esempio contro l’innovazione tecnologica. Pochi di noi, ed è una delle debolezze della sinistra, è che la sinistra in tutto il mondo non ha mai avuto una concezione autonoma della politica della scienza e della tecnologia. La sinistra si è occupata dell’utilizzazione della tecnologia. Dice: ‘Io voglio un’utilizzazione socialmente buona, tu voi...’ però non siamo rimontati all’origine della politica della scienza e della tecnologia, perché anche la sinistra è scientista, tecnologicista, produttivista perché anche noi dipendiamo dal 19esimo secolo. Non per nulla il barbone Marx celebrava con grande poesia e con grande capacità lirica i caminetti delle imprese e sputava sopra sulle campagne conservatrici, razionarie e così via. E noi ancora dipendiamo da queste cose, e poi è la storia e quindi non bisogna avere paura di riconoscere queste cose.

Tutta la liberalizzazione, la deregolamentazione, la privatizzazione, la competitività, l’innovazione tecnologica crea questa mondializzazione. Quindi tutte le conseguenze di questa cosa, di questo reattore, la prima è l’implicazione di questa mondializzazione, è che questa mondializzazione non solo è irresponsabile ma è invece voluta. Questa mondializzazione non è il risultato di cospirazioni, nè cospirazioni nè casca dal limbo del cielo, sono strategie che si sono venute accumulando negli ultimi venti anni - e questa sempre la parte del cuore - con un obiettivo fondamentale che è quello di aumentare il tasso di profitto del capitale.

Cosa era successo negli anni Sessanta? Alla fine degli anni Sessanta inizio anni Settanta, si è constatato che il tasso di profitto del capitale diminuiva, anche perché diminuiva la produttività. In quella fase le nostre economie erano saturate - la crisi della nostra economia è cominciata dagli anni Settanta -, oramai sono più di vent’anni che c’è questa fase di stagnazione perché i nostri paesi sono saturati, e tutte le aperture verso i mercati emergenti (Brasile, India, Asia, Cina) non hanno contribuito a far sì che il tasso di crescita delle nostre economie avanzasse aumentasse perché il mercato non è stato aumentato. La domanda globale aggregata non è aumentata così considerevolmente al ritmo stesso dell’innovazione tecnologica, però negli anni Sessanta inizio anni Settanta c’era una perdita di tasso di produttività globale all’interno del tasso di profitto del capitale. E tutti i capitalisti del mondo hanno detto basta, qui bisogna terminare. Ed ecco che lì è cominciata tutta la liberalizzazione, tutta la deregolamentazione, tutta la privatizzazione, tutta la competitività, bisognava restaurare il tasso del profitto del capitale elevato. In venticinque anni ce l’hanno fatta. Negli ultimi sei-sette nani il tasso del profitto del capitale è ricominciato a salire. Ecco perché tutti i redditi da capitale sono diventati sempre crescenti, mentre invece i redditi da lavoro sono diminuiti perché nella redistribuzione dei guadagni di produttività sono riusciti a far sì che il tasso di profitto del capitale fosse rispettato in priorità.

Quali sono le conseguenze? La prima conseguenza è la riduzione della persona a risorsa umana. Quello che è interessante, è che noi ancora una volta la sinistra, si è fatta prendere dalle forze conservatrici, prendere nel linguaggio, nelle narrazioni, nei discorsi. Chi tra la sinistra ha mai detto che non bisogna utilizzare il concetto di risorsa umana? 

La Cgil, i sindacati internazionali, la Cisl, si sono messi in lotta contro il concetto di risorse umane? Noi abbiamo accettato il concetto di risorsa umana, il diritto all’esistenza della risorsa in funzione della sua redditività: una risorsa umana che non è redditizia è buttata via e una risorsa umana che è meno redditizia di un’altra risorsa è rimpiazzata da un’altra risorsa che è più redditizia. Se per il capitale la risorsa umana in Indonesia o in Polonia è più redditizia di Milano perché il capitale deve utilizzare la risorsa umana a Milano? Soprattutto che gli abbiamo dato la liberalizzazione dei mercati, che gli abbiamo dato la deregolamentazione del lavoro, che gli abbiamo dato la privatizzazione di fare tutto quello che vuole, e gli abbiamo detto che lo deve fare e noi tutti siamo felici perché così aumenta la sua competitività. 

Come abbiamo potuto resistere il giorno in cui volevano chiudere, soprattutto che abbiamo anche noi accettato che la competitività dell’economia milanese e delle imprese milanesi è importante, e che la competitività delle imprese lombarde nell’economia mondiale è importante. Quelli dicono: ‘Scusate, io ho una risorsa, la voglio molto qualificata la risorsa e più è qualificata la pago bene però voglio avere anche risorse mediamente qualificate che pago poco altrimenti vado in Indonesia oppure in Polonia’.

Ed ecco allora che non siamo più persone, non siamo più lavoratori. Prima i diritti erano dei diritti universali e inalienabili inerenti alla persona, ma oggi, invece, quali diritti ha la risorsa umana? Avete mai visto un sindacato della risorsa umana? Avete mai visto una risorsa umana fare sciopero? Una risorsa è da combinare con un’altra risorsa! Ecco perché le risorse umane non hanno più diritti! Cosa hanno eventualmente? Hanno diritti irreversibili. Ecco perché la destra del mondo ci dice che i diritti sociali sono irreversibili, dipende dal livello di finanziamento da parte dello Stato: si misura il grado di accesso ai diritti sociali umani in funzione della salute del sistema finanziario pubblico. Mentre prima i diritti sociali erano inerenti alla persona umana e quindi erano universali e inalienabili, oramai si è andati verso l’individualizzazione privatizzata dei diritti e se tu non te li finanzi più questi diritti te li tolgono.

Perché dal diritto alla pensione vogliamo passare alla capitalizzazione e non più al sistema di ripartizione? Perché si dice, il tuo diritto alla pensione è individualizzato. Non tutti devono avere un sistema universale, questo non è inalienabile. Tu te lo devi pagare, e se te lo paghi avrai diritto, il giorno che tu smetti di pagare non sei più solvibile e ti togliamo il diritto. La reversibilità è in funzione del tuo reddito. Ecco perché il capitale vuole avere tutto il mercato del lavoro e il mercato delle pensioni, ed ecco perché oramai il nostro futuro di pensione dipende dalle Borse, dipende dai mercati finanziari. Ecco perché invece di sbagliarvi, non dovete fare solo un fondo di pensione ma dovete farne parecchi. Ecco perché dovete assicurarvi, fare due o tre assicurazioni di pensione perché se ne sbagliate una arrivederci. 

Per questo tutti quanti noi siamo destinati a diventare dei gestori di portafoglio dei rischi. Bel progresso! Noi tutti quanti dobbiamo diventare dei gestori di portafoglio a rischio, però, non abbiate molta fiducia sui modelli di trattamento rischio perché i due grandi premi nobel del management del rischio, che erano i due grandi consiglieri del Longcham Capital Management, o più l’ex vicepresidente della Federal Reserve Bank, il Longcham Capital Management ha fatto un buco enorme di quattro miliardi di dollari perché questi due che avevano ricevuto il premio nobel che avevano fatto dei modelli di gestione del rischio dei mercati finanziari si sono sbagliati. Quindi allora che potete fare voi poveri cristi che non sapete nemmeno che cosa significa un mercato finanziario secondario e terziario e invece dovete gestire la vostra pensione? Avete capito dove andate?

Altra cosa che è stata eliminata è che non siamo più cittadini, siamo consumatori e se tu non sei un consumatore che paga, arrivederci, soprattutto poi che sei un consumatore che diventa azionista. Ecco la terza via di Tony Blair. Capitalismo popolare. Tutti devono diventare azionisti dell’impresa e delle economie nazionali e così tutti quanti staremmo bene, ma come cittadini riusciremo mai a far sì che Shell non distrugga la sua piattaforma nel mare? Pensate un po’ se noi cittadini fossimo andati al Bundestag tedesco e avessimo detto, tu Bundestag devi fare una legge che impedisce a Shell di colare a picco la piattaforma. E chi ci credeva che saremmo riusciti a obbligare Shell attraverso il Bundestag? Invece cosa abbiamo fatto? Abbiamo boicottato le stazioni di benzina di Shell e Shell ha ceduto, altrimenti detto, noi siamo capaci di agire come consumatori perché come cittadini nessuno ci considera.

Tanto meglio allora se ci sono le campagne di consumatori responsabili, di consumatori attivi, perché questo significa una sconfitta della democrazia attraverso i parlamenti perché se non riusciamo a far cambiare la situazione che attraversa le campagne, mentre invece le leggi del Parlamento non servono a nulla, allora che facciamo? Allora accettiamo che la cittadinanza della democrazia passa attraverso il mercato.

Se accettiamo che l’unica maniera di essere veramente cittadini oggi in un’economia mondiale dei mercati è essere un consumatore attivo, significa che non abbiamo più bisogno dei Parlamenti e quindi riconosciamo che la democrazia, riconosciamo, altra conseguenza, l’indebolimento e la denigrazione della democrazia rappresentativa. Ecco perché allora oggi per mancanza di meglio cosa facciamo? Stiamo diventando tutti degli entusiasti per la democrazia del cyber-space e che tutti diventiamo parti terminali attivi, responsabili del network society. Finalmente siamo tutti i nuovi cittadini nel cyber-democracy perché non crediamo più nel Parlamento.

Una cosa pratica che dobbiamo fare, per me, è difendere i parlamenti e inventare nuove forme parlamentari. E una funzione che penso anche i sindacati devono continuare a esercitare è riaffermare la priorità del politico: i sindacati devono battersi per un politico, efficace rappresentativo e legittimo.

Altra conseguenza sulla quale altri amici interverranno, è il primato della finanza sul politico. Cioè dire oggi, praticamente che il politico è nel bagagliaio dell’automobile e il finanziario è alla guida dell’auto; tutto il problema è sapere di come riportare il politico che è nel bagagliaio dell’auto, riportarlo a essere seduto al posto di guida perché al posto di guida oggi, per le ragioni che vi ho detto, c’è il finanziario.

Ecco perché dobbiamo batterci contro la sovranità della politica monetaria e contro l’indipendenza delle banche centrali ma ritornerò brevemente su questo punto.

Poi c’è una logica di conquista. Dentro questa mondializzazione in fondo c’è una logica di inevitabilità della guerra. La mondializzazione attuale non ci dice che c’è pace, la mondializzazione attuale ci dice che siamo tutti oramai guerrieri in un mercato mondiale sempre più in cambiamento dove l’innovazione oramai modifica e destabilizza tutte le posizioni acquisite. Oramai ci si dice che non ci sono più vantaggi comparativi, le uniche cose che esistono sono i vantaggi competitivi e la competizione significa uccidere il rivale, togliere il concorrente. Ecco perché siamo in una logica di guerre economiche, di guerre commerciali e di guerre tecnologiche. Ed ecco perché gli americani hanno anche inventato l’inevitabilità, in questa guerra ci sarà l’inevitabilità del conflitto tra civiltà. Gli americani hanno ormai teorizzato il fatto di dire, siccome loro sono i dominanti di questa civiltà occidentale, è più si mondializza più le altre civiltà attaccheranno le civiltà occidentali, ed ecco perché la sicurezza degli Stati Uniti diventerà il problema maggiore del Ventunesino secolo. Questo è il discorso fatto allo Stato delle Nazioni di Clinton; il discorso allo Stato delle Nazioni di Clinton è stato: il Ventunesimo secolo si aprirà con il grande problema della sicurezza contro gli Stati Uniti e io come presidente devo assicurare la sicurezza degli Stati Uniti, e quindi investo tutto sul problema sicurezza, la sicurezza contro la criminalità informatica, contro la criminalità biologica, contro la criminalità di ogni forma. 

Tutto il mondo ormai deve sapere che gli Stati Uniti non accetterranno mai che sia messa in pericolo la loro sicurezza interna, ed ecco perché la sicurezza degli Stati Uniti diventerà il grande problema come già Reagan aveva tentato di fare.

Ed ecco perché tutte le politiche finanziarie, le politiche tecnologiche saranno orientate verso questo problema della sicurezza, ed ecco perché saremo sempre in uno stimolo di guerra, ed ecco perché saremo sempre sotto ricatto dal fatto ‘ma tu che vuoi? (cambio lato cassetta) ... dato alle ortiche, ecco che allora si smantella il welfare, ecco perché si parla di nuova alleanza tra Stato e imprese e Stato e mercato. Quello che è bello che oggi noi della sinistra partecipiamo anche a pensare che oramai il buono Stato sia lo Stato che abbia come funzione storica quella di creare le condizioni affinché il mercato possa esercitare la sua funzione principale di meccanismo prioritario di allocazione delle risorse. 

Lo Stato non è quello che definisce gli obiettivi, quello che definisce le regole, ma lo Stato è quello che crea l’ambiente più favorevole affinché il mercato resti il dispositivo che assicura la selezione delle priorità nell’allocazione delle risorse e assicuri la selezione e la priorità nell’area di distribuzione, guadagni e produttività cioè la distribuzione della ricchezza. Abbiamo oramai paura di difendere lo Stato, e tutto ciò che comporta i Parlamenti e i servizi pubblici ed ecco perché ora abbiamo liberalizzato e praticamente privatizzato l’elettricità. Il giorno in cui oramai abbiamo liberalizzato e regolamentato l’elettricità, automaticamente, siccome questi sono servizi in termini anche tecnici che vanno insieme a causa delle canalizzazioni - i gas, il metano per le città - liberalizziamo fra poco anche l’acqua, e l’acqua sarà privatizzata. Le cose vanno insieme. Questi si chiamano i lavori pubblici. Tutto ciò che è telefono, gas, elettricità, acqua, sono insieme, fanno parte delle stesse canalizzazioni. Ecco perché molte volte le società vanno insieme, e una volta che avremo privatizzato le canalizzazioni di gas, di metano eccetera - abbiamo già privatizzato le canalizzazioni di Telecom - privatizzeremo anche l’acqua perché sono insieme. Quindi daremo proprietà all’acqua e attraverso l’acqua daremo la proprietà dell’acqua come avremo dato la proprietà della terra, come avremo dato la proprietà dei geni, del capitale biotico. 

Non è un caso che noi ci troviamo in una riesplosione delle ineguaglianze socio-economiche e politiche ed ecco perché il direttore della Banca centrale ha ragione. La modernizzazione attuale fa riesplodere tutte le ineguaglianze, ed ecco perché piuttosto di una modernizzazione responsabile si ha una modernizzazione dell’espropriazione, ci hanno espropriato la persona umana, ci hanno espropriato la cittadinanza, ci hanno espropriato la democrazia, ci hanno espropriato la solidarietà dicendo che bisogna essere competitivi, ci hanno espropriato della giustizia dicendo che bisogna essere efficaci, ci hanno espropriato dello Stato dicendo che c’è lo Stato, è il mercato che conta, ci hanno espropriato della giustizia con l’efficacità e poi con la tecnologia, ci hanno espropriato del culturale dicendo tutto era invece merce, ci hanno espropriato dell’umano dicendo tutto è tecnologia, ci hanno espropriato di tutto. Ecco che è lì che si inserisce bene il discorso di La Fontaine, è lì che si inserisce bene la protesta che dobbiamo fare però capace di poter fare l’alternativa. 

Qual è l’alternativa? A mio parere il nodo principale è la finanza. Ora non voglio prendere la parola per Enrico Bigli e per Marco Vivarelli però è centrale la finanza, perché come dicevo prima, il cuore del reattore nucleare dell’economia capitalista di mercato è la moneta merce. In fondo se volete l’economia è un po’ così oggi. L’economia è come una mongolfiera: avete l’economia finanziaria, e l’economia reale è la navicella. L’economia reale oramai non è che alimenta l’economia reale nè l’economia finanziaria è al servizio dell’economia reale: l’economia reale è sballottata secondo i venti dei mercati finanziari. 

Di tanto in tanto il gas, che è il capitale, le monete eccetera, cosa fa? è come l’ulcera nello stomaco che di tanto in tanto fa un piccolo buco sulla coperta della mongolfiera, lacera il tessuto e c’è il vento e allora questa mongolfiera sbanda. Il peso quando il buco è più grosso si parla di una crisi finanziaria, quando corre nel sud-est asiatico si parla di una grossa crisi finanziaria. 

E poi la gente dice che a un certo momento più si dà gas, che significa liquidità - molta gente dice che la crisi è la liquidità perché c’è tanto denaro che circola in tutte queste cose - la gente si aspetta una crisi del sistema, che il pallone scoppia. Nel frattempo cosa succede? Per poter governare sto pallone che è erratico, instabile, perché la volatilità dei tassi di interessi l’instabilità dei tassi di cambio anche con l’euro eccetera, fa sì che questo pallone sia veramente instabile. Cosa fa chi guida la navicella dell’economia reale? Tentano di buttar via gente e peso della navicella. Ecco perché si elimina gente dal mercato del lavoro, ecco perché si abbandonano paesi ma un certo momento hanno abbandonato la Corea del Sud, hanno abbandonato l’Indonesia. Cosa è successo in Indonesia? Dal luglio del ‘67 60 milioni di gente è diventata povera, mica stiamo parlando di barzellette! Ora nel Brasile più di 30-40 milioni si comincia a dire che erano già poveracci, quelli che non erano poveracci stanno diventando poveri.

Siamo a botte di milioni di gente che sono abbandonati dall’economia reale. Cosa bisogna fare? A mio parere bisogna - e Oscar La Fontaine ha ragione - cominciare a rimettere controlli sui movimenti dei capitali. Caso strano, proprio in questi giorni che è finita la ratificazione da parte dei vari Stati dell’accordo realizzato sulla liberalizzazione dei servizi finanziari a livello dell’organizzazione mondiale del commercio, il quale ha celebrato come una grande vittoria da un certo signore che si chiama Renato Ruggero di matrice socialista che celebra la liberalizzazione dei servizi finanziari come un grande progresso dell’economia mondiale e il benessere dell’umanità. Allora noi invece dobbiamo tentare di mettere dei controlli sui movimenti dei capitali. Poi bisogna effettivamente lottare contro la speculazione perché questa palla oggi è stimata 2mila miliardi di dollari al giorno di transazioni; ora, secondo le stime più ottimiste il montante delle riserve accumulate da tutte le banche centrali del mondo sviluppato raggiunge al massimo 1200 miliardi di dollari. Le stime reali vanno tra 800 miliardi a 1000 miliardi di dollari. Voi dovete pensare che tutti questi movimenti, anche se tutte le banche centrali si mettessero d’accordo non arriverebbero mai a poter lottare contro i movimenti attuali dei mercati finanziari. Ecco perché allora è ironico che noi negli ultimi anni, con tanti governi che si dicevano socialisti, abbiamo riconosciuto l’indipendenza dalla banca centrale al politico mentre sappiamo benissimo che le banche centrali non sono indipendenti dai mercati finanziari.

Le banche centrali stabiliscono il tasso di sconto non perché orientano i mercati finanziari ma lo fanno sempre in reazione all’evoluzione del mercato. Mai e poi mai negli Stati Uniti o in Inghilterra, adotterebbero delle misure di inflazione che obbligherebbero i mercati finanziari a reagire. La logica della Federal Reserve Bank, come di tutte le banche centrali, è di aggiustare eventualmente i comportamenti nefasti o le insufficienze del mercato finanziario, non di orientare il mercato finanziario. E a Davos, alla fine di gennaio inizi di febbraio, a Davos il signor Rubin segretario di Stato per il Tesoro americano ha detto: "Ora si parla di nuove regole ma noi americani siamo contro ogni regolamento del mercato. Il mercato deve essere lasciato libero". Cosa ha proposto Rubin? Rubin ha proposto due cose per risolvere la crisi finanziaria: è un problema di revisori di conti di contabilità delle imprese. Che tutti facciano come le imprese americane. E poi la più grande prudenza degli investitori istituzionali. Ha detto agli investitori: "Siate un po’ più prudenti".

Ecco la soluzione del governo americano per quanto riguarda la crisi finanziaria. Cosa dicono oggi gli americani? Gli americani, e anche molti europei, dicono che la crisi finanziaria nei paesi del sud-est asiatico è perché le banche, le imprese, non hanno nessun sistema di contabilità. Ecco perché non funzionavano perché non hanno delle buone banche, non hanno delle buone assicurazioni, non hanno delle assicurazioni dei mercati finanziari, non hanno delle Borse che funzionano, non hanno regole. E l’hanno scoperto ora che non hanno regole? Sono trent’anni che pompano, pompano e scoprono ora che non ha regole? Ci prendono per degli imbecilli! Ecco perché allora le quattro grandi società di Account (Andersen ...) diventano quelle fondamentali, che dicono come devono comportarsi.

E la seconda cosa è la prudenza. Noi dobbiamo difendere l’obiettivo che bisogna rimettere i controlli sui movimenti di capitali a livello nazionale, a livello europeo; bisogna impedire questa palla finanziaria, bisogna applicare il controllo dei depositi come si fa in Cile. Poi, come siamo riusciti a impedire l’AMI (accordo multi..... sugli investimenti) bisogna invece avere delle condizioni per i requisiti, bisogna sempre avere una contrattazione sulla riutilizzazione dei profitti sul luogo, avere dei coefficienti locali, dei fattori e delle risorse, rispettare le leggi sociali, rispettare i pre-requisiti ambientali. Bisogna avere questo, il capitale non può essere libero. Il numero uno della distribuzione Wall Mart non può venire in Italia e comprare tutte le grandi case di distribuzione; l’ha fatto nel Quebec, hanno acquistato tutto e dopo fra qualche settimana cominceranno la razionalizzazione ed elimineranno migliaia di persone. 

Perché un capitale può acquistare tutto? Perché domani la General Motors può venire ad acquistare la Fiat e poi smantellarla? Non vi preoccupate prima o poi se la Fiat non si fa tanti e tanti capitali e non acquista tante altre cose se la mangiano. Fra dieci-quindici anni la Fiat può sparire. E perché il capitale può venire? Dice, io assicuro uno maggiore utilizzazione della risorsa finanziaria. Io assicuro un’allocazione ottimale della risorsa finanziaria nel settore automobilistico e quindi garantisco la più grande efficacia produttiva delle risorse nel settore automobilistico. Chi decide che questo è più efficace? E’ chiaro, c’è solo un parametro oggi che decide: è la crescita del valore degli averi degli azionisti.

Bisogna intervenire con tutta una serie di misure, e quindi bisogna rivedere tutti i principi di liberalizzazione, di privatizzazione, bisogna fare la lotta contro l’eliminazione dei paradisi fiscali. Ci sono 37 paradisi fiscali. E poi migliaia e migliaia di centri di coordinamento internazionale dove il capitale non paga. E poi si dice che tutti quanti fanno lo sport dell’evasione fiscale, è chiaro! Voi sareste veramente bischeri se pagaste le tasse. Ci avete dato occasione di fare l’evasione fiscale perché dovete pagare le tasse? Bisogna eliminare i paradisi fiscali, bisogna eliminare che siano le sei società di rating che determinano la salute e la sanità di un’economia finanziaria. Oggi ci sono sei società private che stabiliscono se un paese è buono, se un’impresa è buona, se un’azione è buona. E perché bisogna lasciare queste cose?

Bisogna intervenire. Però per intervenire nella finanza bisogna che l’economia reale riprenda. Ecco perché La Fontaine dice: rilancio di una politica macro-economica di investimenti pubblici, di stimolo della domanda eccetera eccetera, perché vuole un’economia reale. 

Per l’economia reale bisogna orientarci verso un contratto sociale mondiale. E qual è il contratto mondiale? Primo, una logica della creazione di beni e servizi di base per la popolazione. Oggi su circa 5,8 miliardi di gente 1,7 miliardi di gente non ha casa, vive nelle strade o nelle catapecchie. 1,4 miliardi di gente non ha accesso all’acqua potabile. Arriviamo secondo il nostro calendario al Terzo Millennio e c’è ancora 1 miliardo e 400 milioni di gente che non ha acqua, che non sa cosa è una goccia d’acqua potabile.

E poi diciamo che siamo nella nuova economia. Ma che tipo di economia abbiamo che non sappiamo dare dei rubinetti d’acqua a 1 miliardo e 400 milioni di gente! Però il fast-food! 23mila punti di vendita di McDonald’s; 40 milioni di clienti al giorno, 23mila punti di vendita di consumazione. E questo lo si sa fare, però i rubinetti d’acqua non si sanno fare! Ecco perché bisogna la res pubblica di base in un contesto di pluralità e diversità delle logiche di contratto sociale. 

Ecco che bisogna andare verso un governo a livello mondiale della solidarietà, la solidarietà tra persone non la competitività. La solidarietà fra le comunità e i popoli e non la guerra economica, la solidarietà tra le generazioni, la solidarietà tra le generazioni e non dire che le pensioni devono essere destinate in Borsa. Cosa significa far dipendere alle generazioni nostre prossime solo dal valore delle Borse? Ecco che bisogna, in un contesto di sicurezza mondiale dove i problemi di identità, della cittadinanza, dei saint papier... Abbiamo fatto bene in Italia a dare questa politica di riconoscimento alle 250mila persone che avevano fatto domanda di essere integrate, una delle rarissime belle cose che noi italiani abbiamo fatto negli ultimi anni, e dobbiamo essere fieri. Quindi ristabilire la sicurezza mondiale in un contesto di rappresentatività per dare poi la sicurezza cioè ai suoi beni e ai servizi di base.

L’Inghilterra da cinque anni ha diminuito l’accesso dell’acqua alla gente; l’Inghilterra all’inizio di questo secolo era un paese dove tutti avevano accesso all’acqua potabile. Oggi alla fine di questo secolo oramai ci sono strade a Londra che non sono servite all’acqua potabile perché sono abitate da gente che non può pagare e quindi hanno chiuso. Vi segnalo tra l’altro che nel 1951 la Gran Bretagna era il paese che aveva il reddito pro-capite più elevato del mondo; nel 1976 ancora erano quarti; nel 1995 sono undicesimi. Questa è tutta la liberalizzazione, la deregolamentazione, la privatizzazione. Stanno diventando poveri sotto Tathcher e altri e anche Blair.

Noi possiamo fare le cose, non è vero che è impossibile battersi contro questo sistema. Vi do’ un esempio concreto che porta sulla Banca Centrale Europea.

Cosa farete voi il 13 giugno prossimo? Il 13 giugno prossimo voteremo perché ci sono le elezioni europee: andrete a votare attualmente dei candidati che per l’80% sono favorevoli all’indipendenza della Banca Centrale Europea e quindi favorevoli all’indipendenza della Banca Centrale dai mercati finanziari. Allora vi suggerisco che noi possiamo cambiare questa cosa, e cominciare a fare un’azione del cittadino che informa tutti i partiti politici. Quelli fascisti e nazisti no, però quelli di centro, diciamo le tre grandi famiglie, i liberali, i cristiano sociali se ce ne sono ancora e poi la sinistra, e gli diciamo: noi non voteremo quei candidati che non si impegnano formalmente, se eletti, a modificare lo statuto della Banca Centrale Europea e a battersi contro l’indipendenza della Banca Centrale. Se voi non fate questo è inutile riunirsi qui di nuovo fra sei mesi o un anno perché avrete continuato a mantenere delle strutture di decisioni politiche che non hanno niente a che vedere con tutti i nostri principi che difendiamo perché l’indipendenza della politica monetaria, la sovranità della politica monetaria, l’indipendenza della Banca Centrale Europea significa fare tutto ciò che voi non volete. E allora perché andate a eleggerli? Io non vi dicono di fare l’astensione, vi dico di andare alle elezioni e votare per il Parlamento Europeo e dire alla gente che voi voterete solo quei candidati che si impegneranno a cambiare la situazione altrimenti fra un anno saremo qui e ancora discuteremo come il capitalismo ha vinto.

Quando poi tutti quanti andremo dal buon Dio, il buon Dio vi domanderà: cosa hai fatto il 13 giugno? E voi non potrete dire: ma io non lo sapevo perché il buon Dio vi dirà: guarda che in febbraio a Milano il Petrella ve l’ha detto!
 
 

Intervento di Enrico Bigli, esperto finanziario

Il mio intervento sarà, per alcuni versi, diverso rispetto a quello che mi ha preceduto.

Rispetto l’intervento che mi ha preceduto ho molto meno certezze circa i rapporti che ci sono tra finanza ed economia, molto meno certezze dei rapporti di pendenza della politica monetaria, che sarebbe il controllo della politica di bilancio e così via, mi sembra che i rapporti siano molto più complessi tra questi fattori. Avrei molto meno certezze che una banca centrale europea piuttosto che una banca nazionale controllata dal governi e dai vari governi sia un fattore meno forte per combattere la finanza. Non vedo uno scontro tra banche centrali governate dalla finanza perché indipendenti e una banca centrale che invece è controllata dai governi possa a questo punto essere una cosa diversa.

Mi pare che le cose siano più complesse, se potessimo ridurli a certi schemi le cose andrebbero sicuramente meglio.

Un’altra premessa che volevo fare - dovrebbe essere ovvia ma preferisco dirlo prima - è che a me pare ragionare sullo sviluppo economico mondiale non possa prescindere dal ragionare sulla crescita del Pil mondiale. Io credo che poi ci sia un forte problema dopo, o contemporaneamente, non soltanto di crescita del Pil ma anche di distribuzione. Che i due problemi debbano essere affrontati contemporaneamente sì, ma dimenticarsi che se non aumentiamo la torta da distribuire di problemi ce ne sono per tutti. Non possiamo limitarci a una diversa distribuzione della torta che abbiamo, sarebbe un errore estremamente importante.

Queste le premesse che volevo fare. Volevo raccontarvi delle cose un po’ più specifiche di come si vedono le cose all’interno del mondo in cui io vivo che è quello della finanza.

Cos’è questa globalizzazione? C’è un indice di prodotti sintetici che si tratta a Chicago che si chiama Globecs. Questi indici funzionano 24 ore su 24; tutti gli operatori finanziari ormai per 24 ore su 24 hanno sui loro telefonini, ovunque, l’andamento della contrattazione di prodotti sintetici che stimano l’andamento delle cose del mondo attraverso le contrattazioni che avvengono a Globecs di Chicago. Tutti gli atti che gli operatori finanziari fanno, da quando vanno a lavorare, a Francoforte alle 8.30, a Zurigo alle 9, a Milano alle 10, hanno sempre come riferimento questa grande trattazione mondiale che è su questo indice che si chiama Globecs. 

Ciò testimonia come ormai il dato della finanza sia un dato mondiale e di grande interdipendenza mondiale di qualsiasi scelta all’interno della finanza. Ma testimonia anche un altro fatto che pervade e ha cambiato profondamente la finanza in questi anni, come però ha cambiato anche il dato dell’economia reale, forse in misura minore ma certamente anche l’economia reale va in questa direzione.

Tutta questa globalizzazione, che deriva principalmente da tecnologie, è l’introduzione di una serie di tecnologie prima inesistenti ed ora esistenti che trasformano e permettono alla finanza di trasformarsi. Il fatto di poter avere in ogni istante come vanno le cose in tutto il mondo, il fatto che attraverso l’utilizzo di procedure informatiche, qualsiasi cosa nel mondo sia su una merce (petrolio, rame o l’alluminio), si è su un indice di Borsa si è su una valuta, può essere trasformato in un prodotto sintetico confrontabile uno con l’altro e quindi in qualsiasi momento contrattabile e definibile. E un dato di tecnologia così come la tecnologia sta cambiando il modo di produrre, il modo di organizzare il lavoro e altre cose, e così ha trasformato profondamente la finanza. Badate, questa è una traformazione assai recente se pensiamo che ancora sino a un anno fa a Francoforte c’era la Borsa gridata, eravamo ancora a quei mercati in cui la gente si intendeva coi segni.

Cose di questo tipo sono oggi a breve distanza assolutamente inconcepibili. La creazione di grande velocità nella trasmissione delle informazioni di prodotti sintetici sempre più raffinati ha permesso un aumento enorme degli scambi. Ma badate, questo aumento enorme degli scambi deriva soprattutto dai dati di tecnologie nuove che sono applicate nella finanza. Si muovono in questo modo delle riserve assai rilevanti, delle masse di capitali come veniva spiegato prima, sono ormai difficilmente controllabili dalle banche centrali. Il discorso che le banche centrali sono ormai impotenti mi sembra assai semplicistico. Certamente oggi non hanno più il dominio le banche centrali rispetto ai mercati finanziari, rispetto ai cambiamenti che i mercati finanziari inducono che avevano dieci o quindici anni fa. E non li hanno perché da una parte c’è un processo di modernizzazione che dall’altra parte - e ne parlerò dopo - non abbiamo.

Accanto al dato della globalizzazione della finanza, però, esiste un altro dato altrettanto importante: le economie fanno tutt’altro che globalizzarli. Assistiamo da una parte alla globalizzazione del mondo della finanza, dall’altra a una frammentazione delle economie che in sè e tra di loro siano sempre più diverse. Ricondurre a un unico schema tutto quello che sta avvenendo nel mondo in questi anni è un errore a mio avviso grave perché bisogna capire i singoli avvenimenti, valutarli e saperli esaminare nella loro diversità.

Io voglio dire alcune cose che possono apparire banali ma se da una parte questo fatto delle crescite diventa sempre più globale, voi pensate che per esempio chi fa il mio mestiere adopera la crescita del Pil di un paese e le prospettive di crescita del Pil di un paese come uno dei dati decisivi per una scelta di investimento. Io tenderò ad investire in un paese dove c’è maggior crescita del Pil perché se il Pil cresce ci sono più opportunità di crescita delle imprese e quindi dei profitti e quindi i miei investimenti abbiano successo. Per esempio, in questo momento chi fa il mio mestiere è molto interessato ad investimenti in India perché, supponiamo che le imprese indiane abbiano grandi possibilità di sviluppo grazie a una potenzialità di crescita del Pil indiano tra l’8 e il 10% annuo nei prossimi anni, contro una possibilità di crescita in Europa inferiore al 2%. 

Non c’è nessuna corrispondenza tra un dato, in questo caso della finanza, interessata all’India e il dato di come starà la popolazione dell’India nei prossimi anni. E’ vero che il Pil indiano crescerà dell’8-10% ma è altrettanto vero che il Pil pro-capite dell’India nei prossimi 5-8 anni è destinato a rimanere invariato attorno ai 500 dollari pro-capite.

E’ vero che la previsione di crescita del Pil giapponese nei prossimi 5 anni è decisamente inferiore all’1% all’anno, eppure la previsione di crescita del Pil pro-capite giapponese passa dai 27-28mila dollari attuali ai 33mila dollari pro-capite. 

Gli avvenimenti sono estremamente complessi perché se da una parte cresce il Pil del paese, dall’altra parte si ha un aumento demografico a questa esplosione in India, questa crescita non sarà mai sufficiente per migliorare il tenore di vita di quelle popolazioni. Per loro è un problema che la demonizzazione della finanza non risolve, anzi, in questo caso la finanza probabilmente porta un contributo complessivo all’India, ma se non c’è quest’altro pilastro, per esempio, di in qualche modo un dato di controllo demografico non c’è crescita che tenga per migliorare la situazione media degli abitanti dell’India.

Faccio un esempio assolutamente opposto. C’è una globalizzazione dei processi finanziari, c’è una globalizzazione dei prodotti, ma in questo dato di frammentazione delle economie ci sono dei modi per farli completamente diversi e che possono far coabitare dei modi di produzione uno molto differente dall’altro. 

Il nuovo cip di cui è stato annunciato la produzione settimana scorsa, fatto in collaborazione da Motorola e Siemens e che è destinato a dare un nuovo impulso a tutto i mercati dei semiconduttori, decisivo per tutta la questione degli elaboratori, è un prodotto fatto da una parte per il 50% da un’iniziativa sui capitali di ricerca private americane assolutamente autonome e dall’altra, per la parte che riguarda Siemens, finanziato principalmente dalla Repubblica dell’Assia. Siamo forse a più dati di indipendenza, voglio dire, di un processo autonomo di sviluppo delle tecnologie e invece dei processi diversi di sviluppo delle economie.

Si parla molto di crisi finanziaria adesso, a causa degli avvenimenti degli ultimi due anni. E una delle tendenze è omogeneizzarli, farli diventare una cosa sola, come se le cose successe nel sud-est asiatico in Russia o in America Latina si assomigliassero fra di loro: le crisi del sud-asiatico, Russia o in America Latina sono ognuna profondamente diverse dall’altra. Il ruolo della finanza mondiale nelle tre crisi è profondamente diverso. Non solo, se nella crisi del sistema monetario europeo del ‘92 vi è un ruolo della finanza mondiale che fa saltare questo meccanismo, da questo punto di vista però la domanda che ci dobbiamo fare, anche in Italia, è un rimprovero e un bene che abbiamo fatto saltare un meccanismo che era oppressivo per lo sviluppo italiano; o nella crisi del Messico del ‘94 c’è tanto ruolo della finanza internazionale che mette in difficoltà lo sviluppo del Messico; nelle crisi del ‘97 del sud-est asiatico, del ‘98 in Russia e in America Latina abbiamo una finanza internazionale che piuttosto è coinvolta più che essere partecipe della crisi e che a volte la subisce. A parte che parlare di nuovo di crisi del sud-est asiatico è estremamente semplicistico perché poi la grande crisi avvenuta su tre-quattro Stati, sulle cosiddette "piccole tigri" del sud-est asiatico, Tailandia, Indonesia, Malesia, ha coinvolto molto marginalmente le tigri un po’ più grandi che sono Hong Kong, Singapore e che hanno resistito molto bene a questa crisi e ne sono usciti abbastanza tranquillamente. Eppure sono stati decisamente più importanti; lo stesso Taiwan; discorso un po’ diverso per la Corea. E di nuovo laddove c’è stata la crisi in questi tre paesi, principalmente nel sud-est asiatico, le storie sono profondamente diverse. Sicuramente, la causa principale della crisi di Tailandia ed Indonesia è stata di crisi che consumavano molto di più di quello che producevano. Certo, non mi riferisco agli operai tailandesi che tuttora lavorano per due dollari e ottanta all’ora, mi riferisco all’insieme del sistema Tailandia, i grandi speculatori edili, il fatto che a Kuala Lampur il costo a metro quadro nei grattacieli fosse decisamente superiore di quello di Manhattan indica tutto quanto un sistema si era esposto e lasciato andare in mano alla speculazione che però in questo caso la speculazione locale. Qui la finanza internazionale proprio non c’entra, è la speculazione locale che ha preso in mano l’economia aiutata dai governi locali, governi terribilmente di destra. 

Il fatto che paesi come l’Indonesia che pur dotati di importanti risorse naturali come il petrolio, siano andate ad avere una bilancia commerciale estremamente negativo a causa dei consumi elevatissimi interni da parte del 5-8% della popolazione, testimonia come sia in questo caso l’economia locale e la finanza locale - che è una cosa diversa dai grandi mercati finanziari, della globalizzazione di cui stiamo parlando - la causa di una crisi che ha portato a un grave impoverimento di quelle popolazioni. E qui sarebbe lungo parlare delle rivolte che ci sono state in Indonesia contro queste cose.

Veniamo alla seconda, la Russia. Devo dire che mentre la crisi del sud-est asiatico ha portato delle ritorsioni all’interno della finanza, la crisi della Russia ne avrebbe portato abbastanza poche perché è un paese che ha l’1,2% del Pil mondiale. E’ certamente molto meno importante di quanto non possa sembrare della sua ex potenza militare politica. Ma la crisi russa pensate davvero sia dovuta alla globalizzazione finanziaria mondiale e non piuttosto al sistema politico del paese che c’è lì? Al processo di privatizzazione assolutamente troppo accelerato, a un processo di passaggio del mercato non governato, ad uno Stato assolutamente incapace di svolgere qualsiasi politica di bilancio e di incassare una quantità decente di tasse da chi i redditi li ha pure in Russia, di uno Stato che ha lasciato un governo in mano all’economia a bande mafiose. Semmai in questo caso ci sono delle ripercussioni degli investitori internazionali di finanza negative a fronte di un’incapacità locale di governare l’economia.

Devo dire che qualcuno ha detto che con questa finanza locale un battito di ali di farfalla in Brasile porta agli sconvolgimenti a New York. La cosa è assolutamente vera ma questa cosa assolutamente vera, in questi casi non ha a nulla a che fare di un ruolo determinante per l’impoverimento del paese. Poi il problema più grosso durante la crisi russa non è stato tanto la crisi russa con il suo Pil che è assolutamente poco influente, quanto piuttosto che in quel momento, veniva ricordato, si è instaurata la crisi del ...... capital management, di questo grande fondo internazionale. Qui c’è stata una crisi della finanza tutta all’interno della finanza; la crisi della ...... capital management è una grossa perdita per banche, come credo, svizzere che in un colpo solo hanno perso gli utili di tutto un anno. E’ la necessità di intervento, questo sì e qui allora c’è un ruolo positivo della Federal Reserve per il salvataggio del fondo, per evitare una grande crisi di fiducia nei sistemi bancari mondiali.

Da ultimo ancora l’America Latina, il Brasile in particolare, la crisi brasiliana. Qui di nuovo dobbiamo andare a vedere a molti fenomeni locali che determinano la crisi; qui di nuovo al contrario forse ancora dei fenomeni che abbiamo visto precedentemente c’è un ruolo positivo svolto dalla finanza internazionale nel tentativo di stabilizzare una crisi che altrimenti sarebbe drammatica. Partita tuttora aperta questa ma tutta da vedere dove il ruolo del governo locale di Cardoso prima di sostenere un’assurda parità dollaro/real e poi ancora attraverso un debito pubblico assolutamente insostenibile hanno determinato dei dati di insolvenza dapprima di Stati interni al Brasile e poi di grave difficoltà di solvenza dello Stato brasiliano che solo grazie all’intervento del Fondo Monetario Internazionale ma anche alla politica di stabilizzazione che i grandi organismi internazionali hanno dettato, per il momento sta evitando la tragedia.

Quello che voglio dire in sostanza è che da una parte c’è un grande processo di moltiplicazione della forza, della potenza della finanza internazionale intesa come grandi multinazionali e così via, che non è un dato che ora trionfano i cattivi contro i buoni, è un dato spesso dettato da un’evoluzione di cambiamenti della società, del modo di lavorare e di produrre, delle tecnologie. E dall’altra assistiamo a un’assoluta inadeguatezza e alla mancanza di cambiamenti, invece, degli altri organi di gestione della finanza internazionale, in primis il Fondo Monetario Internazionale le cui regole sono ancora quelle dell’immediato dopoguerra e la cui forza di intervento è ancora solo quella dell’immediato dopoguerra. 

Abbiamo assistito a fronte di cambiamenti profondi che stanno avvenendo nel mondo ad un’altrettanta capacità di cambiarsi e di rinnovarsi degli organi di gestione e di chi dovrebbe cambiare questa gestione. Ne vale a questo proposito, l’idea in qualche modo di bloccare, ridurre le quantità di transazione. Badate che la quantità di transazione sui cambi è destinata di per sé a ridursi drasticamente nei prossimi anni, già l’avvento dell’Euro blocca tutti i cambi che prima avvenivano tra chi cambiava le lire in marchi e così via. E dall’altra parte il fatto dell’affermarsi di c.... ... board, la dollarization dell’economia dell’America Latina riduce enormemente anche qui la quantità di cambi reali indispensabili.

Si tratta di trovare qui dei nuovi equilibri. Certamente io credo che la discussione che c’è già questa settimana ma che poi dovrà svolgersi a giugno a Colonia saranno dei dati molto importanti con cui confrontarsi.

Per quanto ci riguarda, la domanda che ogni giorno ci poniamo, e questa domanda (cambio cassetta) .... serie crisi mondiali una dopo l’altra, sud-est asiatico, Russia, Brasile, America Latina e così via, entrando in una fase di recessione mondiale o meno. E’ una domanda a cui credo tutti trovino difficoltà a dare una risposta e lo snodo di questa risposta, piaccia o meno, è la crescita del Pil negli Stati Uniti. Gli Stati Uniti rappresentano da soli circa il 45% del Pil mondiale; se in qualche modo l’economia degli Stati Uniti tiene il Pil mondiale tiene. Se l’economia degli Stati Uniti non tiene, il Pil crolla e andiamo in recessione.

Il dato assolutamente sorprendente e che sorprende molti - e questo è uno degli elementi di grande discussione in questo momento - è come faccia attualmente aver avuto sette-otto anni consecutivi di crescita mentre normalmente i cicli economici dopo quattro-cinque anni si fermano e trovano una pausa. E badate che la risposta a questo fatto è una risposta tutt’altro che banale. Io credo che il dato decisivo di questa crescita che permette di non entrare in recessione al mondo sia dovuto essenzialmente alle caratteristiche di questo sviluppo.

Siamo di fronte a un dato di sviluppo straordinario avvenuto in questo decennio basato su uno straordinario momento di innovazione delle tecnologie, in particolare per quanto riguarda tutta la parte delle telecomunicazioni e dell’informatica. Questo processo ha permesso che non si innesti quello che tradizionalmente è l’elemento che fa crollare ed entrare in fase di recessione. Tradizionalmente in quasi tutti i cicli economici, assistiamo a una fase di progressiva espansione, quando l’espansione arriva in un determinato punto si inizia ad alzare il prezzo delle domande prime, perché c’è molta domanda di materie prime se c’è sviluppo economico da una parte, si inizia ad alzare il costo del lavoro dall’altra parte perché c’è domanda di lavoratori e quindi si va verso la piena occupazione e questo alza il costo del lavoro. Questi due fatti fanno partire l’inflazione, per il controllo dell’inflazione si fanno aumentare i tassi e scatta la fase di recessione in cui attraverso l’aumento dei tassi il governo della politica monetaria scendono inflazione, scendono occupazione, ritorna una situazione di non tensione sui mercati che permettono poi di ripartire.

Noi siamo all’ottavo anno di sviluppo negli Stati Uniti senza che sia partita l’inflazione, con l’inflazione sotto controllo. E questo è il dato di grande novità che in qualche modo bisogna comprendere: questo dato è reso possibile dal fatto che in questo boom economico c’è un uso modesto di materie prime. Il petrolio, il rame, l’alluminio che sono gli indicatori principali della tensione dello sviluppo economico hanno prezzi che non sono mai stati così bassi come sono ora. Questo fa sì che sia il primo elemento per cui l’inflazione non parte e lo sviluppo possa continuare. Il secondo dato è che nonostante un tasso di disoccupazione assolutamente modesto negli Stati Uniti, non parte il costo del lavoro.

Ebbene, entrambi questi fenomeni sono dati dalla particolarità di questo boom, fatto non sulla costruzione di grattacieli, quindi usando l’alluminio, fatti non sulla costruzione e l’uso importante e maggiore di energia e quindi usando più petrolio, ma fatto sulla tecnologia, fatto sulla comunicazione, fatto sull’informatica, fatti in sostanza su dei settori che usano poche materie prime che contemporaneamente affrontano e fanno sorgere un modo diverso di organizzare il lavoro e la produzione. Esiste sempre meno non solo la fabbrica fordista, non solo la fabbrica toyotista ma esiste sempre meno un luogo preciso in cui si produce. Non c’è più unità nè di luogo nè di tempi delle produzioni, coordinate ormai da nuovi modi di produrre che avvengono in questa fase e che sono il dato per cui la crescita dell’occupazione negli Stati Uniti fanno la seconda gamba della non crescita dell’inflazione, della non crescita del costo del lavoro.

Vorrei terminare dicendo che nel prossimo decennio, 2000-2010, noi assisteremo ad altre così profonde e veloci innovazioni. I due fattori che hanno sostenuto lo sviluppo di questo decennio, telecomunicazioni ed informatica, vanno ormai fondendosi; lo stanno già facendo ma il grande boom della digitalizzazione in cui sia suoni che immagini vengono digitalizzati, sarà il grande boom del prossimo decennio e porterà a degli sviluppi imprevisti e impensabili nelle loro intensità nel prossimo decennio.

Io penso che questo boom possa portare a un rilancio dell’espansione ma penso anche che ci sia un buco di due-tre anni tra questa fase e la prossima fase. Sono due-tre anni decisivi questi per evitare di piombare in recessione mondiale che sarebbe gravissimo per tutti, per i ricchi e per i poveri. In questi anni della consapevolezza di questo difficile passaggio si stanno un po’ rendendo conto tutti. Nell’introduzione iniziale Agostinelli faceva menzione di, portando esponenti della finanza mondiale di governi mondiali che sono in questa fase ma ormai è una tendenza abbastanza generalizzata. Ognuno si è reso conto dell’importanza di un forte intervento nell’economia per evitare la recessione; pericolo di recessione che incombe per tutti questi fattori di deterioramento che abbiamo visto ai margini di questa fase di sviluppo che si è troppo prolungata e che si combatte essenzialmente attraverso neanche un intervento sullo sviluppo ma soprattutto sulla distribuzione delle risorse.

Io non credo in sostanza che superiamo il pericolo di recessione nei prossimi due-tre anni, se noi ci limitassimo a pensare che le risorse che anche si producono in più siano utilizzati per gli investimenti. Occorre che vengano utilizzati principalmente per consumi nel senso che l’ulteriore rilancio degli investimenti in una fase come questa rischia di portare ad un ingorgo di capacità produttiva, di entità spaventose e quindi di una crisi molto difficile da questo punto di vista.

Di questa cosa mi sembra si stiano rendendo conto i governi europei. Governi europei che sono stati responsabili dell’attuale fase di stagnazione dell’economia europea, soprattutto la Bundesbang, soprattutto i tedeschi che hanno imposto nella fase ‘86-’95 per finanziare l’unificazione tedesca, dei tassi reali fuori da qualsiasi logica che hanno stroncato le gambe all’occupazione in Europa e di cui solo adesso piano piano si sta rendendo conto. Con la necessità però di interventi che non siano soltanto più di politica monetaria, dove tra l’altro le possibilità sono ormai modeste di riduzione dei tassi a causa dei livelli che hanno raggiunto, ma soprattutto attive politiche di redistribuzione.

Mi pare che queste siano le politiche da attuarsi oggi e rapidamente in Europa sapendo che lo spauracchio dei prezzi di inflazione ormai è abbastanza alle spalle.
 
 

Intervento di M. Vivarelli, docente universitario di Economia Politica

Nell’intervento precedente alcune argomentazioni sono state sostanziate anche in termini di dati dell’economia reale, l’attenzione è stata riportata a un maggiore equilibrio tra la navicella e il pallone. E’ vero che il pallone ha delle capacità di amplificazione incredibili, di quelle che possono essere perturbazioni dell’economia reale però è anche vero che l’economia reale ha ancora un suo ruolo importante.

Io volevo assumere un’ottica meno globale e più provinciale, nel senso europeo e anche italiano, per vedere qual è il risultato di questa navigazione che io ritengo un pochino più equilibrata tra la navicella e il pallone in termini di collocazione dell’Europa all’interno dello scenario globale puntando l’attenzione - sarò molto più specifico degli interventi precedenti - su un punto particolare che però penso sia di estremo interesse per il sindacato che è la questione occupazione che è anche considerata, anche nell’intervento di La Fontaine che veniva prima richiamato come la malattia europea. Già nell’intervento precedente si è giustamente richiamata la differenza profonda fra quanto è successo negli Stati Uniti e quanto è successo in Europa.

Se noi prendiamo la capacità di creazione e di occupazione fatto cento nel 1975, vediamo immediatamente con la capacità di creazione, di occupazione negli Stati Uniti con buona pace di Jeremy Rifkin che riferendosi al caso americano parlava di fine del lavoro, la capacità di creazione e di occupazione negli Stati Uniti è stata enormemente superiore a quella del Giappone che pure invece ha avuto una crescita economica molto più accelerata perché era un paese che negli anni ‘70-’80 era con fortissimi tassi di crescita, e una situazione europea - questo dato è relativo all’Europa dei quindici - di complessiva stagnazione in termini di numeri di occupati.

Questo è il grande problema su cui gli economisti stanno dando risposte diverse, c’è una risposta prevalente, dominante che la sinistra subisce e che il sindacato pure subisce: gli Stati Uniti creano lavoro perché hanno un mercato del lavoro flessibile. Questa è l’interpretazione dominante. Hanno il mercato di lavoro flessibile sia in termini di moderazione salariale, sia in termini di mobilità e di capacità di licenziare per cui le imprese assumono perché sanno che se le cose poi vanno male possono licenziare. Questo è il discorso assolutamente prevalente; diciamo che il 95% dai miei colleghi economisti, 80% dai commentatori. Io non sono convinto che questo spieghi tutto, anzi penso che spieghi abbastanza poco, vedremo un dato successivamente che io credo demestifichi questo tipo di interpretazione. 

La seconda timida obiezione della sinistra - primo fra tutti La Fontaine - parzialmente recepita da questo manifesto che alcuni premi nobel tra cui Modigliani hanno proposto questa estate: il manifesto per l’occupazione in Europa. Modigliani tirandola più sul versante flessibilità del mercato del lavoro, Fitussy ed altri più sul secondo ingrediente che è quello della crescita. Veniva prima citato anche da Riccardo Petrella il discorso del rapporto fra crescita e occupazione citato nelle interviste di La Fontaine.

Recuperare una prospettiva keinesiana e dire: badate che questa differenza non è spiegata tanto dalla flessibilità del mercato del lavoro quanto dal fatto che l’Europa è stata strangolata dagli stessi vincoli che si era data in termini di trattato di Maastricht e quindi bisogna ridare fiato alla crescita delle economie europee per permettere all’occupazione di risalire.

Personalmente sono convinto che anche questa seconda strada che pure è un po’ la bandiera della sinistra europea, spieghi parte del fenomeno, come anche parte del fenomeno può essere spiegato dal discorso della flessibilità del lavoro, ma non racconti tutta la storia e rischi di creare una pericolosa illusione nella sinistra e nei cittadini europei. Vediamo di sostanziare questo discorso.

Se fosse vera la tesi della flessibilità del mercato del lavoro, noi dovremmo assistere ad una incapacità di creare posti di lavoro, tuttavia, ad una crescita del tempo di lavoro necessario come conseguenza della crescita. In altre parole, se il problema fosse solamente in termini di flessibilità del mercato del lavoro, le imprese italiane cosa fanno? non assumono perché hanno paura perché poi non possono licenziare, ma allora come fanno a produrre i beni che comunque stanno crescendo? fanno con lo straordinario. Questo tipicamente è un’interpretazione: quando c’è crescita in Europa questa crescita non si trascina dietro l’occupazione perché le imprese sono prudenti, quindi non aumentano il numero di occupati ma ricorrono soprattutto allo straordinario. Questo in alcuni settori è verissimo però complessivamente cosa è successo al monte/ore di lavoro quindi inteso come tempo di lavoro per occupato per numero di occupati? Qui le differenze permangono. Negli Stati Uniti abbiamo delle relazioni tutte positive fra crescita del prodotto, crescita dell’occupazione e crescita del tempo di lavoro. Questo dimostra che gli Stati Uniti hanno una struttura dell’economia reale che è capace di trascinare e di far trascinare il tempo di lavoro necessario dalla crescita. La crescita effettivamente consente una crescita del tempo di lavoro che poi si traduce anche in una crescita occupazionale.

Cosa accade in Europa? Purtroppo i dati sul tempo di lavoro sono difficili da raccogliere; il dato più attendibile è quello della Francia che però io credo sia rappresentativo, a quello della Germania occidentale fino al ‘91 segue questo trend. La Francia ha un tasso di crescita del prodotto nel lungo periodo, anche se in tempi recenti è molto più basso di quello statunitense, però sui vent’anni esaminati è abbastanza simile a quello statunitense ma l’occupazione rimane pressoché costante e il tempo di lavoro addirittura si riduce del 20%. Se è successo questo, non significa semplicemente che l’occupazione non ha seguito la crescita perché le imprese preferiscono aumentare il tempo pro-capite invece che il numero di lavoratori. No, perché il tempo pro-capite addirittura è diminuito. Anzi, se non avessimo avuto - qui il discorso si lega alla questione orario di lavoro su cui Mario ha scritto molto - una diminuzione del tempo di lavoro pro-capite in Europa dovuto a non solamente all’orario che è diminuito ma alle festività che sono aumentate, al passaggio dei manifatturieri ai servizi dove gli orari settimanali sono inferiori e così via, se noi non avessimo avuto una riduzione del tempo di lavoro pro-capite avremmo avuto addirittura un 20% di disoccupazione in più.

E’ un’incapacità strutturale di lungo periodo da parte dell’Europa - in questo caso della Francia però ripeto la cosa è estendibile sicuramente ai quattro grandi paesi, Regno Unito, Germania e Italia - a non riuscire a collegare crescita economica e occupazione. Quindi il problema è molto più serio perché anche quando io flessibilizzo questo mercato, anche quando aumenta il tasso di crescita, se ho questa forbice i risultati possono esserci ma sono molto molto deboli.

La tesi quindi è che il processo di globalizzazione e di visione del lavoro internazionale che passa attraverso la finanza ma passa anche attraverso i modelli di specializzazione dei paesi, abbia costretto l’Europa in un angolo dove la capacità di creare occupazione è estremamente limitata. Certo, se noi avessimo avuto negli ultimi anni un Maastricht che avesse assunto anche il saggio di disoccupazione tra i suoi obiettivi e politiche monetarie e fiscali meno restrittive, probabilmente avremmo avuto un saggio di crescita occupazionale un pochino più alto però il problema non si sarebbe risolto. Questo lo vediamo abbastanza chiaramente sia ripercorrendo le differenze nell’evoluzione dell’occupazione spezzando industrie e servizi.

Guardiamo l’industria: l’industria mostra una differenza clamorosa, drammatica fra l’Europa, il Giappone e gli Stati Uniti. Al di là dei movimenti ciclici, probabilmente il manifatturiero subisce in maniera piuttosto evidente. Il dato di fatto è che Giappone e Stati Uniti che sono gli altri due corni delle economie sviluppate, sono riusciti a mantenere la propria occupazione manifatturiera; non è aumentata in termini relativi, è diminuita come ovunque però non è diminuita in termini assoluti.

L’Europa l’ha vista diminuire del 20% con punte drammatiche - si ricordava prima la Gran Bretagna che è scesa all’undicesimo posto in termini di reddito pro-capite - tra le varie cause che hanno concorso questo è che la Gran Bretagna ha praticamente smantellato la propria capacità manifatturiera. L’occupazione manifatturiera in Gran Bretagna nel giro di dieci anni si è dimezzata. Il tasso di decremento più forte in Europa. Complessivamente a livello di Europa dei quindici, l’occupazione industriale è scesa del 20%. Primo dato di fatto. Al contrario di altre economie sviluppate in Giappone e Stati Uniti, che sono riusciti a tenere il proprio livello occupazionale, anzi di incrementarlo leggermente nel medio e lungo periodo, l’Europa invece non è riuscita a fare questo ma non perché il prodotto industriale sia andato crollando, è aumentato in questo periodo però con un’intensità di lavoro via via decrescente. L’intensità di lavoro del manifatturiero europeo è sicuramente inferiore a quello di Giappone e Stati Uniti.

Come è andata sui servizi? Sui servizi c’è stata compensazione: i servizi hanno visto aumentare l’occupazione però malauguratamente l’Europa dei quindici - tra l’altro questo dato è abbastanza ottimistico perché se guardiamo i quattro paesi che contano cosa ancora più evidente - l’Europa è comunque distante in termini di incrementi occupazionali rispetto agli Stati Uniti e rispetto al Giappone specialmente rispetto agli Stati Uniti. Gli Stati Uniti hanno avuto un’occupazione industriale costante e hanno aumentato del 60% l’occupazione dei servizi, l’Europa ha visto la propria occupazione industriale declinare del 20%, l’occupazione dei servizi è aumentata circa del 20% e ovviamente questo poi comporta quei risultati aggregati che abbiamo visto all’inizio. Stagnazione in Europa, crescita occupazionale evidente negli Stati Uniti.

L’idea è che dietro a tutto ciò ci sia qualcosa di strutturale e quindi non dipende esclusivamente dagli andamenti della domanda aggregata del prodotto, lo si vede semplicemente confrontando, sempre per lo stesso periodo di tempo - limitiamoci per semplicità ai quattro paesi più importanti europei - quelli che sono stati sul lungo periodo, sempre sui vent’anni. I tassi di crescita del prodotto interno lordo, i saggi di crescita del numero degli occupati e semplicemente il rapporto fra le due cose, ossia a parità di crescita quanta occupazione creiamo.

Innanzitutto è vero quello che veniva prima richiamato: gli Stati Uniti hanno avuto un saggio di crescita sul lungo periodo che è sicuramente più elevato di quello europeo e se vedessimo - come veniva prima citato - gli ultimi 7-8 anni, questa differenza sarebbe ancora più marcata. E’ vero che negli Stati Uniti la crescita è stata più elevata che nei quattro paesi europei: la media dei quattro paesi europei è il 58% di crescita del gdp reale in vent’anni, negli Stati Uniti è stato del 79%. 

Guardiamo l’occupazione. I vari livelli occupazionali sono formidabili. Guardate gli Stati Uniti che hanno aumentato l’occupazione quasi del 50%, in Italia il numero di occupati, grazie anche alla riduzione dell’orario di lavoro pro-capite, è aumentata del 4%. Se noi andiamo a vedere l’intensità occupazionale della crescita, questo coefficiente mi dice semplicemente che se in 40 anni negli Stati Uniti il prodotto raddoppia, l’occupazione negli Stati Uniti, stante così le cose, se le cose non cambiano in termini di struttura aumenta del 60%; se il prodotto raddoppia nell’Europa dei quattro paesi maggiori, l’occupazione aumenta del 7%. Questi andrebbero moltiplicati per cento per avere le percentuali. In Giappone aumenterebbe del 28%.

Questo è un dato strutturale estremamente preoccupante. Non vorrei aggiungere paure a quelle già richiamate dal primo intervento che personalmente mi ha lasciato abbastanza terrorizzato sugli scenari generali, però è un dato di fatto che in termini di struttura, se La Fontaine mi dice: passiamo da politiche di tipo keynesiano e quindi basta con le politiche restrittive e torniamo alla crescita, mi va benissimo però non aspettiamoci l’ira di Dio in termini di decremento del saggio di disoccupazione o in termini di creazione dell’occupazione. Nella specializzazione internazionale all’Europa è relegato un ruolo estremamente povero di contenuto lavorativo, di contenuto occupazionale.

Un esempio di questo purtroppo relativamente solo al settore manifatturiero, l’abbiamo facendo un calcolo molto aritmetico, molto banale. 

Insieme a Mario Pianta che Mario conosce molto bene e che ha partecipato ad altri incontri della Cgil, abbiamo calcolato a livello delle sei economie più sviluppate all’interno del manifatturiero quei pochi settori che avevano creato occupazione, cioè con un saldo occupazionale positivo, i settori in moderato declino occupazionale e i settori invece con pesante perdite occupazionali in cui ovviamente troviamo i cantieri navali, la siderurgica e così via.

Andiamo a vedere il ruolo delle diverse economie industrializzate in questi comparti. Vediamo che il ruolo dei settori a crescita occupazionale in termini di valore aggiunto è aumentato per tutti perché sono i settori che tirano però guardiamo le differenze. Gli Stati Uniti partivano dal 40% del loro valore aggiunto industriale concentrato sui settori favorevoli al lavoro, l’Europa partiva col 34%, l’Italia col 28%. Quindi l’Europa e all’interno dell’Europa fanalino di coda l’Italia, fortemente sottospecializzata nei settori, quei pochi, che hanno creato occupazione negli ultimi venti anni. 

Nel tempo i divari non si sono affatto appianati. Pur crescendo in tutte e tre le aree, il peso dei settori ad elevata intensità di lavoro rimane comunque superiore al 50% in Giappone, del 46% negli Stati Uniti, del 33% in Italia. E qui il ruolo delle tecnologie che veniva prima richiamato è assolutamente fondamentale perché questi settori si caratterizzano per un utilizzo intensivo di manodopera e quindi tecnologie tendenzialmente meno risparmiatrici di lavoro. Se guardiamo all’estremo opposto, cioè ai settori che invece prevalgono le innovazioni di processo, le innovazioni tendenzialmente risparmiatrici di lavoro, vediamo purtroppo che abbiamo una despecializzazione statunitense, una despecializzazione giapponese, una specializzazione europea e una iper-specializzazione italiana che ancora nel ‘94 ha il 20,5% del proprio valore aggiunto concentrata sui settori che negli ultimi venti anni hanno pesantemente perso in termini di occupati. 

L’idea è che accanto al discorso flessibilità del mercato del lavoro, accanto al discorso crescita, non si debba prescindere dagli aspetti di struttura; gli aspetti di struttura ovviamente rendono necessarie delle politiche di tipo industriale, politiche dell’innovazione. Allora secondo me è molto interessante il discorso di avere un punto di vista autonomo della sinistra e del sindacato sulla scienza e la tecnologia. La scienza e la tecnologia hanno un impatto che non è neutrale sul lavoro, può essere più o meno favorevole all’occupazione; una struttura industriale con correlate le proprie modalità tecnologiche può essere più o meno favorevole all’occupazione, probabilmente bisogna incidere sulla specializzazione internazionale dell’Europa e dell’Italia in particolare se vogliamo avere dei risultati occupazionali. Possiamo anche rinunciare a questo obiettivo e dire: va bene, ci va bene questo tipo di collocazione competitiva, utilizziamo altri mezzi e riduciamo per esempio l’orario di lavoro a 20 ore alla settimana e creiamo un’occupazione. Questa può essere una strada, se però si intende puntare decisamente a risolvere questa malattia europea io credo che insieme gli ingredienti del manifesto, ossia la flessibilità del mercato del lavoro e per dare un colpo al cerchio e uno alla botte crescita economica, possano risolvere un quarto del problema perché se dietro c’è una struttura che comunque anche se il tessile mi si riprende e mi si è ripreso col decreto Tremonti e con la svalutazione che c’è stata negli anni ‘90 o con altri fasi congiunturali, mi crea occupazione se ripresa e crescita significa investire nuovamente in innovazioni che distruggono posti di lavoro. Se invece faccio una politica industriale che è contraria a quanto è accaduto in Italia dove i settori dell’elettronica, dell’aeronautica, delle telecomunicazioni vengono pian piano smantellate, faccio un’operazione di politica industriale. Ovviamente non è di breve periodo e quindi molte volte va al di là delle prospettive di una legislatura e di un governo che dura in carica un anno e nella migliore delle ipotesi cinque anni. Se si abbraccia un’ottica più di lungo periodo si tenta di spostare la specializzazione produttiva di un paese dell’Europa da un settore all’altro. Io non ho i dati sui servizi ma immagino che per gli andamenti che abbiamo visto prima, un effetto di composizione simile prevalga anche sui servizi nel senso un conto è insistere sui servizi ad alto valore aggiunto collegati alla telematica e un conto insistere sulla piccola distribuzione e sui lattai.

Ci sono anche nei servizi settori destinati progressivamente a perdere manodopera e settori invece capaci di sostenere nuovi prodotti e quindi un tipo di cambiamento tecnologico potenzialmente favorevole al lavoro.

Allora ecco, politica del lavoro e politica della domanda io credo propongano alla sinistra del sindacato un falso dilemma perché non credo che nè con l’una nè con l’altra la situazione europea possa essere tangibilmente e strutturalmente migliorata in termini occupazionali se non è accompagnata da una politica industriale e della tecnologia. E in questo io credo che il sindacato abbia un forte ruolo perché il sindacato ha sempre, per tradizioni storiche, accettato e modulato quelli che sono le conseguenze dei cambiamenti tecnologici ma non ha mai tentato di influire direttamente sulle forme dell’investimento, sul contenuto tecnologico dell’investimento e quindi a livello aggregato sulla politica industriale.

Questo io credo in termini di negoziazione complessiva e di attenzione all’obiettivo occupazionale va fatto perché altrimenti manovre di breve periodo sul solo mercato del lavoro rischiano di cogliere l’occasione, di cadere nel tranello di accettare il fatto che queste manovre possono essere favorevoli all’occupazione quando invece all’occupazione fanno il sollecito però hanno enormi conseguenze sul piano dei diritti, della negoziazione, della partecipazione e dello stato sociale.

Dall’altro lato però arroccarsi - e questo mi sembra il conservatorismo della sinistra europea - su posizioni neo-keynesiane che potevano andare bene negli anni Sessanta quando sicuramente si era in un momento in cui crescita e occupazione andavano a braccetto in termini di ricadute occupazionali e di forme tecnologiche. Ma questo connubio si è sfarinato ed è ancora possibile però solamente in alcuni segmenti dell’economia reale e in alcuni nuovi settori che producono nuovi prodotti e allora se non ci si sposta su questi anche il discorso della sinistra europea rischia di essere di facciata e rischia di essere una falsa alternativa al primo.
 
 

Intervento di Anno Hellenbroich, direttore dell’Agenzia Stampa Eir:

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