La globalizzazione
irresponsabile
Scenari 16/2/1999 Camera del Lavoro
di Milano
Gli interventi integrali
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Intervento
introduttivo di Mario Agostinelli, Segretario generale di CGIL Lombardia:
Alcuni esperti, persone di alto rilievo
internazionale e il quadro dirigente della Cgil della Lombardia, ma è
aperta anche al pubblico esterno, e che ha una funzione di formazione se
volete, - lo sanno quelli che già hanno seguito una serie di appuntamenti
- uno sforzo di natura anche culturale che va un po’ al di fuori rispetto
al contingente e a quanto noi veniamo tutto sommato assorbiti dalla pratica
quotidiana. Non a caso si chiama "Scenari" proprio perché la Cgil
Lombardia vorrebbe descrivere assieme a voi naturalmente, quindi è
importante anche il carattere interattivo di queste iniziative, quello
che è il futuro dentro cui la nostra organizzazione organizza la
propria autonomia e le proprie lotte e non a caso dico la propria autonomia
e le proprie lotte. Siamo un’organizzazione che rivendica e quindi organizza
delle lotte, siamo un’organizzazione che rischia sempre di più di
essere schiacciato sul presente e di perdere un’autonomia. Su queste questioni,
in modo particolare, noi parliamo spesso di trasformazione del lavoro,
di trasformazione dell’economia però ne parliamo controllando a
valle questi effetti ma bisogna anche avere capacità di prevederli.
La mia funzione è una funzione,
come è stata negli altri casi, solo di chi tesse un filo e un collegamento.
Gli interlocutori da sempre, innanzitutto non parlano la stessa lingua,
non coincidono automaticamente per quanto riguarda la loro posizione e
la loro analisi, portano diverse facce all’approccio che magari poi coincidono
nel caso particolare, ma contribuiscono anche da versanti, magari di esperienza
o di specializzazione che non si sovrappongono. L’abbiamo fatto anche in
tutti gli altri casi. Abbiamo sempre una figura però leader se volete
per quanto riguarda la comunicazione e in questo caso è Riccardo
Petrella che molti di voi conoscono anche attraverso i suoi libri, l’ultima
volta era stata Lussi Rigarai, la volta precedente era stato Wolfang Sax,
torno a una relazione quindi più ampia. Si articoleranno interventi
di altissima qualificazione, in particolare, Enrico Bigli è un esperto
di flussi e di evoluzioni del mondo finanziario internazionale e si occuperà
anche di quanto la tecnologia dalla Borsa gridata alla Borsa telematica
abbia nei fatti cambiato anche il contesto della globalizzazione. Marco
Vivarelli che è un docente universitario, si occuperà più
direttamente dell’economia reale, quindi degli effetti sulle condizioni
reali dei processi di globalizzazione. Alain Elembroila che è direttore
dell’agenzia stampa economica Deer si occuperà in modo particolare
dell’impostazione dal punto di vista economico di una eguaglianza a livello
mondiale.
Gli interventi da attuare da parte
anche degli stati, perché il grande processo finanziario che sottostà
alla globalizzazione appaia come portatore anche di elementi di giustizia,
non solo di effetti negativi.
Noi abbiamo chiamato questo "La globalizzazione
irresponsabile" non a caso. Noi pensiamo che siamo sottoposti a un processo
formidabile di espropriazione dei poteri, dei poteri politici in modo particolare,
quindi un comitato esecutivo sempre più ristretto sopprime la democrazia
e non solo la democrazia economica ma la democrazia tout court. Questo
è un problema di importanza enorme per un sindacato che ha sempre
condotto le proprie battaglie non solo sul versante rivendicativo ma anche
sul versante della democratizzazione dei processi. Ha senso un sindacato
e le sue battaglie se i processi democratici hanno raggiunto una collocazione
tale da rendere efficace la rappresentanza degli interessi.
L’abbiamo chiamato "globalizzazione
irresponsabile" e siamo partiti dal dominio delle imprese transnazionali
alla speculazione finanziaria. Vedrete dagli interventi che non ci fermiamo
qui, anzi, ci proiettiamo verso le occasioni positive che la globalizzazione
offre.
Nella mia brevissima introduzione,
che è fatta per rendere più efficace l’intervento dei nostri
relatori, mi rifaccio a due interventi ieri sulla Repubblica. Finalmente
due interventi da giornale non solo locale. Siamo frastornati dal fatto
che le prime dieci pagine dei nostri giornali, ormai da troppo tempo parlano
della politica quotidiana che il giorno dopo è completamente bruciata:
finalmente due pagine di Repubblica ieri pongono in una maniera
molto, molto forte, la questione di uno snodo tra politica e mercato che
si sta verificando oggi, e che va apprezzato come un cambio di fase netto.
Credo che sia sbagliato se noi rimanessimo ancora attardati a una lettura
dei processi internazionali come processi sottoposti a una pura liberalizzazione.
Le speranze di Petrella e del suo vecchio
libro "I limiti della competitività" cominciano ad affiorare come
possibilità, quello che ci siamo detti al congresso della Cgil comincia
a essere in campo. L’evoluzione, ad esempio, sul piano elettorale delle
vicende europee l’ha già segnato, le vicende sociali non lo segnano
ancora. I governi che sono stati eletti con una chiara indicazione di abbattere
il vecchio schema neoliberista non hanno ancora assunto questo mandato,
e ne sappiamo qualcosa, il nostro Governo agita continuamente modelli che
hanno a che fare più con il vecchio che non il nuovo: la flessibilità,
licenziamenti.
Vorrei che oggi prendessimo atto di
questo fatto, lo diranno meglio loro. Siamo in una fase in cui ci si può
attardare anche per ragioni politiche, per questioni di piccoli cabotaggio,
per fare un po’ più piacere alla Confindustria adesso che c’è
il contratto dei metalmeccanici. Ma non regge a lungo questa cosa, sembra
a me che la fase nuova sia già avviata; siamo in una fase in cui
il rapporto tra politica e mercato e l’influenza della politica sul mercato
si configura in maniera nuova e quindi occorre elaborare al riguardo. Devo
dire che il vertice di Vienna aveva preso atto di questa cosa. Qui a Milano
ci sarà il 2-3 marzo il congresso del Partito Socialista Europeo,
credo che prenderà ulteriormente atto di queste cose.
I due interventi su Repubblica.
Ieri contemporaneamente da una parte James Wolfangson che è il capo
della Banca mondiale, e dall’altra il membro più influente del governo
tedesco, quindi non il Bangladesh, La Fontaine, dicono cose che hanno un
peso anche culturale enorme e le racconto molto brevemente. Il presidente
della Banca mondiale che da poco governa alla Banca con grandi scontri
interni e che è andato lì per ristrutturare un intervento
che si è dichiarato fallimentare, conclude dicendo: "Diciotto mesi
per cambiare metodo nella Banca, avrò grandi sconti e poi venti
anni davanti a noi per portarci a uno sviluppo sostenibile". Questo lo
dice il capo della Banca, lo dice quello che dovrebbe guidare i destini
delle risorse. E aggiunge: "Guardate che la crisi di Russia, Brasile e
Indonesia non erano solo crisi finanziarie, erano crisi che dipendono dall’impatto
sociale della globalizzazione". E poi aggiunge: "Non credo che alla riunione
del G7 abbiano bisogno di una nuova architettura del sistema finanziario,
hanno bisogno di fare un’altra agenda e di capire che le ragioni delle
crisi è l’aumento della povertà, l’aumento incontinente della
popolazione e il fatto che ci sono nel mondo meno foreste". Così
dice. Conclude dicendo: "che la protezione sociale, le pensioni - pensate
a quello che si dice - l’educazione e la sanità sono punti essenziali
di un sistema che assieme agli aspetti sociali può dare stabilizzazione
anche ai sistemi di cambio". E aggiunge: "Da soli i sistemi di cambio non
si stabilizzano". Fa un discorso molto avanzato.
Nello stesso giorno La Fontaine dice:
"Io credo che bisogna prendere atto che il liberismo e il monetarismo sono
finite come ideologie dominanti". Non uno zuccherino, va piuttosto pesante.
"Occorre un intervento sui cambi e soprattutto dei controlli sui capitali
a breve termine quelli che sono soggetti a maggiore speculazione. Io credo
che un intervento pubblico e la spesa pubblica siano una necessità
anche a costo di una crescita dell’inflazione. Quindi credo che più
che il patto di stabilità a cui io mi inchino, debba contare in
questo momento per i governi europei un rapporti tra crescita e occupazione;
sottolineo quello che sembrava una svolta non più reversibile se
si va tutti in quella direzione. Sarà una battaglia molto dura al
riguardo.
E poi finisce dicendo questa cosa:
"E’ bene che sulla finanza ci si attrezzi a colpire la speculazione e non
l’economia reale". Anche Soros arriva a dirlo, uomo nato dentro la speculazione
e dice a proposito della trattativa sul patto sociale, dato che noi abbiamo
detto il patto di Natale è un punto di riferimento per tutta l’Europa,
lui dice una cosa in più: "Vogliono gli industriali intervenire
sul costo del lavoro? Bene, si può fare solo se si interviene contemporaneamente
sui tassi". Un buon accordo è dire fino a quanto cresce il costo
del lavoro, fino a quanto possono crescere i tassi perché così
non si scarica sul costo del lavoro la questione dell’occupazione.
Finisco dicendo che a noi sembra opportuno
questo incontro. Mi auguro tra l’altro che il gruppo dirigente della Lombardia
poi lo riprenda, lo rielabori, ne faccia tesoro, e noi faremo due cose,
pubblicheremo un piccolo reprint con tutti gli interventi dei relatori
in un tempo molto breve, i passi più importanti delle relazioni
vengono messi, al massimo entro dieci giorni - sul WEB della Cgil Lombardia
che io invito sempre a leggere perché è in tempo reale, è
continuamente cambiato, è un grande strumento di comunicazione e
viene però con grande determinazione non letto all’interno della
Cgil forse per un punto d’onore che però non ci riesce molto chiaro,
si chiama http//:www.lomb.cgil.it. Oggi abbiamo 1.600 entrate e solo il
31% viene dalla Cgil. La cosa non si capisce. Noi da dieci in giorni in
qui metteremo sulla pagina Cgil Lombardia gli interventi registrati, si
schiaccia un bottone e si sente la radio. Guardate che oggi alle sei di
sera se schiacciate Radio Popolare avete le notizie di Popolare Network
a casa vostra sul computer con il costo di una telefonata. Naturalmente
non lo fate, non sentitela perché questo tranquillizza molto di
più.
Intervento
di Riccardo Petrella, membro del gruppo di Lisbona
Buongiorno a tutti. Vorrei anzitutto
ringraziare Mario per avermi permesso di essere con voi stamane e anche
perché ha già detto quasi tutto e quindi ha un pochino facilitato
il compito. Allora io tenterò con il mio intervento prima di capire
perché il direttore generale della Banca mondiale, perché
un dirigente del paese così importante come la Germania cominciano
ad affermare delle cose che i militanti hanno tentato di dire durante gli
ultimi quindici-venti anni e abbiamo continuato a dire.
Tenterò di capire qual è
stato l’avvenimento nel cuore del motore della modernizzazione capitalista
degli ultimi venti anni. Quindi primo punto, tentare di capire qual è
stata la reazione nucleare del nostro sistema, e allora poi tenterò
di vedere quali sono le conseguenze in particolare su tutto il problema
centrale della rappresentanza politica, della cittadinanza e democrazia
dell’identità a livello individuale delle persone e poi a livello
mondiale e poi tenterò di fare delle proposte con una cosa molto
precisa come punto finale. Spero di riuscire a trattare tutte queste cose
in una trentina di minuti.
Qual è il cuore del sistema?
Il cuore del sistema a mio parere porta su due cose: porta sulla moneta
che è diventata una merce e la moneta non è più uno
strumento in mano del potere politico per manovrare, controllare l’allocazione
delle risorse disponibili e la ripartizione dei guadagni di produttività.
Tutte le politiche keynesiane e tutte le politiche basate sul welfare,
implicavano il controllo da parte dei poteri pubblici e della moneta, e
poi della moneta a livello nazionale. Ecco perché potevano intervenire
stimolando gli investimenti oppure il consumo, e poi potevano fare una
politica fiscale e quindi avevano una certa autonomia della politica di
bilancio perché la politica di bilancio era lo strumento attraverso
il quale una nazione determinava le priorità di allocazione delle
risorse.
Quello che è successo negli
ultimi venti anni, è che la moneta è stata trasformata in
una merce e come tale sfuggita al controllo dei poteri politici nazionali,
e siccome anche i poteri politici internazionali non esistono perché
l’Onu e tante altre cose non sono dei poteri politici, la moneta è
diventata una merce di scambio e di valore nei mercati finanziari. Ecco
perché i mercati finanziari hanno preso l’importanza che hanno assunto
negli ultimi venti anni perché sono i mercati finanziari che determinano
il valore delle monete.
Il valore di scambio come anche il
valore di utilità, cioè il valore in termini di averi finanziari
in quanto tali. Dire, oramai la moneta può essere valore di utilità,
indipendentemente dal fatto che sia un mezzo di pagamento e che sia un
mezzo di accumulazione del capitale che è invece la funzione tipica
della moneta. Questa è la prima grande cosa che è cambiata
ed ecco perché la politica monetaria è diventata sovrana.
La sovranizzazione della politica monetaria che dice che oramai tutte le
altre politiche dei poteri pubblici non possono incidere sulla politica
monetaria, mentre invece la politica monetaria può incidere sugli
obiettivi delle altre politiche (economiche, sociali, di trasporto, di
commercio ecc.) questa sovranità della politica monetaria è
necessariamente accompagnata al fatto che la moneta sia diventata una merce.
Perché è sovrana? Perché
la mercificazione di tutto ha dato autonomia alla merce e oramai le merci
sono sfuggite al controllo degli stati e del potere politico. Ecco allora
l’indipendenza delle banche centrali: l’indipendenza delle banche centrali
è legata alla sovranizzazione della politica monetaria. Vi ricordo
che la politica monetaria significa stabilità dei prezzi. Questa
è la politica monetaria: tentare di portare il tasso di inflazione
vicino a zero. Zero inflazione è il massimo della politica monetaria.
Ecco perché la mercificazione
della moneta, e quindi la presa di controllo da parte dei mercati finanziari
ha fatto sì che le politiche degli Stati erano delle politiche deflazioniste,
erano politiche che tentavano di mantenere i prezzi vicino a un tasso di
inflazione zero. Ecco perché le politiche fiscali hanno dovuto orientarsi
verso una diminuzione della pressione fiscale, quindi sulla tassa dei capitali
ed altro, e poi avevano dovuto fare le politiche di bilancio di riduzione
delle spese pubbliche in particolare riduzione delle spese dette del welfare.
Ecco perché - altra conseguenza
maggiore - abbiamo assistito allo smantellamento progressivo del welfare,
e questo smantellamento progressivo del welfare si è tradotto in
una amputazione fondamentale e strutturale dei famosi diritti sociali che
erano i diritti sociali coprenti il trasferimento di reddito attraverso
l’intervento pubblico. Ed ecco perché la gente, diminuendo i trasferimenti
di reddito attraverso l’intervento pubblico, il reddito reale disponibile
della gente è diminuito, perché il nostro reddito medio disponibile
era il salario più i trasferimenti sociali. A partire da quel momento,
i salari sono diminuiti perché in tutti i paesi del mondo occidentale
il salario medio settimanale è inferiore a quello del 1979. La gente
lavora di più per essere pagata meno, e quindi il salario - soprattutto
il salario reale - è diminuito. E poi c’è stata la diminuzione
dei trasferimenti sociali, e quindi anche lì c’è una riduzione
del reddito. Ecco perché mediamente la gente, a partire dal 1975
al 1976 è diventata più povera mentre prima, tra il 1945
al 1975, la gente era diventata più ricca.
Il secondo punto del reattore del capitalismo
mondiale è stata l’affermazione graduale del diritto di proprietà
intellettuale.
Non a caso, una delle debolezze della
sinistra è che non si è mai preoccupata di queste cose mentre
invece il capitalismo se n’è occupato benissimo. Il diritto di proprietà
intellettuale non è solamente il diritto d’autore. Il diritto di
proprietà intellettuale significa che un’impresa attraverso i meccanismi
della brevettazione, si impadronisce a titolo di proprietà dei beni,
qualunque bene che possa essere una bottiglia o che possa essere un seme,
o che possa essere il genere umano. Ed è quello che è successo.
Negli ultimi venti anni, per esempio
nel campo agricolo, oramai l’82% dei semi del mondo sono proprietà
di Monsanto. E questo per darvi un esempio perché non posso parlare
troppo, un anno fa Monsanto ha cacciato fuori un transgene che si getta
in un seme e si uccide la capacità di riproduttibilità di
questo seme. Si chiama non a caso, come nei film animati, si chiama terminator;
terminator significa che un seme una volta che è piantato non si
riproduce più, non si può ricoltivare e tutti i contadini
del mondo, una volta che hanno acquistato un seme perché oramai
loro non sono più proprietari perché abbiamo ceduto la terra,
gli abbiamo ceduto le foreste e queste grandi compagnie sono proprietarie
del capitale biotico della terra, sono proprietari dei semi, sono proprietari
delle specie vegetali, sono diventati proprietari delle specie animali
e quindi oramai i contadini devono acquistare i semi che sono selezionati.
Monsanto obbliga loro di prendere anche i pesticidi perché se non
prendono i pesticidi quel seme eccetera eccetera e quindi i contadini sono
diventati praticamente manica, testa, capelli e piedi legati a Monsanto.
Con il terminator l’anno dopo devono ricomprare il seme da Monsanto perché
non lo possono riprodurre.
Ecco perché un mese e mezzo
fa i contadini indiani hanno devastato tutta una serie di piantagioni e
si sono opposti a dover pagare a Monsanto. I contadini brasiliani stanno
cominciando a fare la stessa cosa. I contadini senegalesi la stessa cosa
perché nel frattempo, guarda caso, il capitalismo mondiale si è
rimpadronito di tutta la terra.
Da due anni a questa parte, il 18 maggio
scorso attraverso il Parlamento Europeo, otto anni fa con il congresso
americano, siccome il congresso americano dice ‘io non legifero più
su leggi e nomi umani, lascio libera la gente’, invece il Parlamento Europeo
ha messo le restrizioni però ha lasciato libero la possibilità
da parte delle imprese di acquistare con il diritto di proprietà
intellettuali dicendo ‘questo gene l’ho scoperto io e ho fatto i prodotti
geneticamente modificati, il mais per esempio. Il mais non è proprietà
della natura è proprietà dell’impresa.
Ho visto sui tavoli Biotec il volume
di Rifkin. Rifkin ha dimostrato che con queste legislazioni nei prossimi
anni noi daremo al capitale privato il potere, attraverso i diritti di
proprietà intellettuale, di appropriarsi delle centinaia di migliaia
di geni che compongono il capitale biotico umano. Io vi consiglio di avere
dei geni cattivi che producono cancro, che producono ulcere, che producono
tutto perché se avete dei geni buoni cioè che permettano
di non avere ulcera, cancro eccetera, vi compreranno a pezzettini il laboratorio
e il vostro corpo diventerà proprietà immediata di chissà
chi.
Un altro esempio della proprietà
intellettuale. Alcune compagnie che sono legate anche a Microsoft, stanno
comprando tutte le basi e le banche di fotografia del mondo. Perché
con la numerizzazione attuale, coloro che si impadroniscono di una foto
e poi la numerizzano, dicono che la foto numerizzata è la loro,
e depositano brevetti. Non so se avete visto sui giornali un mese fa, c’è
stata una polemica negli Stati Uniti tra questa società che aveva
cominciato a raccogliere tutte le fotografie disponibili nelle città
americane e un film dove il proprietario aveva deposto il brevetto e glielo
hanno dato, di una foto numerizzata della facciata della Borsa di New York
e ha portato causa a un produttore di film che aveva utilizzato la fotografia
della facciata della Borsa dicendo "tu non puoi utilizzare la facciata
di Wall Street perché oramai è depositata, io solo ho il
diritto di proprietà intellettuale sulla fotografia della facciata
di Wall Street". Non è uno scherzo, questo è vero. Attraverso
il diritto di proprietà intellettuale noi abbiamo dato il potere
di proprietà di tutto al capitalismo.
Perché è successo questo?
Perché nel frattempo quest’altra parte dello schema è tutto
il processo di liberalizzazione, di deregolamentazione, di privatizzazione,
il processo di competitività, il processo che l’innovazione tecnologica
è l’unico strumento attraverso il quale si può fare valore
aggiunto, si crea ricchezza e l’innovazione tecnologica è sempre
un’innovazione ogni giorno in innovazione di processo che tenta di ridurre
i costi, aumentare la qualità, migliorare la varietà, aumentare
la flessibilità eccetera. Tutte queste cose che negli ultimi venti
anni sono diventati principi ispiratori a tutti noi perché io credo
che pochi di noi si siano battuti per esempio contro l’innovazione tecnologica.
Pochi di noi, ed è una delle debolezze della sinistra, è
che la sinistra in tutto il mondo non ha mai avuto una concezione autonoma
della politica della scienza e della tecnologia. La sinistra si è
occupata dell’utilizzazione della tecnologia. Dice: ‘Io voglio un’utilizzazione
socialmente buona, tu voi...’ però non siamo rimontati all’origine
della politica della scienza e della tecnologia, perché anche la
sinistra è scientista, tecnologicista, produttivista perché
anche noi dipendiamo dal 19esimo secolo. Non per nulla il barbone Marx
celebrava con grande poesia e con grande capacità lirica i caminetti
delle imprese e sputava sopra sulle campagne conservatrici, razionarie
e così via. E noi ancora dipendiamo da queste cose, e poi è
la storia e quindi non bisogna avere paura di riconoscere queste cose.
Tutta la liberalizzazione, la deregolamentazione,
la privatizzazione, la competitività, l’innovazione tecnologica
crea questa mondializzazione. Quindi tutte le conseguenze di questa cosa,
di questo reattore, la prima è l’implicazione di questa mondializzazione,
è che questa mondializzazione non solo è irresponsabile ma
è invece voluta. Questa mondializzazione non è il risultato
di cospirazioni, nè cospirazioni nè casca dal limbo del cielo,
sono strategie che si sono venute accumulando negli ultimi venti anni -
e questa sempre la parte del cuore - con un obiettivo fondamentale che
è quello di aumentare il tasso di profitto del capitale.
Cosa era successo negli anni Sessanta?
Alla fine degli anni Sessanta inizio anni Settanta, si è constatato
che il tasso di profitto del capitale diminuiva, anche perché diminuiva
la produttività. In quella fase le nostre economie erano saturate
- la crisi della nostra economia è cominciata dagli anni Settanta
-, oramai sono più di vent’anni che c’è questa fase di stagnazione
perché i nostri paesi sono saturati, e tutte le aperture verso i
mercati emergenti (Brasile, India, Asia, Cina) non hanno contribuito a
far sì che il tasso di crescita delle nostre economie avanzasse
aumentasse perché il mercato non è stato aumentato. La domanda
globale aggregata non è aumentata così considerevolmente
al ritmo stesso dell’innovazione tecnologica, però negli anni Sessanta
inizio anni Settanta c’era una perdita di tasso di produttività
globale all’interno del tasso di profitto del capitale. E tutti i capitalisti
del mondo hanno detto basta, qui bisogna terminare. Ed ecco che lì
è cominciata tutta la liberalizzazione, tutta la deregolamentazione,
tutta la privatizzazione, tutta la competitività, bisognava restaurare
il tasso del profitto del capitale elevato. In venticinque anni ce l’hanno
fatta. Negli ultimi sei-sette nani il tasso del profitto del capitale è
ricominciato a salire. Ecco perché tutti i redditi da capitale sono
diventati sempre crescenti, mentre invece i redditi da lavoro sono diminuiti
perché nella redistribuzione dei guadagni di produttività
sono riusciti a far sì che il tasso di profitto del capitale fosse
rispettato in priorità.
Quali sono le conseguenze? La prima
conseguenza è la riduzione della persona a risorsa umana. Quello
che è interessante, è che noi ancora una volta la sinistra,
si è fatta prendere dalle forze conservatrici, prendere nel linguaggio,
nelle narrazioni, nei discorsi. Chi tra la sinistra ha mai detto che non
bisogna utilizzare il concetto di risorsa umana?
La Cgil, i sindacati internazionali,
la Cisl, si sono messi in lotta contro il concetto di risorse umane? Noi
abbiamo accettato il concetto di risorsa umana, il diritto all’esistenza
della risorsa in funzione della sua redditività: una risorsa umana
che non è redditizia è buttata via e una risorsa umana che
è meno redditizia di un’altra risorsa è rimpiazzata da un’altra
risorsa che è più redditizia. Se per il capitale la risorsa
umana in Indonesia o in Polonia è più redditizia di Milano
perché il capitale deve utilizzare la risorsa umana a Milano? Soprattutto
che gli abbiamo dato la liberalizzazione dei mercati, che gli abbiamo dato
la deregolamentazione del lavoro, che gli abbiamo dato la privatizzazione
di fare tutto quello che vuole, e gli abbiamo detto che lo deve fare e
noi tutti siamo felici perché così aumenta la sua competitività.
Come abbiamo potuto resistere il giorno
in cui volevano chiudere, soprattutto che abbiamo anche noi accettato che
la competitività dell’economia milanese e delle imprese milanesi
è importante, e che la competitività delle imprese lombarde
nell’economia mondiale è importante. Quelli dicono: ‘Scusate, io
ho una risorsa, la voglio molto qualificata la risorsa e più è
qualificata la pago bene però voglio avere anche risorse mediamente
qualificate che pago poco altrimenti vado in Indonesia oppure in Polonia’.
Ed ecco allora che non siamo più
persone, non siamo più lavoratori. Prima i diritti erano dei diritti
universali e inalienabili inerenti alla persona, ma oggi, invece, quali
diritti ha la risorsa umana? Avete mai visto un sindacato della risorsa
umana? Avete mai visto una risorsa umana fare sciopero? Una risorsa è
da combinare con un’altra risorsa! Ecco perché le risorse umane
non hanno più diritti! Cosa hanno eventualmente? Hanno diritti irreversibili.
Ecco perché la destra del mondo ci dice che i diritti sociali sono
irreversibili, dipende dal livello di finanziamento da parte dello Stato:
si misura il grado di accesso ai diritti sociali umani in funzione della
salute del sistema finanziario pubblico. Mentre prima i diritti sociali
erano inerenti alla persona umana e quindi erano universali e inalienabili,
oramai si è andati verso l’individualizzazione privatizzata dei
diritti e se tu non te li finanzi più questi diritti te li tolgono.
Perché dal diritto alla pensione
vogliamo passare alla capitalizzazione e non più al sistema di ripartizione?
Perché si dice, il tuo diritto alla pensione è individualizzato.
Non tutti devono avere un sistema universale, questo non è inalienabile.
Tu te lo devi pagare, e se te lo paghi avrai diritto, il giorno che tu
smetti di pagare non sei più solvibile e ti togliamo il diritto.
La reversibilità è in funzione del tuo reddito. Ecco perché
il capitale vuole avere tutto il mercato del lavoro e il mercato delle
pensioni, ed ecco perché oramai il nostro futuro di pensione dipende
dalle Borse, dipende dai mercati finanziari. Ecco perché invece
di sbagliarvi, non dovete fare solo un fondo di pensione ma dovete farne
parecchi. Ecco perché dovete assicurarvi, fare due o tre assicurazioni
di pensione perché se ne sbagliate una arrivederci.
Per questo tutti quanti noi siamo destinati
a diventare dei gestori di portafoglio dei rischi. Bel progresso! Noi tutti
quanti dobbiamo diventare dei gestori di portafoglio a rischio, però,
non abbiate molta fiducia sui modelli di trattamento rischio perché
i due grandi premi nobel del management del rischio, che erano i due grandi
consiglieri del Longcham Capital Management, o più l’ex vicepresidente
della Federal Reserve Bank, il Longcham Capital Management ha fatto un
buco enorme di quattro miliardi di dollari perché questi due che
avevano ricevuto il premio nobel che avevano fatto dei modelli di gestione
del rischio dei mercati finanziari si sono sbagliati. Quindi allora che
potete fare voi poveri cristi che non sapete nemmeno che cosa significa
un mercato finanziario secondario e terziario e invece dovete gestire la
vostra pensione? Avete capito dove andate?
Altra cosa che è stata eliminata
è che non siamo più cittadini, siamo consumatori e se tu
non sei un consumatore che paga, arrivederci, soprattutto poi che sei un
consumatore che diventa azionista. Ecco la terza via di Tony Blair. Capitalismo
popolare. Tutti devono diventare azionisti dell’impresa e delle economie
nazionali e così tutti quanti staremmo bene, ma come cittadini riusciremo
mai a far sì che Shell non distrugga la sua piattaforma nel mare?
Pensate un po’ se noi cittadini fossimo andati al Bundestag tedesco e avessimo
detto, tu Bundestag devi fare una legge che impedisce a Shell di colare
a picco la piattaforma. E chi ci credeva che saremmo riusciti a obbligare
Shell attraverso il Bundestag? Invece cosa abbiamo fatto? Abbiamo boicottato
le stazioni di benzina di Shell e Shell ha ceduto, altrimenti detto, noi
siamo capaci di agire come consumatori perché come cittadini nessuno
ci considera.
Tanto meglio allora se ci sono le campagne
di consumatori responsabili, di consumatori attivi, perché questo
significa una sconfitta della democrazia attraverso i parlamenti perché
se non riusciamo a far cambiare la situazione che attraversa le campagne,
mentre invece le leggi del Parlamento non servono a nulla, allora che facciamo?
Allora accettiamo che la cittadinanza della democrazia passa attraverso
il mercato.
Se accettiamo che l’unica maniera di
essere veramente cittadini oggi in un’economia mondiale dei mercati è
essere un consumatore attivo, significa che non abbiamo più bisogno
dei Parlamenti e quindi riconosciamo che la democrazia, riconosciamo, altra
conseguenza, l’indebolimento e la denigrazione della democrazia rappresentativa.
Ecco perché allora oggi per mancanza di meglio cosa facciamo? Stiamo
diventando tutti degli entusiasti per la democrazia del cyber-space e che
tutti diventiamo parti terminali attivi, responsabili del network society.
Finalmente siamo tutti i nuovi cittadini nel cyber-democracy perché
non crediamo più nel Parlamento.
Una cosa pratica che dobbiamo fare,
per me, è difendere i parlamenti e inventare nuove forme parlamentari.
E una funzione che penso anche i sindacati devono continuare a esercitare
è riaffermare la priorità del politico: i sindacati devono
battersi per un politico, efficace rappresentativo e legittimo.
Altra conseguenza sulla quale altri
amici interverranno, è il primato della finanza sul politico. Cioè
dire oggi, praticamente che il politico è nel bagagliaio dell’automobile
e il finanziario è alla guida dell’auto; tutto il problema è
sapere di come riportare il politico che è nel bagagliaio dell’auto,
riportarlo a essere seduto al posto di guida perché al posto di
guida oggi, per le ragioni che vi ho detto, c’è il finanziario.
Ecco perché dobbiamo batterci
contro la sovranità della politica monetaria e contro l’indipendenza
delle banche centrali ma ritornerò brevemente su questo punto.
Poi c’è una logica di conquista.
Dentro questa mondializzazione in fondo c’è una logica di inevitabilità
della guerra. La mondializzazione attuale non ci dice che c’è pace,
la mondializzazione attuale ci dice che siamo tutti oramai guerrieri in
un mercato mondiale sempre più in cambiamento dove l’innovazione
oramai modifica e destabilizza tutte le posizioni acquisite. Oramai ci
si dice che non ci sono più vantaggi comparativi, le uniche cose
che esistono sono i vantaggi competitivi e la competizione significa uccidere
il rivale, togliere il concorrente. Ecco perché siamo in una logica
di guerre economiche, di guerre commerciali e di guerre tecnologiche. Ed
ecco perché gli americani hanno anche inventato l’inevitabilità,
in questa guerra ci sarà l’inevitabilità del conflitto tra
civiltà. Gli americani hanno ormai teorizzato il fatto di dire,
siccome loro sono i dominanti di questa civiltà occidentale, è
più si mondializza più le altre civiltà attaccheranno
le civiltà occidentali, ed ecco perché la sicurezza degli
Stati Uniti diventerà il problema maggiore del Ventunesino secolo.
Questo è il discorso fatto allo Stato delle Nazioni di Clinton;
il discorso allo Stato delle Nazioni di Clinton è stato: il Ventunesimo
secolo si aprirà con il grande problema della sicurezza contro gli
Stati Uniti e io come presidente devo assicurare la sicurezza degli Stati
Uniti, e quindi investo tutto sul problema sicurezza, la sicurezza contro
la criminalità informatica, contro la criminalità biologica,
contro la criminalità di ogni forma.
Tutto il mondo ormai deve sapere che
gli Stati Uniti non accetterranno mai che sia messa in pericolo la loro
sicurezza interna, ed ecco perché la sicurezza degli Stati Uniti
diventerà il grande problema come già Reagan aveva tentato
di fare.
Ed ecco perché tutte le politiche
finanziarie, le politiche tecnologiche saranno orientate verso questo problema
della sicurezza, ed ecco perché saremo sempre in uno stimolo di
guerra, ed ecco perché saremo sempre sotto ricatto dal fatto ‘ma
tu che vuoi? (cambio lato cassetta) ... dato alle ortiche, ecco che allora
si smantella il welfare, ecco perché si parla di nuova alleanza
tra Stato e imprese e Stato e mercato. Quello che è bello che oggi
noi della sinistra partecipiamo anche a pensare che oramai il buono Stato
sia lo Stato che abbia come funzione storica quella di creare le condizioni
affinché il mercato possa esercitare la sua funzione principale
di meccanismo prioritario di allocazione delle risorse.
Lo Stato non è quello che definisce
gli obiettivi, quello che definisce le regole, ma lo Stato è quello
che crea l’ambiente più favorevole affinché il mercato resti
il dispositivo che assicura la selezione delle priorità nell’allocazione
delle risorse e assicuri la selezione e la priorità nell’area di
distribuzione, guadagni e produttività cioè la distribuzione
della ricchezza. Abbiamo oramai paura di difendere lo Stato, e tutto ciò
che comporta i Parlamenti e i servizi pubblici ed ecco perché ora
abbiamo liberalizzato e praticamente privatizzato l’elettricità.
Il giorno in cui oramai abbiamo liberalizzato e regolamentato l’elettricità,
automaticamente, siccome questi sono servizi in termini anche tecnici che
vanno insieme a causa delle canalizzazioni - i gas, il metano per le città
- liberalizziamo fra poco anche l’acqua, e l’acqua sarà privatizzata.
Le cose vanno insieme. Questi si chiamano i lavori pubblici. Tutto ciò
che è telefono, gas, elettricità, acqua, sono insieme, fanno
parte delle stesse canalizzazioni. Ecco perché molte volte le società
vanno insieme, e una volta che avremo privatizzato le canalizzazioni di
gas, di metano eccetera - abbiamo già privatizzato le canalizzazioni
di Telecom - privatizzeremo anche l’acqua perché sono insieme. Quindi
daremo proprietà all’acqua e attraverso l’acqua daremo la proprietà
dell’acqua come avremo dato la proprietà della terra, come avremo
dato la proprietà dei geni, del capitale biotico.
Non è un caso che noi ci troviamo
in una riesplosione delle ineguaglianze socio-economiche e politiche ed
ecco perché il direttore della Banca centrale ha ragione. La modernizzazione
attuale fa riesplodere tutte le ineguaglianze, ed ecco perché piuttosto
di una modernizzazione responsabile si ha una modernizzazione dell’espropriazione,
ci hanno espropriato la persona umana, ci hanno espropriato la cittadinanza,
ci hanno espropriato la democrazia, ci hanno espropriato la solidarietà
dicendo che bisogna essere competitivi, ci hanno espropriato della giustizia
dicendo che bisogna essere efficaci, ci hanno espropriato dello Stato dicendo
che c’è lo Stato, è il mercato che conta, ci hanno espropriato
della giustizia con l’efficacità e poi con la tecnologia, ci hanno
espropriato del culturale dicendo tutto era invece merce, ci hanno espropriato
dell’umano dicendo tutto è tecnologia, ci hanno espropriato di tutto.
Ecco che è lì che si inserisce bene il discorso di La Fontaine,
è lì che si inserisce bene la protesta che dobbiamo fare
però capace di poter fare l’alternativa.
Qual è l’alternativa? A mio
parere il nodo principale è la finanza. Ora non voglio prendere
la parola per Enrico Bigli e per Marco Vivarelli però è centrale
la finanza, perché come dicevo prima, il cuore del reattore nucleare
dell’economia capitalista di mercato è la moneta merce. In fondo
se volete l’economia è un po’ così oggi. L’economia è
come una mongolfiera: avete l’economia finanziaria, e l’economia reale
è la navicella. L’economia reale oramai non è che alimenta
l’economia reale nè l’economia finanziaria è al servizio
dell’economia reale: l’economia reale è sballottata secondo i venti
dei mercati finanziari.
Di tanto in tanto il gas, che è
il capitale, le monete eccetera, cosa fa? è come l’ulcera nello
stomaco che di tanto in tanto fa un piccolo buco sulla coperta della mongolfiera,
lacera il tessuto e c’è il vento e allora questa mongolfiera sbanda.
Il peso quando il buco è più grosso si parla di una crisi
finanziaria, quando corre nel sud-est asiatico si parla di una grossa crisi
finanziaria.
E poi la gente dice che a un certo
momento più si dà gas, che significa liquidità - molta
gente dice che la crisi è la liquidità perché c’è
tanto denaro che circola in tutte queste cose - la gente si aspetta una
crisi del sistema, che il pallone scoppia. Nel frattempo cosa succede?
Per poter governare sto pallone che è erratico, instabile, perché
la volatilità dei tassi di interessi l’instabilità dei tassi
di cambio anche con l’euro eccetera, fa sì che questo pallone sia
veramente instabile. Cosa fa chi guida la navicella dell’economia reale?
Tentano di buttar via gente e peso della navicella. Ecco perché
si elimina gente dal mercato del lavoro, ecco perché si abbandonano
paesi ma un certo momento hanno abbandonato la Corea del Sud, hanno abbandonato
l’Indonesia. Cosa è successo in Indonesia? Dal luglio del ‘67 60
milioni di gente è diventata povera, mica stiamo parlando di barzellette!
Ora nel Brasile più di 30-40 milioni si comincia a dire che erano
già poveracci, quelli che non erano poveracci stanno diventando
poveri.
Siamo a botte di milioni di gente che
sono abbandonati dall’economia reale. Cosa bisogna fare? A mio parere bisogna
- e Oscar La Fontaine ha ragione - cominciare a rimettere controlli sui
movimenti dei capitali. Caso strano, proprio in questi giorni che è
finita la ratificazione da parte dei vari Stati dell’accordo realizzato
sulla liberalizzazione dei servizi finanziari a livello dell’organizzazione
mondiale del commercio, il quale ha celebrato come una grande vittoria
da un certo signore che si chiama Renato Ruggero di matrice socialista
che celebra la liberalizzazione dei servizi finanziari come un grande progresso
dell’economia mondiale e il benessere dell’umanità. Allora noi invece
dobbiamo tentare di mettere dei controlli sui movimenti dei capitali. Poi
bisogna effettivamente lottare contro la speculazione perché questa
palla oggi è stimata 2mila miliardi di dollari al giorno di transazioni;
ora, secondo le stime più ottimiste il montante delle riserve accumulate
da tutte le banche centrali del mondo sviluppato raggiunge al massimo 1200
miliardi di dollari. Le stime reali vanno tra 800 miliardi a 1000 miliardi
di dollari. Voi dovete pensare che tutti questi movimenti, anche se tutte
le banche centrali si mettessero d’accordo non arriverebbero mai a poter
lottare contro i movimenti attuali dei mercati finanziari. Ecco perché
allora è ironico che noi negli ultimi anni, con tanti governi che
si dicevano socialisti, abbiamo riconosciuto l’indipendenza dalla banca
centrale al politico mentre sappiamo benissimo che le banche centrali non
sono indipendenti dai mercati finanziari.
Le banche centrali stabiliscono il
tasso di sconto non perché orientano i mercati finanziari ma lo
fanno sempre in reazione all’evoluzione del mercato. Mai e poi mai negli
Stati Uniti o in Inghilterra, adotterebbero delle misure di inflazione
che obbligherebbero i mercati finanziari a reagire. La logica della Federal
Reserve Bank, come di tutte le banche centrali, è di aggiustare
eventualmente i comportamenti nefasti o le insufficienze del mercato finanziario,
non di orientare il mercato finanziario. E a Davos, alla fine di gennaio
inizi di febbraio, a Davos il signor Rubin segretario di Stato per il Tesoro
americano ha detto: "Ora si parla di nuove regole ma noi americani siamo
contro ogni regolamento del mercato. Il mercato deve essere lasciato libero".
Cosa ha proposto Rubin? Rubin ha proposto due cose per risolvere la crisi
finanziaria: è un problema di revisori di conti di contabilità
delle imprese. Che tutti facciano come le imprese americane. E poi la più
grande prudenza degli investitori istituzionali. Ha detto agli investitori:
"Siate un po’ più prudenti".
Ecco la soluzione del governo americano
per quanto riguarda la crisi finanziaria. Cosa dicono oggi gli americani?
Gli americani, e anche molti europei, dicono che la crisi finanziaria nei
paesi del sud-est asiatico è perché le banche, le imprese,
non hanno nessun sistema di contabilità. Ecco perché non
funzionavano perché non hanno delle buone banche, non hanno delle
buone assicurazioni, non hanno delle assicurazioni dei mercati finanziari,
non hanno delle Borse che funzionano, non hanno regole. E l’hanno scoperto
ora che non hanno regole? Sono trent’anni che pompano, pompano e scoprono
ora che non ha regole? Ci prendono per degli imbecilli! Ecco perché
allora le quattro grandi società di Account (Andersen ...) diventano
quelle fondamentali, che dicono come devono comportarsi.
E la seconda cosa è la prudenza.
Noi dobbiamo difendere l’obiettivo che bisogna rimettere i controlli sui
movimenti di capitali a livello nazionale, a livello europeo; bisogna impedire
questa palla finanziaria, bisogna applicare il controllo dei depositi come
si fa in Cile. Poi, come siamo riusciti a impedire l’AMI (accordo multi.....
sugli investimenti) bisogna invece avere delle condizioni per i requisiti,
bisogna sempre avere una contrattazione sulla riutilizzazione dei profitti
sul luogo, avere dei coefficienti locali, dei fattori e delle risorse,
rispettare le leggi sociali, rispettare i pre-requisiti ambientali. Bisogna
avere questo, il capitale non può essere libero. Il numero uno della
distribuzione Wall Mart non può venire in Italia e comprare tutte
le grandi case di distribuzione; l’ha fatto nel Quebec, hanno acquistato
tutto e dopo fra qualche settimana cominceranno la razionalizzazione ed
elimineranno migliaia di persone.
Perché un capitale può
acquistare tutto? Perché domani la General Motors può venire
ad acquistare la Fiat e poi smantellarla? Non vi preoccupate prima o poi
se la Fiat non si fa tanti e tanti capitali e non acquista tante altre
cose se la mangiano. Fra dieci-quindici anni la Fiat può sparire.
E perché il capitale può venire? Dice, io assicuro uno maggiore
utilizzazione della risorsa finanziaria. Io assicuro un’allocazione ottimale
della risorsa finanziaria nel settore automobilistico e quindi garantisco
la più grande efficacia produttiva delle risorse nel settore automobilistico.
Chi decide che questo è più efficace? E’ chiaro, c’è
solo un parametro oggi che decide: è la crescita del valore degli
averi degli azionisti.
Bisogna intervenire con tutta una serie
di misure, e quindi bisogna rivedere tutti i principi di liberalizzazione,
di privatizzazione, bisogna fare la lotta contro l’eliminazione dei paradisi
fiscali. Ci sono 37 paradisi fiscali. E poi migliaia e migliaia di centri
di coordinamento internazionale dove il capitale non paga. E poi si dice
che tutti quanti fanno lo sport dell’evasione fiscale, è chiaro!
Voi sareste veramente bischeri se pagaste le tasse. Ci avete dato occasione
di fare l’evasione fiscale perché dovete pagare le tasse? Bisogna
eliminare i paradisi fiscali, bisogna eliminare che siano le sei società
di rating che determinano la salute e la sanità di un’economia finanziaria.
Oggi ci sono sei società private che stabiliscono se un paese è
buono, se un’impresa è buona, se un’azione è buona. E perché
bisogna lasciare queste cose?
Bisogna intervenire. Però per
intervenire nella finanza bisogna che l’economia reale riprenda. Ecco perché
La Fontaine dice: rilancio di una politica macro-economica di investimenti
pubblici, di stimolo della domanda eccetera eccetera, perché vuole
un’economia reale.
Per l’economia reale bisogna orientarci
verso un contratto sociale mondiale. E qual è il contratto mondiale?
Primo, una logica della creazione di beni e servizi di base per la popolazione.
Oggi su circa 5,8 miliardi di gente 1,7 miliardi di gente non ha casa,
vive nelle strade o nelle catapecchie. 1,4 miliardi di gente non ha accesso
all’acqua potabile. Arriviamo secondo il nostro calendario al Terzo Millennio
e c’è ancora 1 miliardo e 400 milioni di gente che non ha acqua,
che non sa cosa è una goccia d’acqua potabile.
E poi diciamo che siamo nella nuova
economia. Ma che tipo di economia abbiamo che non sappiamo dare dei rubinetti
d’acqua a 1 miliardo e 400 milioni di gente! Però il fast-food!
23mila punti di vendita di McDonald’s; 40 milioni di clienti al giorno,
23mila punti di vendita di consumazione. E questo lo si sa fare, però
i rubinetti d’acqua non si sanno fare! Ecco perché bisogna la res
pubblica di base in un contesto di pluralità e diversità
delle logiche di contratto sociale.
Ecco che bisogna andare verso un governo
a livello mondiale della solidarietà, la solidarietà tra
persone non la competitività. La solidarietà fra le comunità
e i popoli e non la guerra economica, la solidarietà tra le generazioni,
la solidarietà tra le generazioni e non dire che le pensioni devono
essere destinate in Borsa. Cosa significa far dipendere alle generazioni
nostre prossime solo dal valore delle Borse? Ecco che bisogna, in un contesto
di sicurezza mondiale dove i problemi di identità, della cittadinanza,
dei saint papier... Abbiamo fatto bene in Italia a dare questa politica
di riconoscimento alle 250mila persone che avevano fatto domanda di essere
integrate, una delle rarissime belle cose che noi italiani abbiamo fatto
negli ultimi anni, e dobbiamo essere fieri. Quindi ristabilire la sicurezza
mondiale in un contesto di rappresentatività per dare poi la sicurezza
cioè ai suoi beni e ai servizi di base.
L’Inghilterra da cinque anni ha diminuito
l’accesso dell’acqua alla gente; l’Inghilterra all’inizio di questo secolo
era un paese dove tutti avevano accesso all’acqua potabile. Oggi alla fine
di questo secolo oramai ci sono strade a Londra che non sono servite all’acqua
potabile perché sono abitate da gente che non può pagare
e quindi hanno chiuso. Vi segnalo tra l’altro che nel 1951 la Gran Bretagna
era il paese che aveva il reddito pro-capite più elevato del mondo;
nel 1976 ancora erano quarti; nel 1995 sono undicesimi. Questa è
tutta la liberalizzazione, la deregolamentazione, la privatizzazione. Stanno
diventando poveri sotto Tathcher e altri e anche Blair.
Noi possiamo fare le cose, non è
vero che è impossibile battersi contro questo sistema. Vi do’ un
esempio concreto che porta sulla Banca Centrale Europea.
Cosa farete voi il 13 giugno prossimo?
Il 13 giugno prossimo voteremo perché ci sono le elezioni europee:
andrete a votare attualmente dei candidati che per l’80% sono favorevoli
all’indipendenza della Banca Centrale Europea e quindi favorevoli all’indipendenza
della Banca Centrale dai mercati finanziari. Allora vi suggerisco che noi
possiamo cambiare questa cosa, e cominciare a fare un’azione del cittadino
che informa tutti i partiti politici. Quelli fascisti e nazisti no, però
quelli di centro, diciamo le tre grandi famiglie, i liberali, i cristiano
sociali se ce ne sono ancora e poi la sinistra, e gli diciamo: noi non
voteremo quei candidati che non si impegnano formalmente, se eletti, a
modificare lo statuto della Banca Centrale Europea e a battersi contro
l’indipendenza della Banca Centrale. Se voi non fate questo è inutile
riunirsi qui di nuovo fra sei mesi o un anno perché avrete continuato
a mantenere delle strutture di decisioni politiche che non hanno niente
a che vedere con tutti i nostri principi che difendiamo perché l’indipendenza
della politica monetaria, la sovranità della politica monetaria,
l’indipendenza della Banca Centrale Europea significa fare tutto ciò
che voi non volete. E allora perché andate a eleggerli? Io non vi
dicono di fare l’astensione, vi dico di andare alle elezioni e votare per
il Parlamento Europeo e dire alla gente che voi voterete solo quei candidati
che si impegneranno a cambiare la situazione altrimenti fra un anno saremo
qui e ancora discuteremo come il capitalismo ha vinto.
Quando poi tutti quanti andremo dal
buon Dio, il buon Dio vi domanderà: cosa hai fatto il 13 giugno?
E voi non potrete dire: ma io non lo sapevo perché il buon Dio vi
dirà: guarda che in febbraio a Milano il Petrella ve l’ha detto!
Intervento
di Enrico Bigli, esperto finanziario
Il mio intervento sarà, per
alcuni versi, diverso rispetto a quello che mi ha preceduto.
Rispetto l’intervento che mi ha preceduto
ho molto meno certezze circa i rapporti che ci sono tra finanza ed economia,
molto meno certezze dei rapporti di pendenza della politica monetaria,
che sarebbe il controllo della politica di bilancio e così via,
mi sembra che i rapporti siano molto più complessi tra questi fattori.
Avrei molto meno certezze che una banca centrale europea piuttosto che
una banca nazionale controllata dal governi e dai vari governi sia un fattore
meno forte per combattere la finanza. Non vedo uno scontro tra banche centrali
governate dalla finanza perché indipendenti e una banca centrale
che invece è controllata dai governi possa a questo punto essere
una cosa diversa.
Mi pare che le cose siano più
complesse, se potessimo ridurli a certi schemi le cose andrebbero sicuramente
meglio.
Un’altra premessa che volevo fare -
dovrebbe essere ovvia ma preferisco dirlo prima - è che a me pare
ragionare sullo sviluppo economico mondiale non possa prescindere dal ragionare
sulla crescita del Pil mondiale. Io credo che poi ci sia un forte problema
dopo, o contemporaneamente, non soltanto di crescita del Pil ma anche di
distribuzione. Che i due problemi debbano essere affrontati contemporaneamente
sì, ma dimenticarsi che se non aumentiamo la torta da distribuire
di problemi ce ne sono per tutti. Non possiamo limitarci a una diversa
distribuzione della torta che abbiamo, sarebbe un errore estremamente importante.
Queste le premesse che volevo fare.
Volevo raccontarvi delle cose un po’ più specifiche di come si vedono
le cose all’interno del mondo in cui io vivo che è quello della
finanza.
Cos’è questa globalizzazione?
C’è un indice di prodotti sintetici che si tratta a Chicago che
si chiama Globecs. Questi indici funzionano 24 ore su 24; tutti gli operatori
finanziari ormai per 24 ore su 24 hanno sui loro telefonini, ovunque, l’andamento
della contrattazione di prodotti sintetici che stimano l’andamento delle
cose del mondo attraverso le contrattazioni che avvengono a Globecs di
Chicago. Tutti gli atti che gli operatori finanziari fanno, da quando vanno
a lavorare, a Francoforte alle 8.30, a Zurigo alle 9, a Milano alle 10,
hanno sempre come riferimento questa grande trattazione mondiale che è
su questo indice che si chiama Globecs.
Ciò testimonia come ormai il
dato della finanza sia un dato mondiale e di grande interdipendenza mondiale
di qualsiasi scelta all’interno della finanza. Ma testimonia anche un altro
fatto che pervade e ha cambiato profondamente la finanza in questi anni,
come però ha cambiato anche il dato dell’economia reale, forse in
misura minore ma certamente anche l’economia reale va in questa direzione.
Tutta questa globalizzazione, che deriva
principalmente da tecnologie, è l’introduzione di una serie di tecnologie
prima inesistenti ed ora esistenti che trasformano e permettono alla finanza
di trasformarsi. Il fatto di poter avere in ogni istante come vanno le
cose in tutto il mondo, il fatto che attraverso l’utilizzo di procedure
informatiche, qualsiasi cosa nel mondo sia su una merce (petrolio, rame
o l’alluminio), si è su un indice di Borsa si è su una valuta,
può essere trasformato in un prodotto sintetico confrontabile uno
con l’altro e quindi in qualsiasi momento contrattabile e definibile. E
un dato di tecnologia così come la tecnologia sta cambiando il modo
di produrre, il modo di organizzare il lavoro e altre cose, e così
ha trasformato profondamente la finanza. Badate, questa è una traformazione
assai recente se pensiamo che ancora sino a un anno fa a Francoforte c’era
la Borsa gridata, eravamo ancora a quei mercati in cui la gente si intendeva
coi segni.
Cose di questo tipo sono oggi a breve
distanza assolutamente inconcepibili. La creazione di grande velocità
nella trasmissione delle informazioni di prodotti sintetici sempre più
raffinati ha permesso un aumento enorme degli scambi. Ma badate, questo
aumento enorme degli scambi deriva soprattutto dai dati di tecnologie nuove
che sono applicate nella finanza. Si muovono in questo modo delle riserve
assai rilevanti, delle masse di capitali come veniva spiegato prima, sono
ormai difficilmente controllabili dalle banche centrali. Il discorso che
le banche centrali sono ormai impotenti mi sembra assai semplicistico.
Certamente oggi non hanno più il dominio le banche centrali rispetto
ai mercati finanziari, rispetto ai cambiamenti che i mercati finanziari
inducono che avevano dieci o quindici anni fa. E non li hanno perché
da una parte c’è un processo di modernizzazione che dall’altra parte
- e ne parlerò dopo - non abbiamo.
Accanto al dato della globalizzazione
della finanza, però, esiste un altro dato altrettanto importante:
le economie fanno tutt’altro che globalizzarli. Assistiamo da una parte
alla globalizzazione del mondo della finanza, dall’altra a una frammentazione
delle economie che in sè e tra di loro siano sempre più diverse.
Ricondurre a un unico schema tutto quello che sta avvenendo nel mondo in
questi anni è un errore a mio avviso grave perché bisogna
capire i singoli avvenimenti, valutarli e saperli esaminare nella loro
diversità.
Io voglio dire alcune cose che possono
apparire banali ma se da una parte questo fatto delle crescite diventa
sempre più globale, voi pensate che per esempio chi fa il mio mestiere
adopera la crescita del Pil di un paese e le prospettive di crescita del
Pil di un paese come uno dei dati decisivi per una scelta di investimento.
Io tenderò ad investire in un paese dove c’è maggior crescita
del Pil perché se il Pil cresce ci sono più opportunità
di crescita delle imprese e quindi dei profitti e quindi i miei investimenti
abbiano successo. Per esempio, in questo momento chi fa il mio mestiere
è molto interessato ad investimenti in India perché, supponiamo
che le imprese indiane abbiano grandi possibilità di sviluppo grazie
a una potenzialità di crescita del Pil indiano tra l’8 e il 10%
annuo nei prossimi anni, contro una possibilità di crescita in Europa
inferiore al 2%.
Non c’è nessuna corrispondenza
tra un dato, in questo caso della finanza, interessata all’India e il dato
di come starà la popolazione dell’India nei prossimi anni. E’ vero
che il Pil indiano crescerà dell’8-10% ma è altrettanto vero
che il Pil pro-capite dell’India nei prossimi 5-8 anni è destinato
a rimanere invariato attorno ai 500 dollari pro-capite.
E’ vero che la previsione di crescita
del Pil giapponese nei prossimi 5 anni è decisamente inferiore all’1%
all’anno, eppure la previsione di crescita del Pil pro-capite giapponese
passa dai 27-28mila dollari attuali ai 33mila dollari pro-capite.
Gli avvenimenti sono estremamente complessi
perché se da una parte cresce il Pil del paese, dall’altra parte
si ha un aumento demografico a questa esplosione in India, questa crescita
non sarà mai sufficiente per migliorare il tenore di vita di quelle
popolazioni. Per loro è un problema che la demonizzazione della
finanza non risolve, anzi, in questo caso la finanza probabilmente porta
un contributo complessivo all’India, ma se non c’è quest’altro pilastro,
per esempio, di in qualche modo un dato di controllo demografico non c’è
crescita che tenga per migliorare la situazione media degli abitanti dell’India.
Faccio un esempio assolutamente opposto.
C’è una globalizzazione dei processi finanziari, c’è una
globalizzazione dei prodotti, ma in questo dato di frammentazione delle
economie ci sono dei modi per farli completamente diversi e che possono
far coabitare dei modi di produzione uno molto differente dall’altro.
Il nuovo cip di cui è stato
annunciato la produzione settimana scorsa, fatto in collaborazione da Motorola
e Siemens e che è destinato a dare un nuovo impulso a tutto i mercati
dei semiconduttori, decisivo per tutta la questione degli elaboratori,
è un prodotto fatto da una parte per il 50% da un’iniziativa sui
capitali di ricerca private americane assolutamente autonome e dall’altra,
per la parte che riguarda Siemens, finanziato principalmente dalla Repubblica
dell’Assia. Siamo forse a più dati di indipendenza, voglio dire,
di un processo autonomo di sviluppo delle tecnologie e invece dei processi
diversi di sviluppo delle economie.
Si parla molto di crisi finanziaria
adesso, a causa degli avvenimenti degli ultimi due anni. E una delle tendenze
è omogeneizzarli, farli diventare una cosa sola, come se le cose
successe nel sud-est asiatico in Russia o in America Latina si assomigliassero
fra di loro: le crisi del sud-asiatico, Russia o in America Latina sono
ognuna profondamente diverse dall’altra. Il ruolo della finanza mondiale
nelle tre crisi è profondamente diverso. Non solo, se nella crisi
del sistema monetario europeo del ‘92 vi è un ruolo della finanza
mondiale che fa saltare questo meccanismo, da questo punto di vista però
la domanda che ci dobbiamo fare, anche in Italia, è un rimprovero
e un bene che abbiamo fatto saltare un meccanismo che era oppressivo per
lo sviluppo italiano; o nella crisi del Messico del ‘94 c’è tanto
ruolo della finanza internazionale che mette in difficoltà lo sviluppo
del Messico; nelle crisi del ‘97 del sud-est asiatico, del ‘98 in Russia
e in America Latina abbiamo una finanza internazionale che piuttosto è
coinvolta più che essere partecipe della crisi e che a volte la
subisce. A parte che parlare di nuovo di crisi del sud-est asiatico è
estremamente semplicistico perché poi la grande crisi avvenuta su
tre-quattro Stati, sulle cosiddette "piccole tigri" del sud-est asiatico,
Tailandia, Indonesia, Malesia, ha coinvolto molto marginalmente le tigri
un po’ più grandi che sono Hong Kong, Singapore e che hanno resistito
molto bene a questa crisi e ne sono usciti abbastanza tranquillamente.
Eppure sono stati decisamente più importanti; lo stesso Taiwan;
discorso un po’ diverso per la Corea. E di nuovo laddove c’è stata
la crisi in questi tre paesi, principalmente nel sud-est asiatico, le storie
sono profondamente diverse. Sicuramente, la causa principale della crisi
di Tailandia ed Indonesia è stata di crisi che consumavano molto
di più di quello che producevano. Certo, non mi riferisco agli operai
tailandesi che tuttora lavorano per due dollari e ottanta all’ora, mi riferisco
all’insieme del sistema Tailandia, i grandi speculatori edili, il fatto
che a Kuala Lampur il costo a metro quadro nei grattacieli fosse decisamente
superiore di quello di Manhattan indica tutto quanto un sistema si era
esposto e lasciato andare in mano alla speculazione che però in
questo caso la speculazione locale. Qui la finanza internazionale proprio
non c’entra, è la speculazione locale che ha preso in mano l’economia
aiutata dai governi locali, governi terribilmente di destra.
Il fatto che paesi come l’Indonesia
che pur dotati di importanti risorse naturali come il petrolio, siano andate
ad avere una bilancia commerciale estremamente negativo a causa dei consumi
elevatissimi interni da parte del 5-8% della popolazione, testimonia come
sia in questo caso l’economia locale e la finanza locale - che è
una cosa diversa dai grandi mercati finanziari, della globalizzazione di
cui stiamo parlando - la causa di una crisi che ha portato a un grave impoverimento
di quelle popolazioni. E qui sarebbe lungo parlare delle rivolte che ci
sono state in Indonesia contro queste cose.
Veniamo alla seconda, la Russia. Devo
dire che mentre la crisi del sud-est asiatico ha portato delle ritorsioni
all’interno della finanza, la crisi della Russia ne avrebbe portato abbastanza
poche perché è un paese che ha l’1,2% del Pil mondiale. E’
certamente molto meno importante di quanto non possa sembrare della sua
ex potenza militare politica. Ma la crisi russa pensate davvero sia dovuta
alla globalizzazione finanziaria mondiale e non piuttosto al sistema politico
del paese che c’è lì? Al processo di privatizzazione assolutamente
troppo accelerato, a un processo di passaggio del mercato non governato,
ad uno Stato assolutamente incapace di svolgere qualsiasi politica di bilancio
e di incassare una quantità decente di tasse da chi i redditi li
ha pure in Russia, di uno Stato che ha lasciato un governo in mano all’economia
a bande mafiose. Semmai in questo caso ci sono delle ripercussioni degli
investitori internazionali di finanza negative a fronte di un’incapacità
locale di governare l’economia.
Devo dire che qualcuno ha detto che
con questa finanza locale un battito di ali di farfalla in Brasile porta
agli sconvolgimenti a New York. La cosa è assolutamente vera ma
questa cosa assolutamente vera, in questi casi non ha a nulla a che fare
di un ruolo determinante per l’impoverimento del paese. Poi il problema
più grosso durante la crisi russa non è stato tanto la crisi
russa con il suo Pil che è assolutamente poco influente, quanto
piuttosto che in quel momento, veniva ricordato, si è instaurata
la crisi del ...... capital management, di questo grande fondo internazionale.
Qui c’è stata una crisi della finanza tutta all’interno della finanza;
la crisi della ...... capital management è una grossa perdita per
banche, come credo, svizzere che in un colpo solo hanno perso gli utili
di tutto un anno. E’ la necessità di intervento, questo sì
e qui allora c’è un ruolo positivo della Federal Reserve per il
salvataggio del fondo, per evitare una grande crisi di fiducia nei sistemi
bancari mondiali.
Da ultimo ancora l’America Latina,
il Brasile in particolare, la crisi brasiliana. Qui di nuovo dobbiamo andare
a vedere a molti fenomeni locali che determinano la crisi; qui di nuovo
al contrario forse ancora dei fenomeni che abbiamo visto precedentemente
c’è un ruolo positivo svolto dalla finanza internazionale nel tentativo
di stabilizzare una crisi che altrimenti sarebbe drammatica. Partita tuttora
aperta questa ma tutta da vedere dove il ruolo del governo locale di Cardoso
prima di sostenere un’assurda parità dollaro/real e poi ancora attraverso
un debito pubblico assolutamente insostenibile hanno determinato dei dati
di insolvenza dapprima di Stati interni al Brasile e poi di grave difficoltà
di solvenza dello Stato brasiliano che solo grazie all’intervento del Fondo
Monetario Internazionale ma anche alla politica di stabilizzazione che
i grandi organismi internazionali hanno dettato, per il momento sta evitando
la tragedia.
Quello che voglio dire in sostanza
è che da una parte c’è un grande processo di moltiplicazione
della forza, della potenza della finanza internazionale intesa come grandi
multinazionali e così via, che non è un dato che ora trionfano
i cattivi contro i buoni, è un dato spesso dettato da un’evoluzione
di cambiamenti della società, del modo di lavorare e di produrre,
delle tecnologie. E dall’altra assistiamo a un’assoluta inadeguatezza e
alla mancanza di cambiamenti, invece, degli altri organi di gestione della
finanza internazionale, in primis il Fondo Monetario Internazionale le
cui regole sono ancora quelle dell’immediato dopoguerra e la cui forza
di intervento è ancora solo quella dell’immediato dopoguerra.
Abbiamo assistito a fronte di cambiamenti
profondi che stanno avvenendo nel mondo ad un’altrettanta capacità
di cambiarsi e di rinnovarsi degli organi di gestione e di chi dovrebbe
cambiare questa gestione. Ne vale a questo proposito, l’idea in qualche
modo di bloccare, ridurre le quantità di transazione. Badate che
la quantità di transazione sui cambi è destinata di per sé
a ridursi drasticamente nei prossimi anni, già l’avvento dell’Euro
blocca tutti i cambi che prima avvenivano tra chi cambiava le lire in marchi
e così via. E dall’altra parte il fatto dell’affermarsi di c....
... board, la dollarization dell’economia dell’America Latina riduce enormemente
anche qui la quantità di cambi reali indispensabili.
Si tratta di trovare qui dei nuovi
equilibri. Certamente io credo che la discussione che c’è già
questa settimana ma che poi dovrà svolgersi a giugno a Colonia saranno
dei dati molto importanti con cui confrontarsi.
Per quanto ci riguarda, la domanda
che ogni giorno ci poniamo, e questa domanda (cambio cassetta) ....
serie crisi mondiali una dopo l’altra, sud-est asiatico, Russia, Brasile,
America Latina e così via, entrando in una fase di recessione mondiale
o meno. E’ una domanda a cui credo tutti trovino difficoltà a dare
una risposta e lo snodo di questa risposta, piaccia o meno, è la
crescita del Pil negli Stati Uniti. Gli Stati Uniti rappresentano da soli
circa il 45% del Pil mondiale; se in qualche modo l’economia degli Stati
Uniti tiene il Pil mondiale tiene. Se l’economia degli Stati Uniti non
tiene, il Pil crolla e andiamo in recessione.
Il dato assolutamente sorprendente
e che sorprende molti - e questo è uno degli elementi di grande
discussione in questo momento - è come faccia attualmente aver avuto
sette-otto anni consecutivi di crescita mentre normalmente i cicli economici
dopo quattro-cinque anni si fermano e trovano una pausa. E badate che la
risposta a questo fatto è una risposta tutt’altro che banale. Io
credo che il dato decisivo di questa crescita che permette di non entrare
in recessione al mondo sia dovuto essenzialmente alle caratteristiche di
questo sviluppo.
Siamo di fronte a un dato di sviluppo
straordinario avvenuto in questo decennio basato su uno straordinario momento
di innovazione delle tecnologie, in particolare per quanto riguarda tutta
la parte delle telecomunicazioni e dell’informatica. Questo processo ha
permesso che non si innesti quello che tradizionalmente è l’elemento
che fa crollare ed entrare in fase di recessione. Tradizionalmente in quasi
tutti i cicli economici, assistiamo a una fase di progressiva espansione,
quando l’espansione arriva in un determinato punto si inizia ad alzare
il prezzo delle domande prime, perché c’è molta domanda di
materie prime se c’è sviluppo economico da una parte, si inizia
ad alzare il costo del lavoro dall’altra parte perché c’è
domanda di lavoratori e quindi si va verso la piena occupazione e questo
alza il costo del lavoro. Questi due fatti fanno partire l’inflazione,
per il controllo dell’inflazione si fanno aumentare i tassi e scatta la
fase di recessione in cui attraverso l’aumento dei tassi il governo della
politica monetaria scendono inflazione, scendono occupazione, ritorna una
situazione di non tensione sui mercati che permettono poi di ripartire.
Noi siamo all’ottavo anno di sviluppo
negli Stati Uniti senza che sia partita l’inflazione, con l’inflazione
sotto controllo. E questo è il dato di grande novità che
in qualche modo bisogna comprendere: questo dato è reso possibile
dal fatto che in questo boom economico c’è un uso modesto di materie
prime. Il petrolio, il rame, l’alluminio che sono gli indicatori principali
della tensione dello sviluppo economico hanno prezzi che non sono mai stati
così bassi come sono ora. Questo fa sì che sia il primo elemento
per cui l’inflazione non parte e lo sviluppo possa continuare. Il secondo
dato è che nonostante un tasso di disoccupazione assolutamente modesto
negli Stati Uniti, non parte il costo del lavoro.
Ebbene, entrambi questi fenomeni sono
dati dalla particolarità di questo boom, fatto non sulla costruzione
di grattacieli, quindi usando l’alluminio, fatti non sulla costruzione
e l’uso importante e maggiore di energia e quindi usando più petrolio,
ma fatto sulla tecnologia, fatto sulla comunicazione, fatto sull’informatica,
fatti in sostanza su dei settori che usano poche materie prime che contemporaneamente
affrontano e fanno sorgere un modo diverso di organizzare il lavoro e la
produzione. Esiste sempre meno non solo la fabbrica fordista, non solo
la fabbrica toyotista ma esiste sempre meno un luogo preciso in cui si
produce. Non c’è più unità nè di luogo nè
di tempi delle produzioni, coordinate ormai da nuovi modi di produrre che
avvengono in questa fase e che sono il dato per cui la crescita dell’occupazione
negli Stati Uniti fanno la seconda gamba della non crescita dell’inflazione,
della non crescita del costo del lavoro.
Vorrei terminare dicendo che nel prossimo
decennio, 2000-2010, noi assisteremo ad altre così profonde e veloci
innovazioni. I due fattori che hanno sostenuto lo sviluppo di questo decennio,
telecomunicazioni ed informatica, vanno ormai fondendosi; lo stanno già
facendo ma il grande boom della digitalizzazione in cui sia suoni che immagini
vengono digitalizzati, sarà il grande boom del prossimo decennio
e porterà a degli sviluppi imprevisti e impensabili nelle loro intensità
nel prossimo decennio.
Io penso che questo boom possa portare
a un rilancio dell’espansione ma penso anche che ci sia un buco di due-tre
anni tra questa fase e la prossima fase. Sono due-tre anni decisivi questi
per evitare di piombare in recessione mondiale che sarebbe gravissimo per
tutti, per i ricchi e per i poveri. In questi anni della consapevolezza
di questo difficile passaggio si stanno un po’ rendendo conto tutti. Nell’introduzione
iniziale Agostinelli faceva menzione di, portando esponenti della finanza
mondiale di governi mondiali che sono in questa fase ma ormai è
una tendenza abbastanza generalizzata. Ognuno si è reso conto dell’importanza
di un forte intervento nell’economia per evitare la recessione; pericolo
di recessione che incombe per tutti questi fattori di deterioramento che
abbiamo visto ai margini di questa fase di sviluppo che si è troppo
prolungata e che si combatte essenzialmente attraverso neanche un intervento
sullo sviluppo ma soprattutto sulla distribuzione delle risorse.
Io non credo in sostanza che superiamo
il pericolo di recessione nei prossimi due-tre anni, se noi ci limitassimo
a pensare che le risorse che anche si producono in più siano utilizzati
per gli investimenti. Occorre che vengano utilizzati principalmente per
consumi nel senso che l’ulteriore rilancio degli investimenti in una fase
come questa rischia di portare ad un ingorgo di capacità produttiva,
di entità spaventose e quindi di una crisi molto difficile da questo
punto di vista.
Di questa cosa mi sembra si stiano
rendendo conto i governi europei. Governi europei che sono stati responsabili
dell’attuale fase di stagnazione dell’economia europea, soprattutto la
Bundesbang, soprattutto i tedeschi che hanno imposto nella fase ‘86-’95
per finanziare l’unificazione tedesca, dei tassi reali fuori da qualsiasi
logica che hanno stroncato le gambe all’occupazione in Europa e di cui
solo adesso piano piano si sta rendendo conto. Con la necessità
però di interventi che non siano soltanto più di politica
monetaria, dove tra l’altro le possibilità sono ormai modeste di
riduzione dei tassi a causa dei livelli che hanno raggiunto, ma soprattutto
attive politiche di redistribuzione.
Mi pare che queste siano le politiche
da attuarsi oggi e rapidamente in Europa sapendo che lo spauracchio dei
prezzi di inflazione ormai è abbastanza alle spalle.
Intervento
di M. Vivarelli, docente universitario di Economia Politica
Nell’intervento precedente alcune argomentazioni
sono state sostanziate anche in termini di dati dell’economia reale, l’attenzione
è stata riportata a un maggiore equilibrio tra la navicella e il
pallone. E’ vero che il pallone ha delle capacità di amplificazione
incredibili, di quelle che possono essere perturbazioni dell’economia reale
però è anche vero che l’economia reale ha ancora un suo ruolo
importante.
Io volevo assumere un’ottica meno globale
e più provinciale, nel senso europeo e anche italiano, per vedere
qual è il risultato di questa navigazione che io ritengo un pochino
più equilibrata tra la navicella e il pallone in termini di collocazione
dell’Europa all’interno dello scenario globale puntando l’attenzione -
sarò molto più specifico degli interventi precedenti - su
un punto particolare che però penso sia di estremo interesse per
il sindacato che è la questione occupazione che è anche considerata,
anche nell’intervento di La Fontaine che veniva prima richiamato come la
malattia europea. Già nell’intervento precedente si è giustamente
richiamata la differenza profonda fra quanto è successo negli Stati
Uniti e quanto è successo in Europa.
Se noi prendiamo la capacità
di creazione e di occupazione fatto cento nel 1975, vediamo immediatamente
con la capacità di creazione, di occupazione negli Stati Uniti con
buona pace di Jeremy Rifkin che riferendosi al caso americano parlava di
fine del lavoro, la capacità di creazione e di occupazione negli
Stati Uniti è stata enormemente superiore a quella del Giappone
che pure invece ha avuto una crescita economica molto più accelerata
perché era un paese che negli anni ‘70-’80 era con fortissimi tassi
di crescita, e una situazione europea - questo dato è relativo all’Europa
dei quindici - di complessiva stagnazione in termini di numeri di occupati.
Questo è il grande problema
su cui gli economisti stanno dando risposte diverse, c’è una risposta
prevalente, dominante che la sinistra subisce e che il sindacato pure subisce:
gli Stati Uniti creano lavoro perché hanno un mercato del lavoro
flessibile. Questa è l’interpretazione dominante. Hanno il mercato
di lavoro flessibile sia in termini di moderazione salariale, sia in termini
di mobilità e di capacità di licenziare per cui le imprese
assumono perché sanno che se le cose poi vanno male possono licenziare.
Questo è il discorso assolutamente prevalente; diciamo che il 95%
dai miei colleghi economisti, 80% dai commentatori. Io non sono convinto
che questo spieghi tutto, anzi penso che spieghi abbastanza poco, vedremo
un dato successivamente che io credo demestifichi questo tipo di interpretazione.
La seconda timida obiezione della sinistra
- primo fra tutti La Fontaine - parzialmente recepita da questo manifesto
che alcuni premi nobel tra cui Modigliani hanno proposto questa estate:
il manifesto per l’occupazione in Europa. Modigliani tirandola più
sul versante flessibilità del mercato del lavoro, Fitussy ed altri
più sul secondo ingrediente che è quello della crescita.
Veniva prima citato anche da Riccardo Petrella il discorso del rapporto
fra crescita e occupazione citato nelle interviste di La Fontaine.
Recuperare una prospettiva keinesiana
e dire: badate che questa differenza non è spiegata tanto dalla
flessibilità del mercato del lavoro quanto dal fatto che l’Europa
è stata strangolata dagli stessi vincoli che si era data in termini
di trattato di Maastricht e quindi bisogna ridare fiato alla crescita delle
economie europee per permettere all’occupazione di risalire.
Personalmente sono convinto che anche
questa seconda strada che pure è un po’ la bandiera della sinistra
europea, spieghi parte del fenomeno, come anche parte del fenomeno può
essere spiegato dal discorso della flessibilità del lavoro, ma non
racconti tutta la storia e rischi di creare una pericolosa illusione nella
sinistra e nei cittadini europei. Vediamo di sostanziare questo discorso.
Se fosse vera la tesi della flessibilità
del mercato del lavoro, noi dovremmo assistere ad una incapacità
di creare posti di lavoro, tuttavia, ad una crescita del tempo di lavoro
necessario come conseguenza della crescita. In altre parole, se il problema
fosse solamente in termini di flessibilità del mercato del lavoro,
le imprese italiane cosa fanno? non assumono perché hanno paura
perché poi non possono licenziare, ma allora come fanno a produrre
i beni che comunque stanno crescendo? fanno con lo straordinario. Questo
tipicamente è un’interpretazione: quando c’è crescita in
Europa questa crescita non si trascina dietro l’occupazione perché
le imprese sono prudenti, quindi non aumentano il numero di occupati ma
ricorrono soprattutto allo straordinario. Questo in alcuni settori è
verissimo però complessivamente cosa è successo al monte/ore
di lavoro quindi inteso come tempo di lavoro per occupato per numero di
occupati? Qui le differenze permangono. Negli Stati Uniti abbiamo delle
relazioni tutte positive fra crescita del prodotto, crescita dell’occupazione
e crescita del tempo di lavoro. Questo dimostra che gli Stati Uniti hanno
una struttura dell’economia reale che è capace di trascinare e di
far trascinare il tempo di lavoro necessario dalla crescita. La crescita
effettivamente consente una crescita del tempo di lavoro che poi si traduce
anche in una crescita occupazionale.
Cosa accade in Europa? Purtroppo i
dati sul tempo di lavoro sono difficili da raccogliere; il dato più
attendibile è quello della Francia che però io credo sia
rappresentativo, a quello della Germania occidentale fino al ‘91 segue
questo trend. La Francia ha un tasso di crescita del prodotto nel lungo
periodo, anche se in tempi recenti è molto più basso di quello
statunitense, però sui vent’anni esaminati è abbastanza simile
a quello statunitense ma l’occupazione rimane pressoché costante
e il tempo di lavoro addirittura si riduce del 20%. Se è successo
questo, non significa semplicemente che l’occupazione non ha seguito la
crescita perché le imprese preferiscono aumentare il tempo pro-capite
invece che il numero di lavoratori. No, perché il tempo pro-capite
addirittura è diminuito. Anzi, se non avessimo avuto - qui il discorso
si lega alla questione orario di lavoro su cui Mario ha scritto molto -
una diminuzione del tempo di lavoro pro-capite in Europa dovuto a non solamente
all’orario che è diminuito ma alle festività che sono aumentate,
al passaggio dei manifatturieri ai servizi dove gli orari settimanali sono
inferiori e così via, se noi non avessimo avuto una riduzione del
tempo di lavoro pro-capite avremmo avuto addirittura un 20% di disoccupazione
in più.
E’ un’incapacità strutturale
di lungo periodo da parte dell’Europa - in questo caso della Francia però
ripeto la cosa è estendibile sicuramente ai quattro grandi paesi,
Regno Unito, Germania e Italia - a non riuscire a collegare crescita economica
e occupazione. Quindi il problema è molto più serio perché
anche quando io flessibilizzo questo mercato, anche quando aumenta il tasso
di crescita, se ho questa forbice i risultati possono esserci ma sono molto
molto deboli.
La tesi quindi è che il processo
di globalizzazione e di visione del lavoro internazionale che passa attraverso
la finanza ma passa anche attraverso i modelli di specializzazione dei
paesi, abbia costretto l’Europa in un angolo dove la capacità di
creare occupazione è estremamente limitata. Certo, se noi avessimo
avuto negli ultimi anni un Maastricht che avesse assunto anche il saggio
di disoccupazione tra i suoi obiettivi e politiche monetarie e fiscali
meno restrittive, probabilmente avremmo avuto un saggio di crescita occupazionale
un pochino più alto però il problema non si sarebbe risolto.
Questo lo vediamo abbastanza chiaramente sia ripercorrendo le differenze
nell’evoluzione dell’occupazione spezzando industrie e servizi.
Guardiamo l’industria: l’industria
mostra una differenza clamorosa, drammatica fra l’Europa, il Giappone e
gli Stati Uniti. Al di là dei movimenti ciclici, probabilmente il
manifatturiero subisce in maniera piuttosto evidente. Il dato di fatto
è che Giappone e Stati Uniti che sono gli altri due corni delle
economie sviluppate, sono riusciti a mantenere la propria occupazione manifatturiera;
non è aumentata in termini relativi, è diminuita come ovunque
però non è diminuita in termini assoluti.
L’Europa l’ha vista diminuire del 20%
con punte drammatiche - si ricordava prima la Gran Bretagna che è
scesa all’undicesimo posto in termini di reddito pro-capite - tra le varie
cause che hanno concorso questo è che la Gran Bretagna ha praticamente
smantellato la propria capacità manifatturiera. L’occupazione manifatturiera
in Gran Bretagna nel giro di dieci anni si è dimezzata. Il tasso
di decremento più forte in Europa. Complessivamente a livello di
Europa dei quindici, l’occupazione industriale è scesa del 20%.
Primo dato di fatto. Al contrario di altre economie sviluppate in Giappone
e Stati Uniti, che sono riusciti a tenere il proprio livello occupazionale,
anzi di incrementarlo leggermente nel medio e lungo periodo, l’Europa invece
non è riuscita a fare questo ma non perché il prodotto industriale
sia andato crollando, è aumentato in questo periodo però
con un’intensità di lavoro via via decrescente. L’intensità
di lavoro del manifatturiero europeo è sicuramente inferiore a quello
di Giappone e Stati Uniti.
Come è andata sui servizi? Sui
servizi c’è stata compensazione: i servizi hanno visto aumentare
l’occupazione però malauguratamente l’Europa dei quindici - tra
l’altro questo dato è abbastanza ottimistico perché se guardiamo
i quattro paesi che contano cosa ancora più evidente - l’Europa
è comunque distante in termini di incrementi occupazionali rispetto
agli Stati Uniti e rispetto al Giappone specialmente rispetto agli Stati
Uniti. Gli Stati Uniti hanno avuto un’occupazione industriale costante
e hanno aumentato del 60% l’occupazione dei servizi, l’Europa ha visto
la propria occupazione industriale declinare del 20%, l’occupazione dei
servizi è aumentata circa del 20% e ovviamente questo poi comporta
quei risultati aggregati che abbiamo visto all’inizio. Stagnazione in Europa,
crescita occupazionale evidente negli Stati Uniti.
L’idea è che dietro a tutto
ciò ci sia qualcosa di strutturale e quindi non dipende esclusivamente
dagli andamenti della domanda aggregata del prodotto, lo si vede semplicemente
confrontando, sempre per lo stesso periodo di tempo - limitiamoci per semplicità
ai quattro paesi più importanti europei - quelli che sono stati
sul lungo periodo, sempre sui vent’anni. I tassi di crescita del prodotto
interno lordo, i saggi di crescita del numero degli occupati e semplicemente
il rapporto fra le due cose, ossia a parità di crescita quanta occupazione
creiamo.
Innanzitutto è vero quello che
veniva prima richiamato: gli Stati Uniti hanno avuto un saggio di crescita
sul lungo periodo che è sicuramente più elevato di quello
europeo e se vedessimo - come veniva prima citato - gli ultimi 7-8 anni,
questa differenza sarebbe ancora più marcata. E’ vero che negli
Stati Uniti la crescita è stata più elevata che nei quattro
paesi europei: la media dei quattro paesi europei è il 58% di crescita
del gdp reale in vent’anni, negli Stati Uniti è stato del 79%.
Guardiamo l’occupazione. I vari livelli
occupazionali sono formidabili. Guardate gli Stati Uniti che hanno aumentato
l’occupazione quasi del 50%, in Italia il numero di occupati, grazie anche
alla riduzione dell’orario di lavoro pro-capite, è aumentata del
4%. Se noi andiamo a vedere l’intensità occupazionale della crescita,
questo coefficiente mi dice semplicemente che se in 40 anni negli Stati
Uniti il prodotto raddoppia, l’occupazione negli Stati Uniti, stante così
le cose, se le cose non cambiano in termini di struttura aumenta del 60%;
se il prodotto raddoppia nell’Europa dei quattro paesi maggiori, l’occupazione
aumenta del 7%. Questi andrebbero moltiplicati per cento per avere le percentuali.
In Giappone aumenterebbe del 28%.
Questo è un dato strutturale
estremamente preoccupante. Non vorrei aggiungere paure a quelle già
richiamate dal primo intervento che personalmente mi ha lasciato abbastanza
terrorizzato sugli scenari generali, però è un dato di fatto
che in termini di struttura, se La Fontaine mi dice: passiamo da politiche
di tipo keynesiano e quindi basta con le politiche restrittive e torniamo
alla crescita, mi va benissimo però non aspettiamoci l’ira di Dio
in termini di decremento del saggio di disoccupazione o in termini di creazione
dell’occupazione. Nella specializzazione internazionale all’Europa è
relegato un ruolo estremamente povero di contenuto lavorativo, di contenuto
occupazionale.
Un esempio di questo purtroppo relativamente
solo al settore manifatturiero, l’abbiamo facendo un calcolo molto aritmetico,
molto banale.
Insieme a Mario Pianta che Mario conosce
molto bene e che ha partecipato ad altri incontri della Cgil, abbiamo calcolato
a livello delle sei economie più sviluppate all’interno del manifatturiero
quei pochi settori che avevano creato occupazione, cioè con un saldo
occupazionale positivo, i settori in moderato declino occupazionale e i
settori invece con pesante perdite occupazionali in cui ovviamente troviamo
i cantieri navali, la siderurgica e così via.
Andiamo a vedere il ruolo delle diverse
economie industrializzate in questi comparti. Vediamo che il ruolo dei
settori a crescita occupazionale in termini di valore aggiunto è
aumentato per tutti perché sono i settori che tirano però
guardiamo le differenze. Gli Stati Uniti partivano dal 40% del loro valore
aggiunto industriale concentrato sui settori favorevoli al lavoro, l’Europa
partiva col 34%, l’Italia col 28%. Quindi l’Europa e all’interno dell’Europa
fanalino di coda l’Italia, fortemente sottospecializzata nei settori, quei
pochi, che hanno creato occupazione negli ultimi venti anni.
Nel tempo i divari non si sono affatto
appianati. Pur crescendo in tutte e tre le aree, il peso dei settori ad
elevata intensità di lavoro rimane comunque superiore al 50% in
Giappone, del 46% negli Stati Uniti, del 33% in Italia. E qui il ruolo
delle tecnologie che veniva prima richiamato è assolutamente fondamentale
perché questi settori si caratterizzano per un utilizzo intensivo
di manodopera e quindi tecnologie tendenzialmente meno risparmiatrici di
lavoro. Se guardiamo all’estremo opposto, cioè ai settori che invece
prevalgono le innovazioni di processo, le innovazioni tendenzialmente risparmiatrici
di lavoro, vediamo purtroppo che abbiamo una despecializzazione statunitense,
una despecializzazione giapponese, una specializzazione europea e una iper-specializzazione
italiana che ancora nel ‘94 ha il 20,5% del proprio valore aggiunto concentrata
sui settori che negli ultimi venti anni hanno pesantemente perso in termini
di occupati.
L’idea è che accanto al discorso
flessibilità del mercato del lavoro, accanto al discorso crescita,
non si debba prescindere dagli aspetti di struttura; gli aspetti di struttura
ovviamente rendono necessarie delle politiche di tipo industriale, politiche
dell’innovazione. Allora secondo me è molto interessante il discorso
di avere un punto di vista autonomo della sinistra e del sindacato sulla
scienza e la tecnologia. La scienza e la tecnologia hanno un impatto che
non è neutrale sul lavoro, può essere più o meno favorevole
all’occupazione; una struttura industriale con correlate le proprie modalità
tecnologiche può essere più o meno favorevole all’occupazione,
probabilmente bisogna incidere sulla specializzazione internazionale dell’Europa
e dell’Italia in particolare se vogliamo avere dei risultati occupazionali.
Possiamo anche rinunciare a questo obiettivo e dire: va bene, ci va bene
questo tipo di collocazione competitiva, utilizziamo altri mezzi e riduciamo
per esempio l’orario di lavoro a 20 ore alla settimana e creiamo un’occupazione.
Questa può essere una strada, se però si intende puntare
decisamente a risolvere questa malattia europea io credo che insieme gli
ingredienti del manifesto, ossia la flessibilità del mercato del
lavoro e per dare un colpo al cerchio e uno alla botte crescita economica,
possano risolvere un quarto del problema perché se dietro c’è
una struttura che comunque anche se il tessile mi si riprende e mi si è
ripreso col decreto Tremonti e con la svalutazione che c’è stata
negli anni ‘90 o con altri fasi congiunturali, mi crea occupazione se ripresa
e crescita significa investire nuovamente in innovazioni che distruggono
posti di lavoro. Se invece faccio una politica industriale che è
contraria a quanto è accaduto in Italia dove i settori dell’elettronica,
dell’aeronautica, delle telecomunicazioni vengono pian piano smantellate,
faccio un’operazione di politica industriale. Ovviamente non è di
breve periodo e quindi molte volte va al di là delle prospettive
di una legislatura e di un governo che dura in carica un anno e nella migliore
delle ipotesi cinque anni. Se si abbraccia un’ottica più di lungo
periodo si tenta di spostare la specializzazione produttiva di un paese
dell’Europa da un settore all’altro. Io non ho i dati sui servizi ma immagino
che per gli andamenti che abbiamo visto prima, un effetto di composizione
simile prevalga anche sui servizi nel senso un conto è insistere
sui servizi ad alto valore aggiunto collegati alla telematica e un conto
insistere sulla piccola distribuzione e sui lattai.
Ci sono anche nei servizi settori destinati
progressivamente a perdere manodopera e settori invece capaci di sostenere
nuovi prodotti e quindi un tipo di cambiamento tecnologico potenzialmente
favorevole al lavoro.
Allora ecco, politica del lavoro e
politica della domanda io credo propongano alla sinistra del sindacato
un falso dilemma perché non credo che nè con l’una nè
con l’altra la situazione europea possa essere tangibilmente e strutturalmente
migliorata in termini occupazionali se non è accompagnata da una
politica industriale e della tecnologia. E in questo io credo che il sindacato
abbia un forte ruolo perché il sindacato ha sempre, per tradizioni
storiche, accettato e modulato quelli che sono le conseguenze dei cambiamenti
tecnologici ma non ha mai tentato di influire direttamente sulle forme
dell’investimento, sul contenuto tecnologico dell’investimento e quindi
a livello aggregato sulla politica industriale.
Questo io credo in termini di negoziazione
complessiva e di attenzione all’obiettivo occupazionale va fatto perché
altrimenti manovre di breve periodo sul solo mercato del lavoro rischiano
di cogliere l’occasione, di cadere nel tranello di accettare il fatto che
queste manovre possono essere favorevoli all’occupazione quando invece
all’occupazione fanno il sollecito però hanno enormi conseguenze
sul piano dei diritti, della negoziazione, della partecipazione e dello
stato sociale.
Dall’altro lato però arroccarsi
- e questo mi sembra il conservatorismo della sinistra europea - su posizioni
neo-keynesiane che potevano andare bene negli anni Sessanta quando sicuramente
si era in un momento in cui crescita e occupazione andavano a braccetto
in termini di ricadute occupazionali e di forme tecnologiche. Ma questo
connubio si è sfarinato ed è ancora possibile però
solamente in alcuni segmenti dell’economia reale e in alcuni nuovi settori
che producono nuovi prodotti e allora se non ci si sposta su questi anche
il discorso della sinistra europea rischia di essere di facciata e rischia
di essere una falsa alternativa al primo.
Intervento
di Anno Hellenbroich, direttore dell’Agenzia Stampa Eir:
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