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I pericoli della mondializzazionePrefazione al libro E. Goldsmith - J. Mander (curatori), Glocalismo. L'alternativa strategica alla globalizzazione, Casalecchio, Arianna Editrice, 1998 |
«L'anno scorso eravamo sull'orlo del baratro; quest'anno abbiamo fatto un gran passo in avanti.»
Questo sproposito, detto da un ministro
algerino qualche anno fa, rivela in pieno lo spirito dell'epoca.
La fede nel progresso ci coinvolge al punto da farci diventare inconcepibile
il non andare avanti. Così ci ritroviamo a bordo di un bolide, che
non ha retromarcia, né freni, né conducente. Non occorre
essere profeti per prevedere il futuro di questa megamacchina. Essa può
solo fracassarsi contro un muro o sprofondare in un precipizio. Le mucche
pazze, le modificazioni genetiche e altri cloni non sono altro che i primi
segni della grande implosione. La mondializzazione partecipa pienamente
alla natura di questo processo.
La presente opera -un vero compendio, poiché riunisce
un gran numero di specialisti in tutti i campi considerati- esamina i differenti
meccanismi del processo ed il suo impatto con tutti gli aspetti della vita;
denuncia, inoltre, le false panacee e propone risoluzioni reali.
In questa breve introduzione vorrei proporre un quadro sintetico e
il più possibile fedele allo spirito dell'opera, senza pretendere
di farne un riassunto dettagliato o di elencare le posizioni contrapposte
dei vari autori.
Non c'è dubbio che il fenomeno nascosto dietro tali parole non è così nuovo come si vuol far credere. Alcune voci profetiche annunciavano già da diversi decenni l'avvento di un "villaggio planetario" (globale village). Alcuni specialisti hanno parlato di occidentalizzazione, di uniformazione o di modernizzazione del mondo e gli storici ne hanno scoperto tutti i sintomi dentro evoluzioni di lunga durata.
La mondializzazione, sotto l'apparenza di una constatazione
neutra del fenomeno, è anche, invece, uno slogan che incita e orienta
ad agire in vista di una trasformazione auspicabile per tutti. La parola
d'ordine è stata lanciata dalla Sony, all'inizio degli anni
80, per promuovere i suoi prodotti.
La chiassosa pubblicità, che ha fatto il giro del mondo, mostrava
degli adolescenti che pattinavano con il casco in testa e un mini radioregistratore
agganciato alla cintura. Il messaggio pubblicitario non si deve adattare
alle diverse culture, visto che veicola in se stesso una cultura globale3,
lanciava una sfida. II nuovo concetto è stato ripreso istintivamente
dalle multinazionali e dal governo americano.
II termine, che non è affatto "innocente", lascia anzi intendere
che ci si trova di fronte ad un processo anonimo e universale benefico
per l'umanità e non invece che si è trascinati in una impresa,
auspicata da certe persone, per i loro interessi, impresa che presenta
rischi enormi e pericoli considerevoli per tutti.
Come il capitale al quale è intimamente legata, la
mondializzazione è in realtà un rapporto sociale di dominio
e di sfruttamento nella scala planetaria. Dietro l'anonimato del processo,
ci sono dei beneficiari e delle vittime, i padroni e gli schiavi.
I principali rappresentanti della megamacchina senza volto si chiamano
G7, Club de Paris, complesso FMI/Banca Mondiale/OMC,
Camera di Commercio Internazionale, forum di Davos, ma vi
sono anche delle istituzioni meno note, dalle sigle esoteriche, ma di enorme
influenza: il Comitato di Bali per la supervisione bancaria e l'IOSCO
(International Organisation of Securities Commissions), che è
l'organizzazione internazionale delle Commissioni nazionali emettitrici
di titoli obbligatori, l'ISMA (International Securities Market
Association), che ha un noto equivalente per i titoli obbligatori,
l'ISO (Industrial Standard Organisation), che ha l'incarico
di definire gli standard industriali.
Infine, non si possono trascurare le grandi imprese, i grandi uffici
di consulenza, i grandi studi legali e le fondazioni private. Società
come Price & Watherhouse, Peat Marwick, Ernst &
Yung o Arthur Andersen sono protagoniste essenziali della mondializzazione,
anche se a prima vista il loro ruolo, come la certificazione della contabilità
delle imprese, può apparire puramente tecnico.
È del tutto evidente che, lasciando credere che il
fenomeno, buono o cattivo, sia incontrastabile, ci si rende complici del
fatto che accada.
Funziona così sempre, da Clinton a Fidel Castro, da Alain Minc
a Viviane Forrester.
«La mondializzazione è un fatto e non una scelta politica» -dichiarava Clinton a Ginevra, nel maggio del 1998- «Siamo di fronte a un dilemma: impegnarci a dirigere queste potenti forze di cambiamento nell'interesse dei nostri popoli o trincerarci dietro dei baluardi di protezionismo».4
Nello stesso forum dell'OMC, il suo antagonista Fidel Castro dichiarava che si trattava di un fenomeno non aggirabile.
«Gridare abbasso la mondializzazione -ha detto- equivale a gridare abbasso la legge di gravità. Conviene dunque prepararsi e interrogarsi sul tipo di mondializzazione che si impone. Una mondializzazione neo-liberale, molto probabilmente»5.
Il tecnocrate francese Alain Minc, autore de La mondializzazione felice, si è autoproclamato "arcivescovo del pensiero unico", mentre Viviane Forrester, autrice de L'orrore economico, invitata al forum di Davos, dichiara:
«La mondializzazione è senza dubbio
una cosa positiva"
e si prende cura di precisare: «Ma non c'è alcuna ragione
per relegarla solo al mondo degli affari e della finanza»6.
Una volta compreso quello che si nasconde dietro la sua manifestazione, non vi è alcun motivo di ritenere che il fenomeno sia irresistibile e inarginabile.
La mondializzazione non è positiva per tutto il mondo ed è pienamente possibile concepire un altro destino.
Bisogna dunque -come fanno i numerosi contributi di questo libro e, in particolare, quelli della terza parte- tentare di cogliere le caratteristiche dell'attuale forma di mondializzazione, di analizzarne le conseguenze, la mercificazione, e di mettere in chiaro la posta in gioco.
La prima mondializzazione porta la data della conquista
dell'America, quando l'Occidente prese coscienza della rotondità
della terra per scoprirla e imporre le proprie conquiste. Quando, secondo
la formula di Paul Valery, «comincia il tempo del mondo
finito». Questa prima mondializzazione è stata forse più
determinante delle successive. Con la conquista europea delle Americhe,
sono stati accelerati gli scambi di piante, di animali, ma anche di malattie.
L'introduzione nel continente di animali d'allevamento, mucche, pecore
o del cavallo ha permesso:
Una terza sarebbe cominciata con la decolonizzazione e l'era degli "sviluppi".
II fenomeno che è stato definito una «nuova mondializzazione» (la quarta secondo la nostra periodizzazione) comprende, infatti, quattro fenomeni legati tra di loro:
1. Lo sviluppo del potere delle società multinazionali
Le multinazionali, come il mercato, esistono dalla fine
del medioevo. Jacques Coeur, i Fugger, la banca dei Medici, le grandi compagnie
delle Indie, per citare solo alcuni fra gli esempi più celebri,
sono imprese di commercio impiantate in diversi continenti e il cui traffico
commerciale ha come orizzonte il mondo. E, fatto nuovo, a partire dagli
anni '70, non solo si mondializzano sistematicamente il capitale commerciale
e bancario, dando origine al mercato finanziario mondiale, ma si mondializza
anche il capitale industriale.
Renault fa fabbricare i suoi motori in Spagna. I computer IBM sono
fabbricati in Indonesia, montati a Saint Omer, venduti negli Stati Uniti,
ecc.
La divisione del lavoro si è internazionalizzata. II processo
di fabbricazione si è segmentato. Le imprese si sono totalmente
transnazionalizzate.
2. L'affievolimento dei controlli statali all'ovest
L'affievolimento dei controlli nazionali-statali è
alla volta causa ed effetto della transnazionalizzazione. La complicità
fra stato e mercato, che si è solidificata nella sua forma più
forte con il fenomeno delle economie nazionali, come insiemi interdipendenti
di branchie industriali e commerciali, ha conosciuto i suoi anni più
belli nel periodo 1945-1975 ('Trente glorieuses') e nello stato-provvidenza.
La dinamica del mercato che libera le economie locali e regionali non
si ferma eternamente alle frontiere del territorio nazionale. La mondializzazione
è l'estensione geografica ineluttabile di una economia sistematicamente
strappata (disinserita), fin dal XVIII secolo, dal contesto sociale.
Questa evoluzione, solo in parte irresistibile, e stata accelerata
e voluta dai "padroni del mondo" (2000 global leaders che si ritrovano
a Davos), che raccomandano instancabilmente le tre "D": "déréglementation"
(liberalizzazione), "désintermédiation" (senza mediazione),
"décloisonnement" (soppressione delle barriere). Si giunge,
così, allo smantellamento della società salariale.
3. II crollo delle economie socialiste
II crollo delle economie socialiste ha accelerato e rinforzato
ulteriormente il processo. "La guerra fredda - scrive con efficacia Dollfus
- è terminata nel 1989 con il "KO" tecnico dell'URSS"7.
La pianificazione, in fin dei conti, ha avuto il compito storico di
uniformare lo spazio all'est e di distruggere qualsiasi specificità
culturale che potesse ostacolare il libero gioco delle "forze di mercato".
C'erano degli scambi, ma non c'era la possibilità di produrre
un calcolo che mettesse in relazione le risorse naturali di un immenso
territorio e milioni di uomini, in tutti i rami, per tutti i prodotti.
Non era possibile acquistare, fabbricare, vendere liberamente né
seminare la rovina o la prosperità in funzione di un margine di
profitto a volte irrisorio. II socialismo reale significava penuria, mediocrità
e tristezza.
Per contrasto, l'economia di mercato sembrava sinonimo di abbondanza
e di efficienza. Da qui sono nati il fascino per il modello e la volontà
di inserirsi a qualsiasi prezzo nel mercato mondiale.
4. II predominio della finanza sull'economia: i mercati finanziari
In campo finanziario, perfino gli stati, per finanziare
il deficit di bilancio, si sono fatti complici della mondializzazione finanziaria,
quando non sono diventati gli istigatori coscienti o incoscienti del fenomeno,
lanciandosi nella "titolarizzazione" del debito pubblico, cioè offrendolo
sui mercati mondiali e, quindi, sottoponendolo alla legge dei fondi di
pensione anglo-americani che, con la fine dello stato assistenziale, erano
in piena espansione. Tra l'ammontare delle speculazioni finanziarie e le
attività di produzione non c'è paragone.
Grazie alle nuove tecnologie i mercati finanziari funzionano come fossero
una piazza unica, in tempo reale.
«La rotondità della terra interviene nella finanza con un "sole" che non tramonta mai sulla sfera finanziaria nel funzionamento continuo delle borse valori e degli uffici di cambio a secondo della loro posizione sul pianeta»8.
La liberalizzazione, lo sviluppo dei mercati a termine e
l'esplosione dei prodotti derivati fanno sì che gli scambi giornalieri
oltrepassino i 1.500 miliardi di dollari ossia il doppio delle riserve
monetarie o l'equivalente del Prodotto Nazionale Lordo (PNL) francese.
I movimenti finanziari, nel 1993, hanno raggiunto circa i 150.000 miliardi
di dollari, ossia da 58 a 100 volte quelli dei movimenti commerciali annuali.
Le economie, in particolare quelle del terzo mondo, si trovano così
alla mercé delle fluttuazioni dei mercati finanziari.
L'insieme intercollegato della mondializzazione del commercio, della
mondializzazione della finanza e della mondializzazione dell'industria
provoca la formazione di piazze offshore (deterritorializzate).
Un sistema economico universale, totalmente sradicato, senza legami privilegiati
con un luogo particolare, ma che mette antenne ovunque, è già
più o meno in atto.
L'universalizzazione del mercato non costituisce una novità
se non per l'ampliamento del suo spazio. Si avanza così verso la
commercializzazione integrale.
L'economicizzazione del mondo si manifesta nel cambiamento delle mentalità
e negli effetti pratici. Nell'immaginario, è il trionfo del pensiero
unico; nella vita quotidiana, è l'onnicommercializzazione.
Già da qualche tempo, si parlava di "mondo unico" (one world, un solo mondo).
«Non è il pensiero che è unico, ma è la realtà che è unica»,
dichiarava in un dibattito il tecnocrate liberale Alain Minc, che, nella sua recente opera, La mondialisation heureuse (La mondializzazione felice), si è autoproclamato «arcivescovo del pensiero unico». II pensiero unico è, infatti, il pensiero di un mondo unificato, di una umanità senz'altra prospettiva che l'apoteosi del mercato.
La fine delle illusioni del socialismo reale ha segnato
la fine delle concezioni di un mondo in sé diverso. L'economicismo
e l'utilitarismo regnavano praticamente incontrastati a Est come a Ovest,
da Nord a Sud, ma non lo si vedeva e non lo si voleva vedere. Le varianti
nelle forme si radicavano in sopravvivenze politiche e culturali incontestabili
e in meticciati intellettuali equivoci.
II trionfo della società di mercato ha fatto svanire le velleità
di pluralismo. Si impongono sempre più il vangelo della competitività,
l'integralismo ultraliberale e il dogma dell'armonia naturale degli interessi.
E ciò a dispetto dell'orrore planetario generato dalla guerra economica
mondiale e dal saccheggio spudorato della natura. II fondamentalismo economico,
già integralmente presente in Adam Smith, si impone quindi
senza rivali, perché corrisponde allo spirito del tempo, che abita
l'uomo unidimensionale.
Questa vera controrivoluzione culturale ha sorpreso solo i suoi avversari, in particolare una sinistra social-democratica e marxista europea, sopita dall'idea consolante che il capitalismo selvaggio e cosmopolita era stato messo nel ripostiglio degli accessori. Gli spiriti progressisti si sentono ormai tacciati di arcaismo, con l'astuzia e l'ironia della storia, dai giovani lupi di un liberalismo puro e duro, che ci riportano allegramente indietro di cent'anni, ai bei vecchi tempi dello sfruttamento sanguinario del XIX secolo, e tutto ciò, per di più, nel nome della marcia ineluttabile dell'umanità verso una maggiore libertà e una maggiore unità.
«Resistere alla globalizzazione, proporre il nazionalismo economico, significa condannare una società ad arretrare verso una sorta di preistoria»
dichiara Mario Vargas Llosa, il cantore prestigioso di questa progressione ambigua11.
Lo spettro che ossessiona ormai il mondo non e più
il comunismo del 1848, bensì il liberalismo del 177612.
Questa restaurazione, che ha sorpreso gli ambienti europei avanzati,
è stata preparata da lungo tempo nei dipartimenti di economia delle
università americane. A Chicago, soprattutto attorno ai vecchi Milton
Friedman e Gary Becker, i vinti dalle teorie di Keynes hanno
sapientemente tramato una clamorosa rivincita, moltiplicando le invocazioni
ai "manifesti" di Ludwig von Mises, di Friederich Hayek e
di Karl Popper.
Progressivamente, hanno popolato con le loro creature i consigli economici dei presidenti degli Stati Uniti, gli staffs della Banca mondiale e del Fondo monetario internazionale. Essi hanno sfornato esperti nel terzo mondo e nell'ex secondo mondo, dal Cile di Pinochet alla Russia di Boris Eltsin.
Progressivamente, sono riusciti a colonizzare quasi tutte le facoltà di Economia del pianeta (e, naturalmente, anche le Business School...), a intrecciare rapporti di complicità persino all'interno delle équipe governative o di opposizione social-democratiche, se non addirittura negli ultimi fossili del comunismo. Infine, (chi l'avrebbe mai detto?) ricevendo un rinforzo, tanto potente quanto inatteso, dalle sette protestanti pentecostali o neo-pentecostali che proliferano nell'Africa nera e nell'America Latina, sono riusciti a sedurre persino una parte importante delle opinioni di un terzo mondo che sembrava definitivamente votato a differenti forme di anti-capitaIismo e di anti-imperialismo13.
Per inciso, questi risuscitati del liberalismo sono riusciti a convertire qualche importante figura di grandi intellettuali delusi dal populismo e, giustamente, assai scoraggiati dai pasticci del socialismo reale, come Mario Vargas Llosa. Perso il senso critico e la meravigliosa acutezza del suo sguardo, questo neofita dichiara:
«La generale internazionalizzazione della vita è, forse, quanto di meglio è accaduto al mondo fino a oggi»14.
Non v'è dubbio che la dilagante reazione non sarebbe stata possibile senza la crescita del potere dei «nuovi padroni del mondo»15, le società transnazionali, per le quali la concorrenza e il mercato mondiale costituiscono un modo abile per imporre la loro legge di monopolio.
Secondo gli economisti ultraliberali:
«Tutto ciò che è oggetto di desiderio umano è candidato allo scambio. In altre parole, la teoria economica, in quanto tale, non fissa alcun limite all'impero del mercato»16.
La mercantilizzazione deve quindi penetrare tutti gli angoli della vita e del pianeta. II trionfo della libertà, della libera intesa degli individui, obbedendo al loro calcolo di ottimizzazione, trasformando ogni individuo in imprenditore e in mercante, sta per diventare la legge, l'unica legge di un anarcocapitalismo (termine adottato da alcuni ideologi per designare il sogno di un'economia senza stato) totale e ideale.
«La scienza economica -dichiara il premio Nobel dell'economia Garry Becker- entra nella terza età. In un primo tempo, si riteneva che l'economia si limitasse allo studio dei meccanismi di produzione di beni materiali e non andasse oltre (teoria tradizionale dei mercati). In un secondo momento, l'ambito della teoria economica è stata estesa agli insiemi dei fenomeni mercantili, cioè che danno luogo a rapporti di scambio monetario. Oggi, il campo dell'analisi economica si estende all'insieme dei comportamenti umani e delle decisioni a esse associate. [... È ciò che si chiama] l'economia generalizzata»17.
La fede nell'autoregolazione del mercato porta logicamente a volere sostituire con il mercato qualsiasi altro meccanismo di regolazione, sia essa statale, familiare, etica, religiosa o culturale. Lo scambio commerciale transnazionale diventa così l'unica base del legame sociale e l'Uruguay round assume, quindi, tutt'altro significato. Si tratta, infatti, di una tappa importante nel processo di onnimercantilizzazione del mondo.
La globalizzazione designa anche questa inaudita avanzata
nella onnimercantilizzazione del mondo.
I beni e i servizi, il lavoro, la terra18
e, domani, il corpo, gli organi, il sangue, lo sperma, l'utero in prestito,
i geni vegetali, animali, umani e gli organismi manipolati geneticamente
entrano nel circuito commerciale. Già d'ora, i servizi, la banca,
la medicina, il turismo, i mezzi di comunicazione, l'insegnamento, la giustizia
diventano transnazionali. Ai rappresentanti dei poteri pubblici americani
in tutto il mondo, nella scia delle grandi manovre per il controllo del
mercato delle autostrade dell'informazione, è stato ordinato di
prestare manforte ai giganti dei multimedia, esigendo che i "prodotti"
culturali vengano trattati come mercanzie, "alla stregua delle altre" mercanzie
e le eccezioni culturali come fossero un banale e nocivo protezionismo,
quando l'80% del mercato è già nelle mani delle ditte americane19.
Il mercato mondiale attuale, a differenza delle vecchie "piazze mercato", luoghi concreti di città e di paesi, dove venivano scambiate le mercanzie tradizionali, realizza l'interdipendenza di diversi mercati. Esso mette in comunicazione più o meno stretta i mercati dei beni, i mercati dei servizi, i produttori e i mercati di capitali.
1. La mondializzazione distrugge lo stato-nazione
L'anarchia commerciale, auspicata e salutata da alcuni come il trionfo
della civiltà, genera l'esclusione economica e il caos politico
e sociale.
2. La mondializzazione distrugge la politica
La scomparsa della politica come istanza autonoma, il suo assorbimento
nell'economia risuscita lo stato di guerra del "tutti contro tutti"; la
competizione e la concorrenza, leggi dell'economia, diventano, ipso facto,
legge della politica.
«Si può ancora parlare di democrazia
quando la maggioranza dei cittadini non riesce più a distinguere
le tesi dell'opposizione dalle tesi del potere?», scriveva Claude
Julien già nel 1972.
«La democrazia viene ferita nel suo principio quando la maggioranza
dell'opinione pubblica è persuasa di non potere indirizzare la politica
del governo»20.
Questa situazione deriva dalle numerose costrizioni che influiscono sulla situazione attuale, all'insaputa degli uomini politici e delle forze politiche.
3. La mondializzazione minaccia l'ambiente
II problema ecologico consiste essenzialmente nel fatto che l'ambiente
si colloca al di fuori della sfera degli scambi commerciali e, quindi,
che nessun meccanismo di controllo si oppone alla sua distruzione. La concorrenza
e il mercato, per fornirci il cibo alle migliori condizioni, generano effetti
disastrosi sull'ambiente. Nulla limita il saccheggio delle ricchezze naturali
la cui gratuità permette di abbassare i costi.
L'ordine naturale non ha salvato né il dodo dell'isola Maurizio
o le balene blu, ma neanche i fueghini (gli abitanti della Terra
del Fuoco). II saccheggio dei fondali marini e delle risorse ittiche sembra
irreversibile. Lo spreco dei minerali prosegue in modo irresponsabile.
I cercatori d'oro individuali, come i garimpeiros dell'Amazzonia
o le grandi società australiane in Nuova Guinea, non arretrano davanti
a nulla pur di procurarsi l'oggetto della loro cupidigia.
Ora, nel nostro sistema, ogni capitalista, come ogni homo oeconomicus,
è una specie di cercatore d'oro. Lo sfruttamento della natura, poi,
non è meno violento né meno pericoloso quando si tratta di
rifilare la nostra spazzatura ed i nostri rifiuti nella stessa natura-pattumiera.
4. La mondializzazione distrugge l'etica
La cosiddetta deontologia degli affari e dell'etica di mercato sono
fandonie. L'imbroglio è la regola, l'onestà l'eccezione.
Tutti i mezzi, compresi i più abietti, vengono utilizzati quando
è in gioco "la grana": il dumping (vendita sottocosto di
merce), la manipolazione dei prezzi, lo spionaggio industriale, le OPA
(offerte pubbliche di acquisto) selvagge, le stock options, l'utilizzo
dei paradisi fiscali, veri covi di pirati. Le isole Cayman ospitano 25.000
società! I sudditi imitano i padroni; la frode fiscale diventa uno
sport generalizzato, lo sport un mercato corrotto, le deontologie professionali
sono ridotte a specie in via di estinzione.
«A quota 8.000, non ci si può permettere di avere preoccupazioni morali»,
ha dichiarato un alpinista giapponese che si rifiutò di portare soccorso a dei concorrenti indiani in difficoltà21. Negli affari, sicuramente, esiste una quota simile in dollari.
5. La mondializzazione distrugge la cultura
L'imperialismo economico e l'imperialismo dell'economia, che caratterizzano
la modernità, hanno ridotto la cultura a folclore e l'hanno relegata
nei musei. Megamacchina tecno-economica, anonima e ormai senza volto, l'Occidente
sostituisce, nel proprio seno, la cultura con un meccanismo che funziona
per l'esclusione e non per l'integrazione dei suoi membri; ai margini,
alla sua periferia, corrode le altre culture e, nella sua dinamica conquistatrice,
le schiaccia come un rullo compressore.
«La mondializzazione -scrive Vandana Shiva- non reca la fertilizzazione incrociata di società diverse, ma l'imposizione ad altri di una cultura particolare»22.
L'imperialismo culturale conduce assai spesso a sostituire
l'antica ricchezza con un tragico vuoto. Per questo motivo si parla, a
proposito dei paesi del Sud, di una «cultura del vuoto».
Purtroppo, il vuoto di questa modernità bastarda e disinibita è
disponibile per nutrire i progetti più deliranti.
L'integrazione astratta dell'umanità nel tecnocosmo, operata
dal mercato mondiale, dall'onnimercantilizzazione del mondo e la concorrenza
generalizzata avvengono a prezzo di una brutale desocializzazione, della
decomposizione del legame sociale, a dispetto del mito della "mano invisibile"
caro agli economisti. Alla decomposizione sociale e politica del Nord corrisponde
la deculturazione del Sud. Questa è ancora più drammatica
poiché, se in certa misura il Nord funziona ancora come "élite
planetaria", al Sud, come unica ricchezza, non rimane spesso che la sua
cultura o quello che ne resta.
Di conseguenza, la cultura scacciata ritorna ovunque, a volte, sotto
le forme più perniciose. In assenza di uno spazio necessario e di
un legittimo riconoscimento, essa ritorna in maniera esplosiva, pericolosa
o violenta.
Si possono distinguere due aspetti di questo "ritorno del
respinto": l'esplosione identitaria e la rimonta degli integralismi
religiosi.
La prima si traduce nel frazionamento etnonazionalista con il suo corollario
di pulizia etnica, di pratiche genocide e il terrorismo dell'identità
chiusa. Basta osservare quello che accade dal Kossovo al Ruanda ma, anche,
in modo relativamente meno violento, in Corsica, nel Quebec o nella Padania...
La seconda si evidenzia soprattutto con l'islamismo e le sue deviazioni
criminali o terroriste in Algeria, ma anche in Iran, nel Sudan, in Afghanistan,
in attesa di nuovi numerosi candidati, senza dimenticare gli altri integralismi:
indù, cristiani, e anche il buddhisti.
Questa post-modernità non può essere
che la reintegrazione, il reinserimento della tecnica e dell'economia nel
sociale.
Essa costituirà l'emergere di una nuova cultura, della
rinascita della politica, di nuovi rapporti con l'ambiente, di una nuova
etica. La nuova cultura, tuttavia, sarà il risultato di un lavoro
storico e non il frutto di un volontarismo "tecnocrate", sia che si tratti
di un tecnocratismo populista, nazionalista, teocratico, sia che lo si
definisca o si autodefinisca di destra o di sinistra, reazionario o rivoluzionario.
Le speranze di ricomposizione del tessuto sociale possono venire solo dal reinserimento dell'economico nel sociale, in un ri-radicamento locale. Tutta la quarta parte del libro è dedicata a questo argomento.
Questo ri-radicamento lo si può vedere all'opera nella dinamica di sopravvivenza di alcuni emarginati al Nord e al Sud. Al Nord, l'autorganizzazione è in marcia nei vari gruppi dei minoritari, che si rifiutano di arrendersi.
La dissidenza è unita a una forte resistenza. L'esperienza
dei LETS anglosassoni, dei Sels francesi o
delle "banche del tempo" italiane è particolarmente interessante,
perché si assiste alla scoperta e alla ricostruzione del legame
sociale alla base.
Al Sud, questa autorganizzazione spesso massiccia e forzosa intraprende
più la via della dissidenza che quella della resistenza. In certi
isolotti dell'informale, in cui vivono i "naufraghi dello sviluppo",
e nell'altra Africa si assiste a una vera e propria invenzione storica23.
L'adattamento creativo si manifesta ad ogni livello: immaginario,
tecno-economico e, soprattutto, sociale. Vi è dunque motivo, seguendo
la celebre formula di Gramsci, per temperare il pessimismo della ragione
con l'ottimismo del cuore.
È proprio a questo che ci invitano gli autori dell'opera.
2- Delphine Kluger, Le technoglobalisme, in "Relations internationales et strategiques", n. 8, 1992. torna al testo ^
3- Agnès Bertrand, La marche de la globalisation, in "Transversales Science Culture", n. 38, marzo-aprile 1996. torna al testo ^
4- "Le Monde" 20/05/98. Clinton concluse dicendosi «determinato a perseguire una strategia aggressiva di apertura (liberalizzazione) dei mercati in tutti i Paesi del mondo». torna al testo ^
5- "Le Monde", 17-18/05/98. torna al testo ^
6- "Le Monde", 1-2/02/1998. torna al testo ^
7- Dollfus Olivier, La mondalisation, Presses de Sciences Po, Paris, 1997, p. 13. torna al testo ^
8- Dollfus, ibidem, p. 17. torna al testo ^
9- «Mondializzazione e universalità -scrive Jean Baudrillard- non procedono di pari passo, ma piuttosto l'una escluderebbe l'altra. La mondializzazione si nutre di tecniche, di mercato, di turismo, di informazione. L'universalità è costituita di valori, di diritti dell'uomo, di libertà, di cultura, di democrazia. La mondializzazione sembra irreversibile, l'universale parrebbe, invece, in via di estinzione» (Jean Baudrillard, Le mondial et l'universel, in "Libération", 18 marzo 1996). torna al testo ^
10- Questa espressione fu lanciata, per quanto mi risulta, dal giornalista e direttore di L'évènement du jeudi, Jean-François Kahn. torna al testo ^
11- Vargas Llosa Mario, Une gauche civilisée?, Princetown, aprile 1993, in Les enjeux de la liberté, Gallimard, Paris 1997, p. 290. torna al testo ^
12- Data simbolo della pubblicazione di La ricchezza delle Nazioni di Adam Smith. torna al testo ^
13- «L'adeguamento fra il discorso morale di queste chiese e quello dell'aggiustamento strutturale -notano gli osservatori- è particolarmente sorprendente». Nell'aprile 1996, il presidente della Banca mondiale, in soggiorno in Madagascar, ha fatto molte volte riferimento alla Bibbia per convincere i giornalisti e i responsabili politici". Dorier-Apprill Elisabeth, Kouvouama Abel, Dubourdieu Lucille, Le religieux, vecteur de nouveaux modèles de comportement économique? Le changement des paradigmes de la solidarité, du travail et de la richesse dans les discours des nouvelles Eglises chrétiennes (Congo-Madagascar), Atelier Menages et crise, Marseille, 24-26 marzo 1997, p. 11. torna al testo ^
14- Vargas Llosa Mario, Le nationalisme et l'utopie, Londres, maggio 1991, in "Les enjeux de la liberté", Gallimard, Paris 1997, p. 71. torna al testo ^
15- Les nouveaux maitres du monde, in "Le Monde Diplomatique", 28/11/1995. torna al testo ^
16- Baby market, in "Le Monde", 7 luglio 1988. torna al testo ^
17- G. Becker, citato da Passet, L'économique et le vivant, p. 115, tratto da "The economic approach to human behavior", Paris CNRS 1977, pp. 28-30. torna al testo ^
18- Nei contatti preliminari all'ammissione del Messico all'ALENA, gli Stati Uniti hanno preteso che il Messico abrogasse l'art. 27 della Costituzione, che vieta la vendita delle terre collettive (ejidos), anche se inapplicato. Nei piani di aggiustamento strutturale, in Africa, il FMI esige la privatizzazione delle terre di proprietà dei villaggi (o di clan). torna al testo ^
19- Antonio Pedro Vasconcelos, Rapport de la cellule de réflexion sur la politique audiovisuelle dans l'union européenne, Luxembourg 1994, ripreso in "Multimédia et communication à usage humain", op. cit. p. 170. torna al testo ^
20- Claude Julien, Le suicide des démocraties, Grasset, Paris 1972, citato da Christian de Brie, in "Le Monde Diplomatique", maggio 1997, p. 14. torna al testo ^
21- "Le Monde", 26-27 maggio 1996. torna al testo ^
22- Vandana Shiva, Ethique et agro-industrie. torna al testo ^
23- V. le nostre opere Il pianeta
dei naufraghi, (1993) e L'altra Africa, tra dono e mercato,
(1997) Bollati-Boringhieri, Torino. torna
al testo ^
Serge
Latouche
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Articolo inserito in data: domenica, 18 febbraio, 2001.
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