Povertà,
diritti civili e ambiente
Le manifestazioni di Seattle
Simone
G.
Seattle,
raccontano le cronache, è una tranquilla ed amena città del
nord-ovest degli Stati uniti (probabilmente una delle più
vivibili del paese) sede di alcune tra le
più importanti società mondiali, ad esempio la Boeing
(uno dei colossi produttori di aeroplani) e la Microsoft.
Forse, un giorno, gli storici del futuro invece la
ricorderanno per altri motivi, per l’inizio della nuova
contestazione, erede di quella del ’68: Seatlle come Berkeley.
Sarà veramente così?
Tutto
ha inizio nell’ultima settimana di novembre in occasione del
“Millenium Round”, ovvero dell’incontro dei rappresentanti
di tutte le nazioni appartenenti al WTO per discutere e
risolvere alcuni problemi legati al commercio internazionale.
Il
WTO è un organismo internazionale creato nel 1995 con lo scopo
di regolare il commercio mondiale, cercando di favorire il
libero mercato e l’eliminazione delle barriere commerciali tra
gli stati. Per i suoi detrattori invece il WTO è un’alleanza
delle imprese capitalistiche e delle nazioni più forti ai danni
delle nazioni più deboli, delle piccole imprese e cooperative
sociali (si pensi alle organizzazioni no-profit che operano per
il miglioramento delle condizioni di vita dei cittadini degli
stati del quarto
mondo).
All’ordine
del giorno vi erano diversi problemi commerciali e finanziari da
risolvere. In particolare la questione degli alimenti
transgenici e gli aiuti governativi dei paesi europei
all’agricoltura locale ampiamente contestati dai produttori
americani. L’incontro già si proponeva abbastanza complicato.
Molte
organizzazioni no-profit, associazioni e sindacati, che hanno
come proprio scopo lottare contro la povertà nel mondo, per il
rispetto dell’ambiente e dei diritti civili, sono, forse per
la prima volta a questi livelli, riusciti a mettersi d’accordo
nel portare avanti, uniti, forme di protesta alla politica del
WTO e più in generale a quella delle multinazionali.
Manifestazioni sono così state organizzate a Seattle nei giorni
del “Millenium Round” che hanno portato sia alla paralisi
del summit (che si è concluso infatti con un nulla di fatto)
sia alla notorietà su livello mondiale di queste associazioni e
formazioni sociali.
A
Seattle in quei giorni non si sono solo manifestati i sentimenti
e la rabbia degli esclusi, dei poveri, degli “arrabbiati
perenni” o dei “contestatori” o “ribelli” (così
etichettati dalla maggior parte dei mezzi di comunicazione);
bisogna prendere atto che in quei giorni effettivamente si è
manifestato anche qualcosa di diverso, qualcosa che i più, i
politici, gli economisti, i grandi burocrati, non avevano
previsto, nella loro ansia o entusiasmo di tener conto solo dei
risultati delle borse mondiali o degli indicatori dello stato di
salute delle grandi economie mondiali: la paura. La paura per il
futuro, ma non il futuro fra 30 anni, il futuro del domani
prossimo venturo: di cosa mangeremo (la contestazione ai cibi
modificati geneticamente), dei rapporti di forza che si
creeranno (la contestazione alle politiche delle grandi
potenze), di chi in realtà comanderà (gli stati governati da
organi democratici o i consigli di amministrazione delle grandi
multinazionali), se saranno tutelati in primo luogo i diritti
sociali, civili e politici dell’uomo o gli interessi economici
delle imprese (di qui la protesta nei confronti dell’ONU,
considerato organismo troppo fiacco e
dello stesso WTO visto come un governo mondiale
dell’economia non sottoposto al controllo di istituzioni
democratiche).
Almeno
in misura limitata, la paura può non essere un male, può
aiutare ad agire meglio e con più sveltezza. Ma non bisogna
perdere anche un certo spirito critico e un pizzico di
ottimismo. Se è vero che ogni forma di contestazione, pacifica,
a quello che sembra il modello socio economico dominante può
comunque essere considerata una forma di intelligenza, perché
si trova il coraggio di pensare con la propria testa e non con
quella degli altri, magari correndo in prima persona il rischio
di sbagliare, bisogna anche stare attenti a chi si aggrega per
fini personali o per puro protagonismo. Ad esempio una delle
richieste dei manifestanti era una maggior lotta allo
sfruttamento del lavoro minorile nei paesi in via di sviluppo.
Richiesta sensata e accolta, tra l’altro, dal presidente degli
Stati Uniti. Tale proposta è stata appoggiata anche dai
sindacati americani sostenendo che ciò è alla base del minor
costo del lavoro in quei paesi e quindi motivo di vantaggio
delle loro imprese rispetto a quelle americane: in questo caso
dove finisce la richiesta della tutela dei diritti dei più
deboli e la richiesta di un semplice tornaconto?
A
diverse settimane di distanza da quegli avvenimenti è opportuno
chiedersi se la portata storica di ciò che è successo è
stata, almeno in parte, compresa; a meno che non si ritenga che
tutto ciò che è successo sia un fenomeno minoritario ed
ininfluente ai destini di questo mondo e che effettivamente,
come ci garantiscono certi “guru”, ci stiamo avvicinando ad
un nuovo Eden. Sarebbe bello...
Altrimenti
il rischio è, come dice Beppe Grillo: “ che i tre miliardi di
persone che hanno meno di 20 anni e passano il loro tempo
davanti alla Tv a guardare la ricchezza dell’occidente, un
giorno spengano la Tv e vengano a prendersi quello che gli
abbiamo fatto vedere. E allora sì che ci sarà poco da
ridere”.
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