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Conferenza di apertura: Johan Galtung - La Globalizzazione tra mito e reltà

Johan Galtung - La Globalizzazione e le sue conseguenze

Stefano Zamagni - Mercato globale e solidarietà sociale

Umberto Melotti - Migrazione, conflitti e identità culturali"

Marco Revelli - Globalizzazione e trasformazioni del lavoro
 

CONFERENZA DI APERTURA DEL CICLO DI INCONTRI SUL TEMA:


LA GLOBALIZZAZIONE
TRA MITO E REALTA’


Prof. Johan Galtung


Martedì 13 gennaio 1998, ore 16

 
 
 

Voglio cominciare con una definizione.

La gobalizzazione è un processo che si pone come fine la costituzione di uno stato mondiale e di una nazione umana. Essa rappresenta a livello mondiale ciò che il cosiddetto nation building rappresenta a livello dello Stato. Questa è una definizione che non è stata molto utilizzata, ma credo che la mia interpretazione sia realista; ciò che stanno facendo non rappresenta necessariamente un processo cosciente, ma di fatto esso sta prendendo piede.

Oggi nel mondo ci sono duecento Stati e duemila nazioni. La mia definizione di nazione è: un gruppo di persone con una cultura che definisce alcuni punti nello spazio e alcuni punti nel tempo come punti sacri. E’ la continuazione secolare della religione. Nella religione vi sono sempre punti sacri nello spazio e nel tempo. Allora è molto facile capire esattamente quando che è venuto il nazionalismo. Il nazionalismo è il fratello naturale della secolarizzazione, ma c’è un tipo di religione secolarizzata che utilizza il principio del sacro nello spazio e nel tempo. Nello spazio si chiama naturalmente homeland, ci sono le montagne che ci fanno battere il cuore; nel tempo naturalmente è la festa nazionale, i giorni sacri ecc.

E’ molto importante, credo, non commettere l’errore che fanno quasi tutti, di definire la nazione come un gruppo di individui con una religione e un linguaggio: questi sono aspetti superficiali, questa è la sovrastruttura culturale. Nell’infrastruttura culturale vi è una moltitudine di elementi sacri, spazio e tempo, e la nazione entra come fattore nella geopolitica non con il linguaggio e la religione ma con la sacralità.

Allora, è molto chiaro che la distanza fra oggi e lo scopo della globalizzazione è immenso. Abbiamo 200 Stati e 2000 Nazioni quindi è chiaro che questo è un progetto con moltissime tensioni. Per capire questo processo propongo di analizzarlo con sei dimensioni. E queste sei dimensioni sono esattamente le stesse dimensioni che sono utilizzate per capire il processo del nation builiding, state building. Che cosa ha fatto Napoleone? Napoleone è stato il primo costruttore di questo sistema. Sei tappe da costruire, anche sotto un punto di vista cronologico. Bisogna costruire:

1) una rete di trasporti e comunicazioni;

2) un mercato unificato, che garantisca la possibilità di vendere e comprare nel territorio nazionale.

3) una mobilità culturale che favorisca la condivisione dei miti dentro lo Stato.

4) un’organizzazione politica con una certa centralizzazione del potere.

5) un’organizzazione militare.

6) una cittadinanza nazionale.

Naturalmente questa tabella non impone un ordine di priorità, ma le sei tappe rappresentano un paradigma per analizzare il processo. E allora possiamo utilizzare queste sei dimensioni per capire meglio esattamente dove siamo nel processo di globalizzazione e anche per capire una cosa importante da un punto di vista sociologico: la stratificazione della società globale, con i suoi aspetti, positivi e negativi. Per esempio io sono globalizzato, io sono entusiasta della globalizzazione. Ma sono perfettamente cosciente del fatto che se per me funziona bene, è molto probabile che funzioni molto, molto male per cinque miliardi di esseri umani. Per chi gode di risorse non c’è problema, i problemi sono per tutti gli altri. Una di queste risorse è rappresentata dalla possibilità di accedere ai mezzi di comunicazione, variabile che introduce una radicale stratificazione della società. Un paio d’anni or sono "Le Monde" ha condotto una ricerca per sapere, secondo l’opinione corrente, chi sono le persone mondialmente più conosciute, le più importanti. Il risultato è stato sorprendente: ai primi posti infatti non figuravano né Clinton, né Eltsin, ma Murdock e Bill Gates, cioè i principi della comunicazione. Si tratta allora delle reti televisive, della stampa, e naturalmente di Microsoft. E’ molto chiaro che quella parte della popolazione mondiale che ha riflettuto su questo punto ha capito molto bene che il primus motor del processo risiede nel binomio "comunicazione-trasporti". Questa naturalmente è la ragione principale del fatto che il controllo di questo settore è tanto importante. E lo hanno capito molto bene gli americani.

Marx non ha scritto su questo, lui ha scritto sui mezzi di produzione. Qui si tratta di mezzi di comunicazione, e trasporto. Questo è il cambiamento epocale di enorme portata del quale è opportuno parlare.

Nella stratificazione alla quale accennavo, ai prìncipi dellla comunicazione seguono i grandi prìncipi economici. Pensiamo ai grandi amministratori, ai c.d. chief executive officier delle grandi compagnie transnazionali. Nella classifica di Le Monde la terza posizione è occupata dagli intellettuali: tra questi, Umberto Eco, Foucault, Habermas. In un certo senso è un complimento per l’università, che forma persone con queste capacità. Soltanto a questo punto vengono Bill Clinton e Eltsin. Entrambi in un certo senso rappresentano "fantasmi dell’epoca passata del secolo che sta finendo". E sono tipi conosciuti e sono importanti, ma sono soltanto moderni, non sono post-moderni. E la globalizzazione avviene attraverso la post-modernizzazione. Questo è un fenomeno che vorrei cercare di chiarire.

Allora, esattamente, a che punto ci troviamo del processo? Si può dire che comunicazione e trasporto abbiano beneficiato soprattutto i ricchi, ossia chi le risorse le possiede già. Ma un fenomeno in atto appare sottostimato: si va incontro alla mobilità assoluta dei fattori di produzione: risorse, capitale, tecnologia e management, ma non degli operai. Il fattore di produzione manodopera non ha mobilità. Ha mobilità soltanto in principio nella Unione Europea. The four freedoms di Unione Europea, sono solo three freedoms, soltanto tre libertà a livello mondiale. Per i prodotti, cioè beni e servizi, e per i capitali, ma non per il lavoro; questa è la contraddizione principale di tutto il sistema e di questo dovremmo discutere.

C’è però un altro aspetto, più confortante; il potenziamento delle reti di comunicazione favorito dai potenti per garantire la globalizzazione del mercato capitalista, è un’arma disponibile anche per tutti coloro che non sono tanto convinti che il sistema funzioni. Oggi è più facile organizzare uno sciopero dei consumatori che non mai nella storia umana. Pensiamo a questi esempi illuminanti per il futuro.

1) l’organizzazione rapidissima contro "Deutsche Shell", multinazionale tedesca colpevole di una massiccio inquinamento nel Mare del Nord; dopo una settimana di sciopero dei consumatori la Shell ha capitolato completamente.

2) l’azione contro lo Stato francese. La Francia è uno degli stati più arroganti del mondo, al pari della Cina, ed organizzare una protesta contro lo Stato napoleonico sembrava impossibile, ma ha funzionato bene. Naturalmente si tratta dei test atomici a Mururoa, nel Pacifico, condotti con tutto lo spirito del colonizzatore e senza tenere conto dei rischi. E l’argomento del ministro di scienza giapponese è un argomento eccellente: rivolto allo Stato francese, se loro sono tanto convinti che non c’è nessun pericolo perché non farlo nel Mediterraneo? Per esempio a due passi da Marsiglia? E’ un posto eccellente! Perché non condurre questi esperimenti nel Bois de Boulogne? Chirac ha dunque optato per una riduzione del numero dei mesi dei test, e della loro durata. Non ha chiesto pubblicamente scusa perché ciò non fa parte della cultura francese, ma ha fatto un passo indietro.

Osserviamo dunque un elemento nuovo; io credo che quello che i potenti stanno cercando di fare consiste nel limitare l’accesso alla rete di comunicazione, al fine di limitare l’organizzazione politica. Esattamente come vorranno fare non lo so, ma ho alcuni sospetti.

Passiamo alla questione economica, sulla base delle considerazioni fatte riguardo le comunicazioni ed i trasporti. Credo sia importante comprendere come la globalizzazione ben si accompagni ad altri due processi: privatizzazione ed incremento della produttività della manodopera. Io per esempio sono globalizzato, privatizzato ed anche relativamente produttivo; cioè vivo molto bene, nessun problema, ma quali sono le condizioni? Con la privatizzazione i processi democratici stanno divenendo processi delle corporazioni. Basti pensare alle ferrovie giapponesi: la ferrovia dello Stato ha funzionato in Giappone come un mezzo per dare lavoro ai più poveri ed ai distretti che non sono distretti centrali. Ora hanno privatizzato le ferrovie e abbandonando completamente questa politica che si chiama la politica della sentimentalità. Una distribuzione ineguale per i disoccupati, e naturalmente una distribuzione ineguale delle ferrovie nel senso che le ferrovie che non cono in grado di sostenere i costi sono abbandonate; questo è un fenomeno disarmante. In una organizzazione statale democratica, vi è sempre la possibilità di utilizzare il Parlamento come strumento della voce del popolo. E’ possibile per esempio dire in Parlamento che questa ferrovia funziona male, questa non funziona, questa è pericolosa, ecc. Se tu dici questo contro una ferrovia privata, loro possono considerare quello che hai detto in un insulto e lanciare immediatamente un processo legale... ciò non significa che lasciare le ferrovie nelle mani dei partiti politici garantisca un servizio migliore...è una strada facile che funziona in alcuni paesi, ma che in altri funziona molto male. Ho detto che in comparazione con il risultato della privatizzazione la trasformazione in processo legale è un miracolo di democrazia. Tornando all’incremento della produttività, esso introduce un fenomeno molto ben conosciuto, che è questo: diciamo che il prodotto (Pr) è proporzionale alla produttività (p ), il numero di operai (N) ed il numero di ore di lavoro (H).
 

Pr = p x N x H

 

Questa naturalmente è semplicemente la definizione del concetto di produttività. Allora, in un mercato mondiale con molti produttori, naturalmente c’è un limite superiore alla produzione di beni che può essere venduta. C’è un tetto. Partendo da questo dato di fatto, con la produttività in costante crescita, e una tecnologia che continua a creare innovazione, ci sono soltanto due possibilità: diminuire N o diminuire H. Diminuire N si chiama disoccupazione, ma cosa vuol dire diminuire H? Ciò implica che tu hai un job, ed un job non è ciò che si può chiamare correttamente un "lavoro"… in realtà questo è un "contratto". E questo è il dibattito che abbiamo naturalmente in Europa e in generale nel mondo. Come risultato stiamo naturalmente sviluppando la società che si chiama 40,30,30 cioè 40% che hanno un posto fisso, 30% con contratto, e 30% disoccupati. Questa tesi di 40, 30, 30, è troppo ottimista, di un ottimismo quasi incredibile. Marx dall’alto della sua analisi anticapitalista non ha mai capito la brutalità assoluta del capitalismo. Perché Marx naturalmente aveva una tesi interessante, ma molto riduttiva: che i capitalisti intendono pagare il minimo, inteso come il minimo sufficiente e necessario per la riproduzione della forza lavoro, ma questo non interessa ai capitalisti. Perché? Perché non hanno bisogno di operai. E perché non hanno bisogno di operai? Perché hanno in corso imponenti processi di automazione e robotizzazione.

Utilizziamo come esempio il mercato del lavoro accademico negli USA. L’esempio è questo: il full time professor è un tipo di animale che sta scomparendo, soppiantato dalla figura del professore a contratto. Nella vita accademica degli USA un corso è una cosa relativamente ben definita, per esempio di quattro ore alla settimana nell’arco di 12, 15 settimane nel semestre. Per questo corso allora fanno un contratto con un Ph. D. da poco laureato che ha per esempio 26 anni. A quell’età, un PH. D., ha un’esperienza poco significativa ed il suo stipendio è irrisorio.

Nel distretto metropolitano di Washington viene pagato 1500$ per fare un corso, mentre a un professore di ruolo spettano non meno di 35000$ al semestre, insegnando in 3 corsi. Con questa politica gli amministratori delle università possono gestire tre corsi con 4500$, risparmiandone ben 29000. Chi riceve i 29000$? Gli amministratori, in generale. Allora se ingrassano gli amministratori, cosa fanno i Ph.D.? Non è possibile vivere nel distretto di Washington con soli 1500$. Ci sono due strategie: strategia numero uno: naturalmente fare più corsi, e stratgia numero due: vivere insieme con una donna, anch’essa Ph.D., legarsi ad altre persone costituendo una "comune" di dieci persone insegnanti con trenta corsi e rinunciare alla propria autonomia. E questo si sta sviluppando con una velocità che ha dell’incredibile. E’ opportuno sottolineare la capacità degli americani nell’arte dell’improvvisazione. Il talento americano è l’intelligenza sociale all’adattamento: What do you think?, why don’t you come? Should we make a comune toghether? Now, how many courses can you teach? Ecc. ecc. Che succede, quando un membro, un socio di questa comune, resta per un semestre senza contratto? Verrà estromesso dalla comune o si metteranno in moto meccanismi di solidarietà? Non sappiamo. Sto solamente dicendo una cosa; che c’è in generale un cambiamento sociale drammatico, da una società tradizionale verso una società moderna, e questo si sta sviluppando sotto i nostri occhi. Ma io non ho visto molti sociologi che lavorano su questo.

Allora la tesi dominante "40, 30, 30" , deve essere più realisticamente ricondotta ad un rapporto "10, 40, 50", con una disoccupazione brutalissima e la cosa che Marx non ha capito è che il capitalismo può sopravvivere senza operai; non sono indispensabili. L’università può sopravvivere senza professori? Naturalmente! Noi non siamo indispensabili. Naturalmente possono fare una cosa: riproporre l’università classica, con professori a tempo pieno, come nel novecento. Ma per ora è più semplice utilizzare il professore a contratto e gli strumenti forniti da internet, grazie ai quali lo studente può seguire da casa tutte le lezioni di Harvard. Ma anche i professori di Harvard fanno errori, ed io personalmente sto mettendo a punto una lista di tutti gli errori commessi dai professori di Harvard. Nel mio caso, io conosco questi tipi, conosco relativamente gli errori che hanno fatto. Il più grave consiste in una totale omogeneizzazione del sapere. Il che non sarebbe pericoloso , se questo fenomeno si manifestasse soltanto negli USA. Ma la privatizzazione viene con la globalizzazione. Cioè il mercato accademico è il mercato senza confini. Per gli amministratori la strategia è relativamente semplice: aspettare l’età in cui si ritireranno, e utilizzare la università come una fabbrica di Ph.D. dando a ognuno di essi un corso per 1500$.

Questo è solo un esempio; ma stanno facendo esattamente la stessa cosa con le fabbriche. Quando Helmut Kohl ribadisce ogni due mesi la necessità di aumentare il numero di jobs in Germania, lui sta facendo, diciamo fairy tales. La soluzione è relativamente chiara, ma verosimilmente è impossibile. Consiste nel diminuire la produttività. Naturalmente questa è la politica "verde", ma la ideologia dei partiti verdi non è molto ben pensata, credo che il "verdismo" sia in crisi come tutti gli altri colori politici. Quindi globalizzazione, privatizzazione, incremento di produttività non possono non introdurre una disoccupazione mondiale a livelli massicci. Ma questo non è tutto. Ci sono molti altri problemi.

Viviamo in un mondo con sovrapproduzione. Come detto c’è un tetto, un limite massimo della produzione. Perché? Perché ci sono molti produttori. Ma questo non è un problema! Ci sono i consumatori! Il problema è che non abbiamo consumatori. Come tutti sappiamo 358 miliardari hanno più denaro del 50% della popolazione mondiale e come tutti sappiamo 1.3 miliardi di individui vivono con meno di un dollaro al giorno: loro non possono comprare. Non possono comprare niente! Non sono partecipanti nel mercato. Gli autori di questa politica dell’esclusione hanno un nome: si chiamano economisti. E’ opportuno, secondo me, demonizzare totalmente gli economisti, per me è una razza totalmente innecessaria in questo mondo. Ma anche di questo non voglio parlare a lungo. Il problema è questo: con una distribuzione grottescamente asimmetrica hanno eliminato la possibilità della loro stessa sopravvivenza perché non hanno consumatori, siamo quindi nel pieno di una crisi di sovrapproduzione. In questa crisi di sovrapproduzione abbiamo tre fenomeni. Disoccupazione nel mondo ricco, dove troviamo la produzione industriale; livelli di miseria elevati in tutto il mondo; speculazione finanziaria. Un direttore di una compagnia transnazionale al punto massimo della produzione che può vendere, è molto ricco. Che cosa fa col danaro? Non puoi reinvestire nella sua attività. Perché no? Perché investire nella sua ditta significherebbe aumentare la produzione, ma questo è impossibile in assenza di domanda. Allora cosa farà? Speculazione finanziaria, e qui entriamo con la distinzione, che secondo me è importantissima fra l’economia finanziaria e l’economia produttiva. Nell’economia produttiva abbiamo naturalmente beni e servizi, nell’economia finanziaria abbiamo tre o quattro cose. Abbiamo metalli preziosi (platino, oro, uranio), valute, azioni, obbligazioni e derivativi. I derivativi sono importantissimi: perché stiamo in una situazione dove il danaro si dirige verso l’economia finanziaria, e purtroppo bisogna naturalmente avere una differenziazione di oggetti finanziari come non mai prima. Questa è l’economia finanziaria. Non si può vivere di questi beni: mangiare obbligazioni è complicato, sarebbe necessario un tipo di sistema di digestione particolare! In equilibrio tutte le attività finanziarie corrispondono alla situazione dell’economia produttiva. Come unità di misura possiamo utilizzare il Dow Jones index (per le attività finanziarie) ed il Pil (per le attività produttive). Negli ultimi anni c’è stato un incremento del Dow Jones index del 26% annuale. La crescita economica misurata dal Pil è dell’ 1-4% nei paesi industrializzati, e soltanto in paesi "poveri" come la Cina che si ha un crescita dell’ 11%. Lo scarto tra le due grandezze rappresenta lo squilibrio del sistema. Perché il denaro registrato nell’economia finanziaria non ha una base solida nell’economia produttiva. Naturalmente la conclusione è molto chiara; andiamo incontro ad un crash finanziario. E questo crash è il modello della crisi. Questo è un modello nello stesso senso in cui l’impero romano è il modello dell’imperialismo. E’ un modello infelice. Io credo che la maggioranza delle persone creda che tutto vada bene quando non c’è un crash. Se tu pensi così, questa non è soltanto un’indicazione del fatto che tu non hai buon cuore, ma anche un’indicazione del fatto che il tuo cervello non funziona bene. Il processo potrebbe essere lento. Ma il modello è sempre ottobre 1929: il crash di Wall Street. La visione secondo alcuni è pessimista, ma credo che il fenomeno che osserviamo nei paesi asiatici in questo periodo è con ogni probabilità un’avvisaglia del fatto che he stiamo vivendo i primi giorni di una crisi mondiale. E questo dovrebbe toccare gli USA entro 6 mesi.

Per capire meglio questo, posso aggiungere una cosa sugli USA. Tutte le statistiche che sono state rese pubbliche sulla stampa più servile, a livello europeo (naturalmente la stampa mainstream) riguardanti la creazione di jobs negli USA sono false perché utilizzano una parola di propaganda, e questa parola è naturalmente la parola "job". Job è anche conosciuta dalla Bibbia, e la versione della Bibbia è molto più sana meno falsa. Quando loro dicono job, questo non significa che tu puoi vivere di un job. La definizione tecnica di un job è: attività retribuita di 20 ore settimanali. Torniamo un momento a Marx: Marx aveva più o meno l’idea media di un imprenditore italiano: paghiamo un minimo con cui si possa vivere mantenendo una famiglia. Paragoniamo quest’esigenza alle parole di Clinton, che sostiene di aver creato 5.000.000 di jobs e di aver arginato la disoccupazione negli Stati Uniti.

Durante l’ultima campagna presidenziale un tipo, durante una conferenza, chiese al Presidente: - Mr. Clinton, io sono tanto grato per questi 5.000.000 di jobs perché io ne ho 5, di jobs!!!-.

E’ chiaro che con 5 jobs un individuo può vivere. Ma a quale prezzo? Il costo è forse la metà del giorno passato da un job all’altro senza più tempo per la famiglia e per i bambini, cioè la distruzione totale del tessuto sociale a livello micro. La realtà è che per il 70% della popolazione degli USA il livello di vita è peggiorato negli ultimi 10 anni.

Riguardo i vari modi di falsificare la statistica si possono fare ulteriori esempi; Clinton ha detto nell’ultima riunione del G7 a Denver, Colorado, che questi nuovi jobs non sono low states jobs, ma sono high states jobs, ma non è così. Un’analista ha condotto uno studio sull’argomento, prendendo come esempio un operaio di una fabbrica di automobili. Lui ha guadagnato 40.000$ l’anno, è finito in esubero ed è stato licenziato. Ha perduto tutto. Ma dopo ha trovato un posto come assistant manager in una pizzeria di notte (gli americani adorano cose di questo tipo).

Nella pizzeria di notte guadagna 16.000$ l’anno. Insomma, è passato da 40.000$ a 16.000$ l’anno. Bill Clinton ha detto che qui abbiamo un esempio tipico di un operaio che è passato nella classe manageriale della società. E’ assistent manager di una pizzeria, e sarebbe un esempio di social climbing a livello sociale, molto più avanzato. La cosa che per me risulta fantastica è che tutta la stampa mondiale, non soltanto in Italia, sta citando tutto questo come se fosse la verità. Sto pensando con un po’ di nostalgia all’Unione Sovietica, perché l’Unione Sovietica ha avuto un vantaggio importante: che nessuno ha creduto alla stampa.

Dunque ci troviamo in una situazione critica, non solo a causa della globalizzazione, ma anche per la coincidenza della globalizzazione con la privatizzazione e con l’innalzamento della produttività. Analiticamente io credo che sia meglio fare una distinzione di questo fenomeno. La globalizzazione culturale rappresenta un successo incredibile per la cultura plebeiana americana. Un successo notevolissimo. L’infrastruttura l’hanno fatta gli inglesi con il British Council, distribuendo l’inglese in tutto il mondo, per fare imparare ai pagani Shakespeare, Milton e alcuni altri. E’ il criterio in base al quale essere colti significa citare quattro drammi di Shakespeare. Questo lo hanno fatto bene, e hanno preparato l’americanizzazione delle 3 M: Mickey Mouse, Madonna e Michael Jackson. E questo è duro per gli inglesi. E’ molto duro. Io credo che dal punto di vista della cultura, questa cultura americana è quella che ha avuto più successo nella storia mondiale, molto più del cristianesimo. Perché la lingua degli americani è diventata così importante? Il cinese è un linguaggio molto più parlato, tuttavia i cinesi non hanno una filosofia universalista; gli americani si. La cultura cinese è piuttosto "arrogante" e tende a qualificarsi come "superiore", mentre gli americani sono assolutamente capaci di condividere la loro non-cultura con tutto il mondo. Abbiamo discusso a proposito di comunicazioni e trasporti, di economia e cultura; non abbiamo parlato degli aspetti legati alla sfera politica, miltare e della cittadinanza.

Politicamente non esiste un governo democratico mondiale. Esiste un’entità che si chiama "comunità internazionale", international community. Io conosco un po’ questa "comunità internazionale" e credo sia composta ad occhio e croce da circa sei o sette persone. Sembra piuttosto ridotta come comunità internazionale! I nomi non sono così importanti, ma non si può non convenire sul fatto che questa sia una ristretta lobby, una mafia senza nessun controllo democratico. Facciamo un esperimento mentale: immaginiamo che alle Nazioni Unite non ci siano solamente l’Assemblea generale ed il Consiglio di Sicurezza, ma anche un’assemblea popolare delle Nazioni Unite. Immaginiamo che ogni stato membro delle Nazioni Unite abbia una elezione ogni quattro anni e diritto ad un numero di rappresentanti pari al numero dei milioni di abitanti. Cioè duecentosessanta americani, quattro norvegesi (assolutamente troppo poco, per me che sono norvegese), sessanta italiani (non vi pare un numero un po’ esagerato! [risate]). Il problema per costituire maggioranze deriva dal fatto che in un’assemblea così composta dovrebbero sedere 1200 cinesi. A questo punto gli occidentali, se intendono egemonizzare il mondo, devono elaborare un meccanismo diverso. Alcuni hanno detto che si può sperimentare con la radice quadrata: così restano due norvegesi, sette, otto italiani, il che mi appare accettabile... (altre risate...), 16 americani e 37 cinesi. La condizione per partecipare a questa assemblea è che i rappresentanti vengano eletti democraticamente. Elezioni corrette a seguito di un dibattito politico generale. E che questo non sia combinato con le elezioni nazionali. L’Unione Europea si propone proprio questo obiettivo. Io non sono un vero e proprio ammiratore dell’Unione, ma questo obbiettivo lo stanno perseguendo correttamente. Se è possibile avere le elezioni in India, allora dovrebbe essere possibile averle nel Mondo. Allora ci si può immaginare un Parlamento come una struttura delle Nazioni Unite per avere un certo tipo di controllo popolare su tale comunità internazionale. Ma questo manca. E’ un deficit totale nella struttura politica mondiale. E questo deficit naturalmente ha a che vedere con la posizione degli USA in tutto questo sistema. Oggi gli Usa hanno un enorme debito con le Nazioni Unite… Se tu non paghi la quota del club, te ne devi andare. Io credo che la soluzione per le Nazioni Unite in generale sia che gli USA ne escano e che vi rientrino quando saranno più pronti. Naturalmente questa è un’idea irrealizzabile oggi, ma sono quasi convinto che entro dieci anni gli USA non saranno più membri delle Nazioni Unite.

Gli Stati Uniti stanno cercando di monopolizzare tutto il potere delle Nazioni Unite, hanno un progetto molto importante che credo di aver intuito. Consiste nell’eliminare completamente organismi quali UNESCO, FAO, ILO e fare di tutto questo un’organizzazione specializzata della Banca Mondiale. Forse voi non conoscete tre dei progetti principali del Congresso degli USA:

1. La cancellazione del progetto che vuole le Nazioni Unite allargate del 40, 50%. Ma questo è totalmente impossibile. Questo significa una riduzione del lavoro che stanno facendo, e stanno facendo molto lavoro di buona qualità. Moltissimi degli argomenti contro gli USA sono corretti: c’è corruzione, nepotismo, tutto questo esiste.

2. Trasferire la contabilità degli USA dalla sede delle Nazioni Unite a quella di Washington al General Accounting Office del Governo USA.

3. Il giuramento di lealtà degli alti ufficiali delle Nazioni Unite alla costituzione americana. Questo ultimo è un progetto estremo. Definisce in pratica le Nazioni Unite come un organo degli USA. Questo è un processo che non ha nulla a che fare con il global government.

Passiamo al sistema militare: perché il Giappone ha potuto vincere in Cina nel 1894? Forse questo non è il problema più importante per tutti voi, ma la risposta è relativamente semplice. Nel 1894 le forze militari del Giappone erano unificate a livello nazionale ed hanno dato vita ad una forza militare. La Cina purtroppo no. C’erano molti signori della guerra con eserciti privati e non unificati. E i giapponesi naturalmente hanno potuto fare commercio per signori della guerra contro altri signori della guerra. Questo è ciò che avviene anche a livello mondiale, ma la soluzione di questo non è naturalmente la unificazione degli eserciti del mondo. Questo porterebbe ad una forza di polizia mondiale grottesca che definirebbe ogni atto politico come atto sovversivo. Gli USA stanno pensando in questa direzione. E l’esempio della NATO è quello tipico. Gli americani stanno egemonizzando il Giappone attraverso l’estensione dell’ANPO verso l’oriente e l’espansione della Nato in occidente. Parallelamente ad enti sovranazionali quali Anpo e NATO osserviamo l’emergere (o il riemergere) di due potenze "relativamente grandi" che si chiamano Russia e Cina. E’ peraltro chiaro che si stia realizzando una alleanza militare Cina-Russia, esattamente come predissi due anni fa. Sussiste inoltre la non remota possibilità di un’alleanza con i maggiori paesi musulmani. L’ex-Unione Sovietica avverte una minaccia lungo il confine con la NATO, che coincide ancora con il confine esistente nel 1054, che definiva gli ortodossi come eretici, così come i musulmani. Gli americani non capiscono assolutamente niente della storia europea ed i governi degli stati europei si dimostrano ancora troppo servili.

Il Cremlino ha fatto una lista di tutti i paesi maltrattati dagli USA e li ha invitati a Mosca. Io credo che questo sia uno scenario molto pericoloso per il mondo del XXI secolo.

Veniamo al concetto di cittadinanza mondiale; non esiste questa global citizenship anche se la si può sempre sognare. Io per esempio, in questo paper che Nanni distribuirà e che arriva da una conferenza da me tenuta a Taipei, ho sostenuto che uno può sognare una sorta di stipendio minimo per tutti i cittadini del mondo, siamo sufficientemente ricchi per farlo. Questo è molto chiaro e naturalmente comporta un’autentica redistribuzione, non necessariamente in denaro, ma più verosimilmente in merci, possibilmente di produzione locale. Assolutamente centrale quindi, naturalmente, la produzione alimentare, la nutrizione.

Sono tornato da poco dalla Corea del Sud, dove ho riscontrato una cosa interessante; durante la guerra fredda, per un ricercatore di pace, avere accesso agli editi era quasi impossibile. Il problema "Stai con noi o contro di noi" era ancora molto sentito. Oggigiorno questo non è più un problema. Il problema è "tu sai qualche cosa e viceversa? Allora apriamo una discussione, un dialogo". Politici coreani di alto profilo mi hanno chiesto: "Johan, perché abbiamo questa crisi economica?" ed io ho risposto: "si tratta di sovrapproduzione, e la soluzione non è la soluzione della Banca Mondiale o del FMI. Il FMI è un medico con una sola medicina. Quando tu hai un malato in famiglia, viene un medico, e quando il medico è nella stanza con l’ammalato , è sempre buona norma fare un’ispezione del suo bagaglio. E se tu trovi una sola medicina preordinata allora forse è il caso di mandarlo a casa".

Credo che una differenziazione diagnostica e una differenziazione nella terapia sia una buona idea. Cosa è successo in Corea del Sud?

Si è andati incontro ad una crisi di sovrapproduzione, i prodotti non erano più richiesti dall’occidente. Il FMI, fin dall’inizio, ha affermato che ciò era dovuto a un eccessivo controllo statale e che gli operai costavano troppo. Si suggerì di togliere le aziende dal controllo statale creando una maggiore flessibiltà del lavoro. Questo tipo di flessibilità ha comportato nell’arco di due o tre mesi la creazione di 1,3 milioni di disoccupati. Cosa hanno fatto questi disoccupati in uno stato divenuto povero? Sono tornati nei campi allo scopo di trovare un equo sostentamento per la propria famiglia, ma la campagna non ha offerto loro la possibilità di vivere, perché negli anni precedenti gli economisti di stato avevano sostenuto che la Corea del Sud non aveva bisogno di agricoltura, bensì di componenti elettronici ed automobili da esportare; con i redditi ottenuti si sarebbero comprati i prodotti alimentari dai paesi poveri. Questo fenomeno è denominato "divisione internazionale del lavoro" e si fonda sulla cosiddetta "analisi costi-benefici", dottrina secondo me fascista.

Cosa è successo in Corea? L’immediata svalutazione del Won del 40% con un grave rincaro dei prodotti alimentari e una massa di disoccupati.

Cosa ho suggerito? Una delle priorità essenziali secondo me consiste nel garantire la produzione agricola essenziale e stimolare la pesca attraverso il fish farming lungo tutta la costa della Corea. L’altra, fondamentale, è una cooperazione con la Corea del Nord attraverso un confronto sui problemi finalizzato a trovare soluzioni utili per entrambe le parti, secondo una filosofia "il tuo problema del nord è che tu hai avuto troppo poco commercio. Noi invece abbiamo avuto troppo commercio…cerchiamo di trovare un compromesso".

La cittadinanza mondiale per me è uno scopo interessante a patto che vengano assicurati a tutti i diritti umani come legge internazionale, con la garanzia di un minimo di diritti per tutti, e se tutti coloro i quali predicano la globalizzazione eliminano anche i conflitti, la cittadinanza e i global human rigths è una conseguenza di questo. Questa potrebbe essere una conseguenza positiva. E vi sono migliaia di funzionari dell’ONU che sono impegnati per realizzare questo, la loro attività e ancora sconosciuta.

Allora, per concludere: non credo sia possibile avere una posizione molto chiara pro o contro la globalizzazione. E’ un fenomeno umano, ying e yiang, vi sono lati positivi e negativi, ma quando si è in presenza di un fenomeno tanto grande, gli effetti positivi e negativi sono amplificati. Penso sia utile, per concludere, dare un’elenco di suggerimenti di azioni politiche essenziali da perseguire.

 

1. la linea di difesa contro gli effetti negativi della globalizzazione è la comunità locale. Non è lo stato, lo stato è capitolato. La capitolazione dello stato si chiama World Trade Organization.… Naturalmente questo fenomeno non è totalmente irreversibile, credo comunque che la migliore politica consista nel rafforzamento della comunità locale e soprattutto della produzione agricola. E’ forse il miglior consiglio per un giovane studente universitario: se cerchi un posto come professore di ruolo tu stai cercando un fantasma. Al massimo puoi trovare un lavoro a contratto. Compra con alcuni altri studenti un terreno per coltivare patate, questa è una buona idea. E prepara un piano di studi sempre con un occhio di riguardo all’agricoltura. Sarebbe meglio combinare le facoltà tradizionali con un elemento di agricoltura e di energia alternativa. La comunità locale, la produzione locale, la moneta locale. La moneta locale si pratica a livello mondiale in più di 300 stati. L’idea è più o meno questa: di avere per esempio in Torino una moneta che si chiama un Torino, e un Torino vale per esempio, diciamo 1000 lire. Ma se compri una cosa in una negozio di Torino con un Torino, tu hai il 10% di sconto. Questo Torino non è accettabile né a Bergamo , né a Milano, né ad Alessandria, perché lì hanno un Milano, un Bergamo, ecc. Lo scopo di ciò è naturalmente limitare i cicli economici e combinare la globalizzazione con la localizzazione.

2. Combinare il fattore della comunicazione con i movimenti dei consumatori. Ho detto che Marx non ha capito che i capitalisti possono fare a meno degli operai, ma ciò che è certo è che essi non possano fare a meno dei consumatori. Sono indispensabili i consumatori, non lo sono gli operai. Questa tesi secondo la quale i consumatori sono indispensabili non è totalmente certa, perché spesso i produttori operano nell’economia finanziaria ed è più facile trovarli al New York Stock Exchange che nella propria azienda. Emerge dunque un punto debole dell’economia capitalista. In generale essa lavora con un margine di beneficio relativamente limitato, raramente superiore al 2-3% (naturalmente vi sono le eccezioni con un beneficio del 60-200%: droga, armi, nonché donne e bambini, intesi come schiavi della prostituzione...). Non è dunque necessario mobilitare un numero elevato di consumatori: il due o il tre per cento è sufficiente. E’ quindi molto facile organizzare una protesta. La posizione di questo tipo di mercato è vulnerabile e questa vulnerabilità si può sfruttare.

3. Lavorare per la democrazia globale. Un metodo per lavorare per la democrazia globale consiste nell’organizzare un referendum globale utilizzando internet attraverso Public Opinion Polls ecc. Pensate che una persona sola, Oscar Alias, ha potuto eliminare l’esercito d’occupazione da Haiti con questo tipo di sondaggio d’opinione. Ha trovato negli USA i fondi. Per realizzare un sondaggio con una sola domanda: "Desideri o non desideri l’eliminazione dell’esercito da Haiti?" L’86% della popolazione ha detto di sì, e l’esercito è stato eliminato. Bisognerebbe indire il referendum globale sul gradimento della presenza di basi militari di altri paesi nel territorio. Io sono convinto che ci sarebbero forti maggioranze contrarie.

Un altro aspetto importante che bisognerebbe analizzare più compiutamente rivela un altro punto di vulnerabilità del sistema: abbiamo un élite che appoggia la democrazia; per essa è difficile agire contro una maggioranza, al fine di non perdere voti, quote di mercato, clientele. Su tale élite si può esercitare un controllo democratico dal basso, da semplici consumatori che esercitano il loro potere di scelta.

Ho concluso tracciando un quadro grigio della situazione economica, ma dal punto di vista della comunicazione, sono da interpretarsi positivamente i segnali di una rinnovata cultura pacifista e nonviolenta e di una cittadinanza umana basata sul rispetto dei diritti fondamentali.

Questo tipo di asimmetria e questo tipo di contraddizione è, a mio parere, assai affascinante. Quindi, dove si colloca la globalizzazione fra mito e realtà?

E’ senza dubbio una miscela di mito e realtà.


LA GLOBALIZZAZIONE E LE SUE CONSEGUENZE*


Istituto di sociologia, Accademia Sinica, Taipei, 18 febbraio 1997

Johan Galtung
Professore di Studi di Pace;
Universitat Witten / Herdecke, European Peace University, Universitetet i Tromso;
Direttore, TRASCEND: a peace network.

 
 

1. Globalizzazione, processo di costruzione dello Stato e regionalizzazione.

 

"Globalizzazione" significa molte cose per molte persone diverse. Il significato che ne daremo qui è: un processo che condurrà alla creazione di un mondo con un unico stato, e un’umanità con una sola nazionalità. Erroneamente, può essere paragonato al processo che viene indicato con l’accezione di "creazione di una nazione" (nation-building), mentre più propriamente ci si dovrebbe riferire al processo di "costruzione dello Stato" (state-building). Quest’ultimo processo consiste nel far venir meno i confini tra le più piccole entità politiche, derivanti dal "Medio evo" (in Europa e altrove), trasformandole in paesi centrati su un’ organizzazione statale.

 

Possono essere identificate sei dimensioni cruciali in questo processo:

  1. Comunicazioni/Trasporti: illimitata mobilità delle persone, da un punto di vista simbolico e fisico, all’interno del paese;
  2. Economia: illimitata mobilità di prodotti e fattori di produzione, il paese si trasforma in un unico mercato;
  3. Cultura: illimitata mobilità di idee all’interno del paese, con la condivisione dei miti internalizzati sulla gloria e sui traumi;
  4. Politica: direzione politica centralizzata nello stato;
  5. Organizzazione Militare: potere militare controllato dallo stato;
  6. Cittadinanza: diritti, doveri e partecipazione nello stato.

Il processo è segnato e ostacolato da resistenze economiche (self-reliance locale), culturali (nazionalismi locali), politiche (centri di potere locale), militari ("signori della guerra" locali). Siamo ancora nel mezzo o all’inizio di questo processo, con l’umanità divisa in 200 paesi e 2000 nazioni, il che significa una media di 10 nazioni che hanno un paese come casa o come prigione (Lenin). Nel mondo siamo tutti minoranze.

 

La globalizzazione, in linea di principio, dovrebbe fare la stessa cosa nei confronti dei paesi (rompendo i confini, costruendo istituzioni globali e una cittadinanza globale), come essi fecero rispetto a quelle parti di cui sono costituiti, come i principati, i ducati e le contee. Un giro nella spirale.

Tuttavia, si dovrebbe osservare che la costruzione degli stati nazionali e la globalizzazione non sono gli unici processi in gioco. C’è anche un terzo processo in corso: la regionalizzazione, cioè la costruzione di super-stati e super-nazioni (queste ultime note anche come civilizzazioni).

L’esempio più noto, tuttora in corso, è l’Unione Europea (UE), un super-stato in formazione, e la corrispondente super-nazione è l’Europa Cattolico-Protestante/Latino-Germanica, che esclude le altre due parti dell’Europa, l’Ortodossa-Slava e la Mussulmano-Turca. Queste ultime potranno, a loro volta, dare gradualmente vita a nuove regioni, in larga misure dialetticamente collegate con il processo dell’UE.

Un altro esempio potrebbe essere quello di una Comunità dell’Asia dell’Est basata sull’identità Buddhista/Confuciana-Cinese: tra Cina-Giappone-Corea-Viet Nam, che forse inizia con la creazione di un Mercato Comune dell’Asia dell’Est. In questo tipo di unione, è cruciale l’esistenza di un livello minimo di empatia, che fluisce mediante l’identità culturale, e l’assenza di grossi conflitti, il che significa che le regioni non possono essere costruite come superstati/nazioni prima che i paesi membri siano diventati sufficientemente uniti o che si siano meglio adattati l’un l’altro dentro la regione piuttosto che fuori. L’ASEAN potrebbe assolvere a questa funzione, così come la globalizzazione potrebbe farlo per le regioni.

Quindi, non c’è una successione temporale semplice e lineare in questi processi.

Sono tre strade (globalizzazione, costruzione dello stato e regionalizzazione) per il mondo come sistema politico, e il mondo può seguirle tutte e tre: un processo che procederà più velocemente in un luogo, meno in un altro e così via. Ma abbiamo a che fare con un fenomeno di lungo periodo: la costruzione dello stato, da sola, sta andando avanti da almeno mezzo millennio, e non se ne intravede la fine.

 
 
 

2. GLOBALIZZAZIONE:
FATTORI TRAINANTI E FATTORI STAGNANTI

 

Concentrandoci sulla globalizzazione dei sei fattori menzionati, quali sono quelli trainanti e quali quelli stagnanti? I processi sociali solo raramente sono perfettamente coordinati; e se lo sono, perché pianificati, allora il livello di autorità centrale necessario creerebbe almeno un fattore stagnante: la partecipazione dei cittadini.

Alcuni fattori sono più flessibili e non solo fungono da guida, ma fanno compiere dei salti in avanti, mentre altri, più rigidi sin quasi all’inerzia, rimangono indietro. Questo ci dà uno strumento analitico: nella contraddizione tra il processo e la permanenza qualcosa dovrà cedere, il processo si ferma bruscamente oppure la permanenza comincia lentamente a modificarsi e a muoversi, o a rompersi: una rottura. Oppure la strategia del bambù: piegarsi senza rompersi e recuperare.

Per il processo di globalizzazione ci sono pochi dubbi che il Numero 1, come fattore trainante, è la comunicazione (e i trasporti), dalla nascita dell’International Postal Union (IPU, Unione Postale Internazionale) sino ai giorni nostri mediante la telecomunicazione, con la CNN e i 40 milioni di cittadini della Rete (Netizens) che oggi si incontrano nel cyberspazio (un insieme di inter-connessioni globali città-case). La qualità umana della relazione può anche essere di basso livello, ma c’è una interazione, in tempo reale, che rende irrilevanti i confini e le distanze terrestri. I trasporti seguono con un certo ritardo, poiché per muovere una massa fisica occorre molto più tempo che per le onde elettromagnetiche. Gli esseri umani hanno imitato il fattore più globalizzato che ci sia: la natura stessa. Onde e particelle nella cosmosfera, vento nell’atmosfera e correnti nell’idrosfera non rispettano i confini, come si può vedere nelle mappe meteorologiche trasmesse dalla TV; la stessa cosa succede con gli uccelli migratori e i pesci, con alcuni animali e i microrganismi patogeni. La globalizzazione può, quindi, essere anche interpretata come un ritorno al normale/naturale, eliminando i confini artificiali costruiti dall’uomo.

Avendo assegnato questo primato, come fattori guida, alla comunicazione e ai trasporti, il Numero 2 è l’economia di mercato, proprio perché è basata sulla comunicazione del capitale, della tecnologia, delle decisioni manageriali e di alcuni servizi; e sul trasporto di materie prime, lavoro, manager e alcuni servizi. La novità non consiste nella mobilità di materie prime e beni finali per mezzo del trasporto, meglio nota come commercio, che è stato globalizzato da tempo (diciamo, da Colombo-Vasco da Gama-Magellano). La vera novità è la mobilità di tutti gli altri fattori di produzione e dei servizi. Il lavoro è diventato mobile, nella forma della schiavitù, nello stesso periodo della nascita del commercio mondiale; ma nella forma di lavoro libero, avente diritto a una remunerazione almeno sufficiente alla riproduzione, esso ha una mobilità molto inferiore alle potenzialità offerte dai trasporti; in pratica è mobile solo all’interno dei confini degli stati nazionali e dei super-stati. Anche la mobilità del management, nella misura conosciuta oggigiorno, presupponeva un addestramento a stili di vita multiculturali, o a stili di vita monoculturali globalizzati; con il "servizio nelle colonie" come momento precursore.

Di conseguenza, ciò che può muoversi tra le varie società multinazionali non sono solo i fattori di produzione e i prodotti, bensì l’intera impresa, in tutte le sue parti, baracca e burattini. Di nuovo, non è qualcosa di così nuovo come potrebbe sembrare: l’economia delle piantagioni nelle colonie era basata su un livello di mobilità simile. Come è successo a quei tempi, una buona ipotesi è che esse si muovano da costi del lavoro più alti a costi del lavoro più bassi, da sistemi di tassazione delle imprese più onerosi a quelli meno onerosi e da costi di trasporto delle materie prime e dei prodotti finali più elevati a costi più bassi. Il risultato è sostanzialmente lo stesso, tanto in un’economia di mercato capitalista quanto in un’economia più sociale: il mondo oggi è sempre più un unico mercato con gli stessi beni e servizi disponibili per tutti coloro che possono permetterseli a prescindere dalla localizzazione.

 

Osservando ancora il fatto cruciale che la mobilità del lavoro segue con molto ritardo, ci spostiamo alla dimensione Numero 3: la cultura. Ovviamente un numero crescente di idee e simboli di ogni genere possono essere comunicati istantaneamente, e gli ultimi confini innalzati da quei paesi con un potere centrale dello stato che intende controllare gli input culturali dei loro cittadini sembrano crollare. Stiamo parlando di qualcosa di più della semplice "libera circolazione delle idee", per quanto importante; ci riferiamo all’internazionalizzazione delle idee, non intese come qualcosa di astratto che galleggi, ma come idee che vengono recepite da esseri umani concreti, che costruiscono la loro identità attraverso processi di interiorizzazione. Più in particolare parliamo di idee condivise relative alle vittorie e alle sofferenze e, ancor più in profondità, relative ai luoghi sacri nello spazio e nel tempo. Nel rivendicare una terra come patria, in quanto ha un carattere sacro, da celebrarsi a intervalli regolari o irregolari, i popoli sviluppano forme di localismo, nazionalismo, regionalismo e globalismo, a seconda di dove realmente si sentono a casa, dove possono muoversi liberamente senza perdere l’orientamento.

Questo processo richiede tempo, e un’identità può scontrarsi con un’altra, anche se in linea di principio sono possibili delle identità concentriche. Persone che hanno lottato per costruire un’identità nazionale sulle rovine di comunità locali distrutte, improvvisamente si trovano di fronte alla necessità di sviluppare su di esse identità sia regionali sia globali. Il risultato è l’anomia, l’assenza di norme condivise (nell’accezione di Durkeim-Merton), dovute, se non altro, semplicemente alla conflittualità delle norme e alla confusione generale. Ma non c’è dubbio che si verifica uno spostamento generale del punto focale di identificazione dalla tradizione locale, attraverso la cultura nazionale, a una civilizzazione regionale, e con l’emergere di alcuni elementi di identificazione globale con l’umanità.

 

A questo punto sorge una differenza significativa tra le civilizzazioni mondiali: solo l’Occidente è chiaramente universalizzante e per questa ragione più pronto a far propria la cultura globalizzante e a influenzarla. Questo vale per le differenti religioni dell’Occidente, per le due religioni missionarie del Cristianesimo e dell’Islam, così come per le versioni laiche, anch’esse missionarie, del liberalismo e del marxismo. Poiché l’Ovest all’interno dell’Occidente è in grado di camminare su due gambe, una religiosa e una laica, esso si inserisce nel processo con un enorme vantaggio.

La visione del mondo del pensiero cinese classico, lo zhong guo, il Regno di Mezzo circondato da quattro tipi di Barbari, Nord (di), Est (yi), Sud (man) e ovest (rong) non è altrettanto adatta. Essa esclude troppo. Certamente, l’Ovest vede ancora sé stesso come il centro del mondo e il resto come una periferia, da convertire e cambiare, e gran parte di ciò che viene fatto passare come globalizzazione non è altro che occidentalizzazione. Tuttavia, questo non sta avvenendo senza contrasti, e il punto è che l’Ovest può essere mentalmente meglio preparato anche per questa sfida.

L’Ovest quindi si impone con l’inglese come lingua mondiale e l’individualismo materialistico come religione mondiale. L’inglese fu inizialmente diffuso in tutto il mondo dall’impero britannico, come la lingua di Chaucer, Sheakspeare e Bunyan e oggi si è trasformato nel dialetto americano nella lingua delle 3M: Mickey Mouse, Michael Jackson e Madonna. La cultura diffusa è popolare, volgare e plebea, ma di notevole successo e per nulla esclusiva, tranne per coloro che hanno una buona cultura, che intendono mantenere. Di conseguenza molte elites culturali possono trovarsi emarginate nei paesi e nelle regioni di appartenenza per la loro incapacità o per il loro rifiuto di unirsi alla cultura globale pop.

 

Ma dov’è l’evento costitutivo da celebrare, al quale fare appello, per la nazione umana mondiale? C’è l’Atto stesso della Creazione. Potremmo lasciare a ogni civilizzazione la possibilità di contribuire con la propria interpretazione (la "cosmologia" scientifica del Big Bang; Adamo, Eva e il Paradiso terrestre; le complesse visioni giapponesi delle Divinità del Sole; Amaterasu omikami come una causa e il Giappone come una conseguenza), e celebrarle tutte quante. Un’altra possibilità sarebbe quella di farle dialogare, per arrivare a elaborare versioni più ricche e "universali".

Un altro modo ancora sarebbe quello di celebrare il fatto che "noi" , come homo sapiens, come vita stessa, semplicemente esistiamo? Oppure celebrare il Pianeta Terra, la Madre Gaia, o l’intero universo, anche se le date precise della nascita di questi giganteschi oggetti sono difficili da stabilire.

C’è moltissimo da celebrare. Quindi, credenti nell’umanità unitevi, avete solo i vostri guerrieri e le loro battaglie da perdere!

Tuttavia, a livello più mondano (nel senso letterale del termine) ci sono molte altre possibilità, cinque delle quali sono ancora en vigeur:

Il giorno delle Nazioni Unite appartiene alla vecchia tradizione, quella degli eredi aristocratici che lavorano per costruire le istituzioni. Il giorno ha lo stesso significato dell’istituzione. Ma questo vale anche per i giorni nazionali, che celebrano più il sogno che la realtà. Il giorno in onore delle donne e del lavoro potrebbe essere visto da alcuni come un fattore di divisione piuttosto che di unione; ma questo dipende anche da come lo si celebra. Abbiamo bisogno di un numero maggiore di queste giornate. La maggior parte dei paesi hanno solo un giorno nazionale, che celebra l’evento costitutivo; che forse si può interpretare come manifestazione di una qualche forma di monoteismo. Perché non fare più di una celebrazione?

 
 

3. ALCUNE CONSEGUENZE DELLA GLOBALIZZAZIONE DELL’ECONOMIA

 

Ci saranno forse degli effetti di livellamento tra i paesi, ma non tra le persone. Dato che le imprese spostano sempre più le loro produzioni verso quei paesi che offrono salari più bassi e tasse più basse, ci saranno più lavori per alcune persone e più introiti fiscali per alcuni paesi. Ma anche in questi paesi la crescente produttività del lavoro avrà lo stesso impatto con conseguenze che, probabilmente, avranno un effetto molto più negativo del guadagno in termini di occupazione dovuto al trasferimento della produzione. Per quanto riguarda l’aumento degli introiti fiscali (modesto, poiché gli accordi prevedono che l’esenzione delle tasse venga concessa per un buon numero di anni), esso può essere speso in forme di potere coercitivo, polizia ed esercito, per reprimere le "agitazioni" di coloro che chiedono lavori meglio retribuiti o semplicemente un lavoro.

La novità risiede nel fatto che questo fenomeno si estenderà sempre più anche ai paesi ricchi. Dati statistici ufficiali della disoccupazione con valori ben al di sopra del 10% (quelli reali sono naturalmente molto più alti) sembrano resistere a qualsiasi politica economica (tranne nel caso in cui si toccasse l’intoccabile, la vacca sacra, l’alta produttività). Altrimenti, molto probabilmente aumenteranno e porteranno a nuovi livelli di "agitazioni" provocando una seria minaccia alle strutture democratiche.

Con meno introiti fiscali, in seguito alla fuga delle imprese, o alla riduzione delle tasse (o a entrambe le cose), i governi non saranno più in grado di garantire i bisogni fondamentali nel campo dell’istruzione (finora gratuita), della salute (fortemente sovvenzionata) o in generale per quanto riguarda i sussidi di disoccupazione per i disoccupati e le pensioni per i pensionati. Tutti e quattro i servizi saranno offerti a un livello più basso, alcuni potrebbero sparire, le scelte saranno dure, le proteste considerevoli.

E’ interessante notare che questo fenomeno crea le condizioni oggettive per una alleanza globale tra i disoccupati, gli occupati in genere e i consumatori: se molte altre cose si globalizzano, anch’essi si globalizzeranno.

 

Si deve osservare che la tendenza alla globalizzazione, come è stata descritta in questa analisi, coincide, nella storia dell’uomo, con almeno altri due grandi trend nell’economia mondiale: la modernizzazione degli attori economici non occidentali, ovvero la sempre crescente competitività e la sempre crescente produttività del lavoro. Con un limite superiore alla produzione vendibile, a causa della competizione, e con una produttività del lavoro crescente, a causa della informatizzazione e dell’ingegneria sociale, alcuni altri fattori dovranno diminuire:

  1. il numero di lavoratori: il che si traduce in disoccupazione crescente;
  2. il numero delle ore lavorate: il che significa lavori a contratto.
Questo ha come conseguenza importante il fatto che un aspetto piuttosto consolidato nella condizione umana, e cioè un lavoro permanente (che dura per tutta la vita lavorativa e garantisce una remunerazione sufficiente per mantenere una famiglia e alcune sicurezze sociali a un livello di vita più o meno elevato), è una realtà che dobbiamo scordarci. Ci troveremo invece in una società x : y : z con un x% di persone che avranno ancora il privilegio della certezza di un posto fisso, un y% che lavora a contratto con un alto livello di incertezza e uno z% che ha la certezza di una disoccupazione che diventa sempre più permanente.

Trasferendo questa idea all’intera comunità mondiale di tutti i paesi, avremo un X% di paesi che detengono una posizione permanente nelle interazioni globali, nel senso di contribuire con qualcosa di insostituibile (compreso il potere di acquisto), come la Norvegia per il pesce e il petrolio, unY% che ha contratti occasionali e uno Z% che si può sacrificare, nel senso che una sua scomparsa non sarebbe avvertita dal sistema mondiale. La domanda chiave diventa: come sarà la vita di quello z% di persone più povere che vivono nello Z% dei paesi più poveri? Risposta: insopportabile; forse un miliardo di persone che, nel 2030, si sposterà alla ricerca di un livello minimo di vita, là dove spera di trovarlo.

 
 

4. Stratificazione nella società mondiale

 

Il mondo sta quindi diventando sempre più simile ad una società, così come la conosciamo: con un’eccellente sistema di comunicazione/trasporti, con un mercato mondiale che produce in modo crescente gli stessi beni e servizi (compresi quelli dannosi come le armi e la droga, e alcuni disservizi come l’inquinamento e i mercenari) disponibili ovunque e mobilità di ogni fattore tranne il lavoro, con nicchie e strati di persone globalizzate, regionalizzate, "nazionalizzate" e localizzate a seconda di come esse si mettono in relazione con il tempo e lo spazio, e con le strutture di governo globali molto arretrate, ancora essenzialmente preoccupate dei singoli paesi/stati e di entità minori, con qualche sforzo nella direzione regionale.

Con questa situazione, quali ipotesi potremmo fare sulla stratificazione della società mondiale emergente? L’ipotesi è la seguente: i primi arrivati avranno il primo posto a tavola, e così via. Il che significa:

  1. I "magnati" della comunicazione, i "magnati" dei media, i baroni del software, le persone della telematica e tutti gli altri che creano spazi di realtà virtuale. I trasporti seguono con molto ritardo, perchè meno importanti.
  2. I manager del mercato, delle principali multinazionali, ma più ancora coloro che gestiscono la finanza piuttosto che l’economia reale; e per quest’ultima soprattutto l’economia reale dei media, dei software e della telematica;
  3. I "pandit" intellettuali, coloro che sono capaci di introdurre nuovi discorsi ed agende attraverso la creazione di una realtà simbolica;
  4. I leader politici, comprese le grandi potenze, il Segretario Generale delle Nazioni Unite, ecc.; ancora per qualche tempo al centro dell’attenzione dei media;
  5. I militari, che presto verranno visti soprattutto come coloro che scacciano i nemici al di là dei confini, e come problemi più che come soluzioni;
  6. La gente, la gente comune, intesa come coloro che non rientrano nelle categorie precedenti;
  7. I fuori-casta, coloro che cercano di capovolgere questo ordine.
Questo ordine differisce dalla classica stratificazione Indo-Europea del tipo brahmino-kshatriyah-vaishyah-shudrah-pariah (clero-militari-mercanti-lavoratori-fuoricasta), introducendo alcune novità, come la comunicazione, e ponendo i Kshatriyah (militari/politici) dopo i vaishyah. Anche se la forza militare di una superpotenza come gli USA ha una portata globale, coloro che comandano l’economia hanno una portata ancora più globale, più veloce e raggiungono gli angoli più piccoli del mondo con qualche negozietto, per non parlare di coloro che comandano la comunicazione istantanea.

Quest’ordine differisce anche da quello dell’Asia orientale del shih-nung-kung-shang (intellettuali/burocrati-contadini-artigiani-mercanti) introducendo la nuova élite del potere della comunicazione, e ponendo i mercanti shang molto più in alto, anche prima dei shih. Ma la Cina, a differenza dell’Indo-Europa e del Giappone, è simile al nuovo ordine della stratificazione, nel porre i militari al fondo della gerarchia. Ci sono quindi delle somiglianze, ma è una realtà sui generis.

Il punto principale in questa stratificazione sociale è che i detentori del potere dei paesi, nella struttura classica tradizionale, rischiano di rimanere in disparte riducendosi al ruolo di signorotti locali, come gli ultimi aristocratici che governavano alcuni castelli nei paesi europei (e in qualche misura anche in India e in Giappone), quando si impose il sistema degli stati. L’attuale presidente di un paese verrà visto in futuro come il sindaco di una città, piccola o grande, importante localmente ma solo a quel livello, eclissato da magnati, manager e "pandit". Per chi abbia qualche dubbio che una rilettura della storia europea possa essere interessante: il signorotto di un castello posto su una collina vedeva il suo potere come se fosse eterno, ma fu scalzato da coloro che stavano costruendo il nuovo sistema degli stati. Solo unendosi tra loro come capi degli eserciti, delle missioni all’estero e delle imprese ecc., essi poterono rimanere sulla cima di qualcosa di più che una collina.

 
 

5. Cosa dire a proposito della cittadinanza globale?

 

La cosa più semplice è pensare alla cittadinanza globale allo stesso modo con cui pensiamo alla cittadinanza in generale: come un contratto sociale codificato che definisce la relazione tra chi governa e chi è governato, questi ultimi essendo cittadini, non semplici soggetti. I governanti hanno quattro strumenti per esercitare il potere:

  1. potere politico/decisionale: devi farlo perché così è stato stabilito;
  2. potere militare/coercitivo/del bastone: devi farlo altrimenti ne subirai le conseguenze;
  3. potere economico/contrattuale/della carota: devi farlo e ne avrai qualcosa in cambio;
  4. potere culturale/normativo: devi farlo perché sai che è giusto.
Queste forme di potere possono funzionare /i governati obbediranno/ se essi saranno sottomessi, impauriti, dipendenti o di debole identità. Se invece sono autonomi, senza paura, indipendenti e muniti di forte personalità il potere dall’alto non avrà alcuna presa. D’altra parte, questo è probabilmente il tipo di cittadino di cui qualsiasi sistema politico ha bisogno, sia esso locale, nazionale, regionale o globale. Alcuni governanti preferirebbero il 100% di cittadini del primo tipo, quelli "governabili". In tal caso potrebbero facilmente promuovere il progetto democratico, governare con il libero consenso dei governati apertamente espresso, in quanto essi non avrebbero nulla da esprimere. Di conseguenza, il processo di costruzione di uno stato-nazione tende ad essere un esercizio di tipo militare/economico/culturale, volto a incutere paura e a distruggere l’indipendenza e l’identità. Costruire un super-stato regionale (Unione Europea) o globale potrebbe non essere diverso. Ma creare qualcosa di meno coesivo, un sistema associativo o una confederazione, può essere compatibile con un’alta percentuale di autonomia individuale/locale/nazionale/regionale, e con coraggio, indipendenza e identità. La storia europea da sola, con mostruosità commesse nel nome del processo di costruzione dello stato, dovrebbe servire come ammonimento per non applicare lo stesso modello su scala mondiale, dove le differenze antagonistiche sono ancor più numerose.

Ci troviamo quindi di fronte a un dilemma: la cittadinanza globale può essere ottenuta, anche prodotta, a un prezzo che potremmo non essere disposti a pagare. Qualsiasi guerra in un mondo con un governo centrale sarebbe una guerra civile, poiché aggiunge alla deumanizzazione lungo i gradienti Sé-Altro la lotta sul concetto del Sé di cui tutti quanti fanno parte.

Di conseguenza, la risposta che qui viene data è in favore di una cittadinanza globale dolce, contrapposta alla visione più dura. In concreto, questo significa una cittadinanza globale con una buona dose di autonomia locale, coraggio, indipendenza e identità. Allora, cosa c’è di nuovo? Come si dovrebbe porre un cittadino globale nei confronti di un’autorità centrale mondiale?

Proviamo a fare alcune ipotesi, usando quattro tipi di potere:

  1. un cittadino globale avrebbe ragione di aspettarsi che la sua opinione sia importante e abbia un impatto su come viene governata la società mondiale;
  2. un cittadino globale avrebbe modo di sentirsi protetto contro le principali forme di violenza, nel triplice senso che verrà fatto tutto il possibile per trasformare i conflitti prima che esplodano violentemente, per contenere la violenza nel caso in cui essa si manifesti, e perché la violenza esercitata dall’autorità centrale mondiale rimanga entro livelli minimi;
  3. un cittadino globale avrebbe ragione di aspettarsi che vengano compiuti sforzi notevoli per garantire un livello di vita dignitosa per tutti, e in generale per offrire a tutti quanti un impiego con un reddito sufficiente per il soddisfacimento dei bisogni materiali di base;
  4. un cittadino globale avrebbe ragione di aspettarsi che il mondo sia una casa dove anche i suoi bisogni non materiali o spirituali siano soddisfatti mediante l’esistenza di molti luoghi nel mondo nei quali creare elaborazioni culturali personali a partire dai patrimoni culturali vecchi e nuovi. Tuttavia, egli non avrebbe alcun diritto di imporli a nessuno, ma il dovere di impegnarsi in dialoghi con gli altri in merito alle rispettive interpretazioni del mondo.

 


La globalizzazione tra mito e realtà

Martedì 17 febbraio 1998

Mercato globale e solidarietà sociale*
Stefano Zamagni

 
 

Globalizzazione e Internazionalizzazione

 

[...] Vorrei mettere in evidenza solo alcuni aspetti, perché bisogna per forza delimitare l’angolo di visuale quando si trattano problemi nuovi come quello della globalizzazione, secondo un’angolatura che è quella tipica della disciplina che professo, cioè l’economia politica. Lo scopo che mi muove è quello di trarre da una lettura essenziale di questo fenomeno, che ormai va sotto il nome di globalizzazione, alcuni elementi per alcune possibili linee di intervento. Come diceva in chiusura il Prof. Gallino, per contenere gli effetti perversi o devastanti del fenomeno.

In primo luogo, in che cosa consiste la specificità del fenomeno della globalizzazione rispetto al più antico fenomeno della internazionalizzazione dell’attività economica? Questo punto non è irrilevante perché, a mio modo di vedere, c’è molta confusione in questo dibattito. Da quando esiste l’economia di mercato di tipo capitalistico, infatti, esistono le relazioni internazionali (importazioni, esportazioni, ecc..). Non solo, ma più specificatamente, se consideriamo il periodo storico che va dal 1870 alla prima guerra mondiale, e confrontiamo i principali indicatori di importazione, esportazione, di aumento del tasso del PIL (i soliti indicatori economici), vediamo che, sotto il profilo meramente quantitativo, e ovviamente fatte le debite proporzioni, quel periodo (in circa quaranta, quarantacinque anni) è analogo a questo, che è sotto i nostri occhi, degli ultimi quindici/venti anni. Quindi la domanda che ho posto non è retorica. Dov’è la differenza, ammesso che ci sia, tra internalizzazione e globalizzazione? La mia risposta sta nel fatto che, ai suoi albori, il capitalismo moderno nasce sotto la protezione degli stati nazionali, stati prima mercantilisti e poi diventati liberisti: il capitalismo si sviluppa all’interno dello stato nazione. C’è una precisa enunciazione di questo principio tra gli economisti della prima generazione, da Adam Smith ma soprattutto da David Ricardo. Il grande economista inglese all’inizio del secolo parla addirittura di una natural disinclination, cioè di una naturale riluttanza - dice David Ricardo - dei capitalisti domestici, inglesi, ad avventurare i loro capitali "sotto governi stranieri e sotto nuove leggi" (citato). L’argomento nuovo è questo: i capitali devono stare a Londra, i lavoratori inglesi devono stare in Inghilterra e devono essere fatti oggetto di scambio, di importazione ed esportazione, le merci, i beni e i servizi. Questa è una posizione che poi verrà esasperata nella fase immediatamente successiva, cioè nel ‘900, quando il capitalismo diventerà addirittura nazionalistico. Non c’è bisogno di pensare alla stagione buia del nazismo e del fascismo, ma anche in altri paesi, in cui queste due sciagure non si sono verificate, il capitalismo prende le vesti del nazionalismo e del protezionismo, in casa nostra addirittura dell’autarchia. Questo è tanto vero che persino nel 1944, a Bretton Wood, quando si disegna il nuovo ordine economico internazionale, si nota come, alla base di esso, sta la centralità delle funzioni economiche degli stati nazionali. Tutto questo per dire che ciò che caratterizza la stagione dello sviluppo capitalistico fino al più recente passato è questa corrispondenza biunivoca tra sviluppo e potenza dello stato nazionale e interessi economici. La novità di questa nostra epoca di sviluppo è invece la globalizzazione del capitale, cioè la sottrazione della forza e delle logiche del capitale al controllo sociale delle comunità nazionali. Questo vuol dire, in altri termini, che oggi l’economia è globale in un senso in cui la politica non lo è più. Il che vuol dire che viene meno il vincolo stabile tra stato, territorio e produzione di ricchezza. Come spesso si sente dire, le relazioni economiche non hanno più confini mentre le sovranità degli stati nazionali si fermano ai confini della patria. Non c’è modo oggi di bloccare questo fenomeno: ne sappiamo qualcosa in Italia, in cui fino a non molti anni fa qualcuno aveva cercato di effettuare il controllo sul movimento dei capitali e per andare all’estero bisognava dichiarare di tutto, provvedimenti che sono scomparsi nel giro di poco tempo. Questo vuol dire che la risposta nazionale ai nuovi problemi non è più efficace e non lo è indipendentemente dalle intenzioni dei nostri governanti a livello nazionale e dalle loro maggiori o minori capacità. Anche in quei paesi dove, per una ragione o per l’altra, il governo nazionale è efficace e potente e riesce ancora ad esercitare la sua autorità in una certa misura, la sua sovranità è compromessa da due vincoli, uno interno e l’altro esterno.

Il vincolo interno è la necessità imposta dalla regola democratica di evitare un eccessivo carico fiscale sulle spalle delle così dette classi medie, ormai è un dato sotto gli occhi di tutti. Come sappiamo, nella stagione d’oro del Welfare State di tipo keynesiano, qual è stato lo strumento in mano allo stato per realizzare la solidarietà? La tassazione progressiva, si tassano i ceti benestanti e con il ricavato si ridistribuisce a favore degli altri. Ora noi sappiamo che la stessa regola democratica non consente più questo, perché la regola democratica è la regola dei due terzi e i due terzi non accettano più di dover pagare con la tassazione a favore del rimanente terzo, di quel 25-30% che oggi chiamiamo sottoclasse o con altri nomi "i lavoratori che sono poveri", "i poveri che lavorano" ecc.. Questo è un vincolo di cui occorre tenere conto e vuol dire che oggi la regola democratica, che è la regola fondamentale dell’agire politico, non è più una garanzia sufficiente. E’ sicuramente necessaria, ma non più sufficiente, per raggiungere (se qualcuno lo volesse per ragioni sue) obiettivi di maggiore uguaglianza. Non possiamo più pensare di usare la regola democratica per effettuare programmi di grossa ridistribuzione. Qual è la crisi oggi del Welfare State occidentale? Esattamente questa, e cioè che il ceto medio e ovviamente quello elevato, ma soprattutto il medio, rifiutano aumenti della tassazione per poter finanziare servizi sociali, dalla sanità alla previdenza e quant altro, a favore di quel terzo della popolazione che è escluso.

Ma c’è anche un secondo vincolo che è di natura esterna, e cioè il fatto che i governi nazionali sono sempre più vincolati, limitati nella loro azione da quanto avviene nel contesto globale: pensate a quanto avviene per le politiche monetarie, le politiche di bilancio, le politiche fiscali. Questo ci aiuta a capire la crisi della socialdemocrazia intesa come modello di azione politica. Essa sta tutta qui, perché nell’epoca d’oro delle socialdemocrazie, i governi nazionali potevano usare la leva fiscale e la leva monetaria (in altre parole determinare il tasso di cambio e soprattutto il tasso di interesse) per orientare l’economia in una direzione piuttosto che in un’altra. Ora queste leve non sono più nelle mani di governi nazionali. Se guardiamo alle vicende di casa nostra, quella europea, constatiamo che la politica monetaria non si fa più nelle singole capitali, ma già si sta facendo a Francoforte, le politiche fiscali si faranno a Bruxelles e via discorrendo. Questo allora ci aiuta a capire perché non è più possibile, nell’attuale fase, pensare di aspettarci dalle azioni dei governi nazionali la soluzione di problemi che non possono risolvere. E questo, badate bene, indipendentemente dal grado maggiore o minore di corruzione che può affliggere quel governo, o dal tasso di inefficienza della Pubblica Amministrazione. Queste ultime sono tutte aggravanti, certo avere una Pubblica Amministrazione efficiente ci permetterebbe di tirare un sospiro di sollievo, avere un minor tasso di corruzione nell’azione politica ci permetterebbe di evitare molti problemi, ma questo è vero anche per quei paesi dove questi fenomeni degenerativi sono meno presenti. Quindi è bene che ci si sia resi conto del fatto che non possiamo più chiedere allo stato nazionale ciò che lo stato nazionale non ci può dare, non possiamo attenderci la soluzione dei problemi semplicemente rinvigorendo i governi nazionali (attribuendo loro più potere, se ciò è possibile), perché questi non ce la fanno.

Il fenomeno della globalizzazione vuol dire proprio questo. Non così fino a poco tempo fa, quando le sorti delle economie nazionali procedevano di pari passo con l’affermazione dell’aumento di potenza degli stati nazionali. Pensiamo all’Inghilterra e all’impero britannico, ma la stessa cosa vale per la Francia, la Germania e in misura minore per l’Italia. Questo vuol dire che oggi stiamo assistendo ad una transizione da quello che potremmo chiamare un liberalismo embedded, cioè inserito, incorporato in una certa struttura locale, ad un liberalismo disembedded, cioè un liberalismo che applica la sua regola d’azione indipendentemente dal confine nazionale.

 
 

Tre aspetti della globalizzazione


 


Questo fenomeno che cosa produce dal punto di vista degli effetti che in questa sede ci preme mettere in evidenza? Ne indico tre, non perché siano gli unici, ma perché sono quelli più afferenti il tema di questa nostra conversazione.

 

1. L’incertezza

Il primo è una straordinaria inversione nel rapporto tra produzione di ricchezza e livelli di incertezza. Lo ha detto molto bene il Prof. Gallino con riferimento al mercato del lavoro, ma questo vale in generale, non solo in riferimento al mercato del lavoro. Il problema è questo: storicamente la generazione di nuova ricchezza, un problema sul quale anche il sociologo Giddens si è soffermato (da una prospettiva più sociologica che non economica, ma c’è convergenza da questo punto di vista), ha sempre portato con sé un miglioramento delle condizioni di vita e quindi è servita a ridurre i livelli dell’ incertezza esistenziali, sia dei singoli, sia delle comunità. Tutto ciò ha fatto digerire alle masse i costi di quella produzione. In altre parole, si diceva sì che la catena di montaggio, il fordismo produce alienazione, però produce anche nuove medicine, beni di consumo e ciò vuol dire ci fa star meglio, o meglio ci farà star meglio (se non proprio noi almeno i nostri figli). Fino a poco tempo fa quindi il meccanismo che produceva ricchezza serviva anche, se non immediatamente, mediatamente, a ridurre l’incertezza, perché l’incertezza era esogena, dipendeva da accadimenti esterni al modo in cui la società era organizzata e in particolare agli stili di vita delle persone. Era l’incertezza che derivava dal fatto che una malattia poteva stroncarti la vita in qualsiasi momento, pensate alle epidemie, ai livelli nutrizionali e così via. Quindi il progresso economico in senso lato comportava sì dei costi umani però almeno si diceva che ci diminuiva l’incertezza. Qual è la novità di oggi? Che si è rovesciato questo, nel senso che oggi (ed è ormai diffuso questo convincimento) per produrre nuova ricchezza bisogna aumentare l’incertezza. E’ così che si è diffusa una sorta di ideologia, che potremmo chiamare "l’ideologia dell’incertezza naturale", cioè si tende a usare l’incertezza come qualcosa di connaturato al problema economico. Anzi, come qualcosa che, ponendo dei precisi incentivi all’azione dei singoli, migliora le performance. In altre parole: per migliorare bisogna aumentare l’incertezza e quindi non ci deve essere più la certezza. Il motivo è, secondo questi nuovi ideologi della "incertezza naturale", che se la gente è troppo certa si siede, si acquieta, mentre se la si tiene sotto il pungolo dell’incertezza allora si danno da fare e accettano qualsiasi lavoro, qualsiasi condizione e così via. E’ un punto che non deve passare inosservato e che ci aiuta a capire il disagio della condizione giovanile di oggi. I giovani da cosa sono angosciati? Forse dal fatto che mancano loro i beni di consumo? Ma neanche per sogno, ne hanno fin troppi di beni di consumi; certamente non si lamentano del fatto che non hanno di che mangiare. Il giovane di oggi è angosciato, fino alle forme tragiche che conosciamo, dal fatto che non sa quale sarà la sua collocazione all’interno del ciclo lavorativo durante tutto il corso della sua intera vita lavorativa. Se la vita lavorativa è di quarant’anni, il giovane, che oggi si affaccia sul mercato del lavoro, non sa cosa andrà a fare, perché, come si diceva prima, stiamo passando dalla società del posto fisso di lavoro (nel senso del fordismo) ad una società dell’attività lavorativa. Il posto fisso di lavoro poteva anche essere alienante, però era fisso, dava certezza; poteva non essere soddisfacente, perché se si lavorava in banca si firmava solo moduli, però si aveva una garanzia, oggi invece questa certezza viene meno. Quindi questo ribaltamento è ciò che crea le nuove forme di angoscia che assumono forme varie. E’ appunto per razionalizzare questo che, in alcuni ambienti americani ed anglosassoni in particolare, stanno venendo fuori le teorie dell’incertezza naturale. Teorie che, a mio modo di vedere, hanno pochissimo fondamento, anzi ne hanno uno contrario perché l’incertezza endemica, proprio perché costringe il cittadino ad un adattamento passivo nei confronti dei meccanismi impersonali del mercato, blocca la creatività. Io arrivo a dire che si può dimostrare la tesi contraria e cioè che quando la nostra incertezza supera una certa soglia, smettiamo di creare. Quindi non è vero che l’incertezza endemica, endogena, è un fattore positivo, su questo punto però ognuno può avere le proprie opinioni, se ne può discutere. L’inversione del nesso tra produzione di ricchezza e generazione di certezza è il primo punto: oggi per produrre di più bisogna essere più incerti. Ecco perché si dice che non bisogna più dare il posto fisso, così le persone sono costrette ad alzare i tacchi perché solo quando uno è oppresso rende.

 

2. Il sistema internazionale

Una seconda implicazione del fenomeno che ho brevemente descritto poc’anzi, ha a che vedere con il fatto che l’ordine mondiale bipolare, che abbiamo conosciuto durante il mezzo secolo postbellico, è entrato in crisi. Le ragioni sono molte, la caduta del muro di Berlino ecc. Ma al di là di questo aspetto, a tutti noto, cosa c’è sotto? C’è che per oltre tre secoli, se facciamo attenzione, il sistema internazionale è stato dominato dalle potenze occidentali, tanto è vero che ha avuto il suo baricentro nel Nord Atlantico. La stessa guerra fredda è un evento inscritto nel medesimo orizzonte culturale europeo, o se volete nord-atlantico. La novità di oggi è che, come ormai sappiamo, il baricentro si sta spostando verso l’Asia, il Sud-Est asiatico. Poco conta che le vicende degli ultimi mesi (della borsa di questi paesi) abbiano sollevato alcuni dubbi. Il punto vero è che ci troviamo in una situazione in cui i paesi del Sud-Est asiatico, il Giappone e soprattutto la Cina, ci obbligano a riconsiderare l’ordine internazionale. Quello scritto nel secondo dopoguerra oggi è in crisi. Concretamente questo cosa vuol dire che queste nuove potenze asiatiche chiederanno a voce sempre più alta di partecipare al nuovo disegno delle istituzioni internazionali. Questo è un fatto che poco viene discusso, almeno per quel che vedo. Pensate soltanto al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, lì c’è un solo paese asiatico. Proviamo a chiederci fino a quanto questo potrà durare. Molto poco, perché, prima o poi, queste potenze batteranno i pugni sul tavolo e diranno che, se è vero che la sicurezza oggi non è più solo la sicurezza di tipo militare (il Consiglio di Sicurezza è nato infatti sotto una precisa istanza di natura militare: c’era la guerra fredda), ora quel rischio non c’è più, perché le guerre sono diventate locali, come sappiamo. Quindi il concetto di sicurezza, e il Consiglio di Sicurezza, non è più limitato alla sicurezza militare, ma va esteso alla sicurezza alimentare, ecologica, ambientale e così via. Rispetto a questa nuova nozione del concetto di sicurezza, è evidente che questi paesi, prima o poi, ritorneranno a chiedere a viva voce di entrare nella stanza dei bottoni per concorrere insieme agli altri. E’ evidente allora che, come effetto della globalizzazione, dobbiamo mettere in conto anche un ridisegno delle regole del gioco, soprattutto per quanto concerne la composizione delle grosse istituzioni internazionali, che vanno, non solo dalle Nazioni Unite, ma anche al Fondo Monetario internazionale, la Banca Mondiale e via discorrendo.

 

3. La diversità culturale

Un terzo effetto che mi piace mettere in evidenza ha a che vedere con un paradosso, che emerge con tutta evidenza. Da un lato, infatti, la diversità delle matrici culturali e la varietà delle esperienze dei vari paesi e delle varie collettività umane appaiono come una precondizione indispensabile affinché le innovazioni possano aver luogo e perché il processo di sviluppo abbia a continuare. Si dice infatti che è la varietà che crea incentivo al progresso. E’ positivo che ci siano culture diverse, matrici di valori e matrici culturali diverse perché questa varietà è un potente stimolo ad andare avanti. Per parafrasare un passaggio di Mark Twain, "è una diversità di opinioni a far correre i cavalli, perché se tutti avessero le stesse opinioni nessuno scommetterebbe sui cavalli e i cavalli non correrebbero più", mutatis mutandis, vale lo stesso discorso in quest’altro contesto. Quindi da un lato si dice che è un bene che si affermino le varietà culturali, con tutto ciò che questo termine comprende (potremmo mettere anche le varie vie e forme allo sviluppo economico sociale), però dall’altro lato, ed in questo sta il paradosso, vediamo che siamo ben lontani dall’accordare il giusto valore alle stesse varietà, perché le regole del mercato globale tendono ad appiattire, ad omogeneizzare. Non bisogna essere economisti per capire che il meccanismo di mercato, per funzionare, presuppone e postula la uniformità, la standardizzazione. Chi conosce la storia del capitalismo sa che uno dei primi punti, che si affermarono, fu la standardizzazione (già nel ‘600, ad esempio a Bologna, perché la prima "rivoluzione industriale" nasce a Bologna, poi venne esportata in Inghilterra ecc.). Se si voleva commerciare, con qualcun altro, prodotti di seta o di altro tipo, bisognava avere uno standard di qualità, di misura ecc. Ebbene il mercato globale oggi tende a standardizzare per facilitare le transazioni, e allora è facile immaginare che quando questo non è possibile prevale la tendenza a definire la varietà culturale in funzione di questa. E’ un paradosso di non poco conto e probabilmente dobbiamo aspettarci che da questo venga fuori qualcosa, perché da un lato la varietà è necessaria (come ci insegna la biologia, guai se non ci fossero le varietà biologiche), però al tempo stesso, il meccanismo di mercato, come lo concepiamo in termini moderni, tende ad uniformizzare: se il distretto industriale di Prato vuole vendere i propri prodotti in giro per il mondo, occorre che tra gli uni e gli altri ci si metta d’accordo su una forma di standardizzazione. Non c’è bisogno di pensare ai McDonald’s, anche se questo è un fatto rilevante. Perché in tutto il mondo si beve Coca-Cola? Non è solo il prodotto, ma è un modo di concepire il consumo che tende a uniformizzarsi. Questa terza implicazione può avere delle conseguenze nefaste che non centrano con i parametri economici, ma con quelli più propriamente culturali. Potrebbe essere che l’obiettivo della realizzazione del mercato globale attraverso l’abbattimento (come ormai è avvenuto) delle barriere ideologiche, tenda a creare forme nuove di potere totalitario e chi ha a cuore certi valori non può tacere di fronte a questo, perché sono fenomeni che stanno sotto gli occhi di tutti e che stanno avvenendo.

 
 

Tre proposte di intervento

 

Allora di fronte a una situazione di questo tipo, una domanda che ci si può porre è: che fare? Come si può intervenire? C’è spazio per intervenire o dobbiamo rassegnarci? A una domanda del genere esistono due risposte opposte, entrambe lecite.

Da una parte ci sono quelli che ritengono che non ci sia altro da fare che lasciare che i meccanismi anonimi e impersonali del mercato globale vengano accelerati, perché si dice: "più in fretta si fa meglio è, ma non c’è nulla da fare". Secondo loro ogni tentativo che tende a contrastare questo tipo di operazioni servirà soltanto a peggiorare la situazione. Questa è la posizione, che in gergo giornalistico un po’ volgare, si definisce liberal-liberista - è volgare perché il termine liberismo non ha senso, non esiste all’estero; provate a tradurlo in inglese, o francese, nessuno lo capisce, perché il termine liberismo è nato dalla diatriba tra Croce ed Einaudi -. E’ la posizione di chi ritiene che questi meccanismi sono ormai talmente ad uno stadio avanzato che cercare di controllarli, non dico bloccarli, ma controllarli provocherebbe disastri superiori ai vantaggi, anche perché, si dice, in una situazione di questo tipo: "dov’è l’autorità?". Abbiamo detto prima che le autorità nazionali non contano niente, non ce la fanno a controllare: il capitalismo non è più nazionale, è globale. Chi è l’autorità? Le Nazioni Unite? Ma anche queste ultime, da chi derivano l’autorità? Si pongono problemi molto complicati di legittimità sotto il profilo etico-filosofico. Allora, si dice che è meglio lasciare andare. Questa, se volete, è una posizione di tenue darwinismo sociale, che tende a dire che questo meccanismo tenderà ad assestarsi, a raggiungere un equilibrio solo perché arrivati a un punto di svolta inferiore bisognerà che la curva torni a salire e a migliorare.

Per contro ci sono coloro che ritengono che questo modo di ragionare non abbia senso, coloro i quali ritengono che il meccanismo di mercato, e nello specifico la globalizzazione, è compatibile con scelte politiche diverse in relazione a determinate gerarchie di valori. In altre parole, c’è chi ritiene, e anche qui con argomenti abbastanza fondati e convincenti, che non è vero che il meccanismo della globalizzazione sia un meccanismo che per funzionare richiede di essere autofondato, ma che è un meccanismo che può funzionare anche se le regole del gioco sono diverse da quelle attuali. Esempio, per essere più banali ancora: non è vero che la globalizzazione sia incompatibile con una regola che tende a dire che non si possa far lavorare i bambini sotto una certa età. L’importante è che la regola valga per tutti, perché ciò che non sarebbe possibile è che una regola del genere venisse fatta applicare in certi paesi e non in altri: il paese che non la applica ne trarrebbe un vantaggio competitivo. Se la regola la applichiamo in occidente e non in India o Pakistan è chiaro che gli imprenditori indiani faranno lavorare i bambini di nove anni, gli faranno fare palloni e scarpe da tennis, e quindi avranno un vantaggio competitivo. Se però la regola venisse applicata, enforced, da tutti, il meccanismo di mercato opererebbe alla stessa maniera. In altre parole, la posizione di quest’altra categoria di persone è che, come la storia degli ultimi due secoli ha messo in evidenza, non è vero che esiste un solo modello di capitalismo, ne esistono tanti, tutti di capitalismo, sono diverse vie al capitalismo. La scelta di queste vie dipende da alcune regole del gioco metaeconomiche, al di là cioè del discorso economico; le regole del gioco fissate in ambito politico (con la P maiuscola, che non ha niente a che vedere con il sistema dei partiti). E’ evidente che chi si colloca in questa seconda prospettiva ha un obbligo in più rispetto ai primi, perché i primi, una volta affermata la tesi che ho brevemente indicato, possono tranquillamente disinteressarsene. Chi si colloca in questa seconda prospettiva invece ha l’obbligo di mostrare come intervenire, cioè dire quali sono gli strumenti che possono essere usati per far convergere le decisioni collettive su alcune regole piuttosto che altre. Qui si apre il terreno alla discussione in senso proprio, cioè ad una progettualità e una creatività alla quale ancora si dedica troppo poca attenzione, perché è ancora prevalente, nei nostri sistemi occidentali, la prima tesi: la tesi dell’impotenza, secondo la quale non c’è niente da fare e, siccome non c’è niente da fare, tutto quello che si può fare è di usare un po’ le armi della solidarietà. La solidarietà però di vecchio stampo, cioè quella di aiutare gli indigenti. E’ sì vero che nelle situazioni di emergenza bisogna aiutare subito gli altri, però si può dire che questo non è sufficiente, perché intervenire ex-post può essere giustificato solo secondo l’ottica dell’urgenza. Ci si chiede allora se non sia possibile intervenire ex-ante perché certe gravi situazioni non abbiano a verificarsi, quindi ecco perché sul piano propositivo riscontriamo una quasi povertà assoluta di proposte. E’ passata infatti nella nostra cultura, anche italiana, l’idea secondo cui non si possa far niente, che quindi l’unica cosa possibile sia l’azione caritativa. Credo che questo sia il modo sbagliato di pensare. E’ sbagliato fino a quando qualcuno non si cimenta nell’impresa di proporre, con argomenti convincenti, proposte alternative. Io mi limito ad alcuni abbozzi, perché è lungi da me l’idea di essere esaustivo in questo breve tempo.

 

1. La solidarietà

Il primo argomento è che la solidarietà, se vogliamo usare questo termine che è nel titolo della conversazione di questa sera, non può essere più declinata alla maniera tradizionale e cioè intervenendo sulla variabile ridistributiva. La nuova solidarietà, di cui abbiamo bisogno, se entriamo nell’ottica di chi vuole "governare questi processi", deve essere una solidarietà che si esprime intervenendo sulle regole del gioco. Qual era la vecchia solidarietà della società che è alle nostre spalle? Era una solidarietà, come ho detto poc’anzi, ex-post: si lasciava che il gioco di mercato producesse i suoi risultati e sulla base di questi, confrontandoli con qualche ideale di tipo etico o politico, si aggiustavano. Quindi si tassavano coloro i quali, dal risultato del gioco economico, traevano i maggiori benefici a vantaggio degli altri. Questo non è più possibile oggi per il discorso che ho fatto prima, quindi le nuove forme di solidarietà devono esprimersi intervenendo sulle regole del gioco. Ad esempio, e pensiamo al discorso delle nuove tecnologie che ci ha fatto il Prof. Gallino, queste hanno, tra le altre cose, una componente tacita, il che vuol dire che la conoscenza incorporata nelle nuove tecnologie non si trasmette per via di codici, ma si trasmette per via tacita. Dal punto di vista della solidarietà, questo vuol dire che non aiutiamo più le aree svantaggiate, i paesi del quarto o quinto mondo o regioni svantaggiate all’interno dello stesso paese, dando loro (addirittura regalando loro) le nuove tecnologie, i nuovi impianti: questo non serve letteralmente a niente se non facciamo un preciso investimento in capitale umano e se non operiamo in modo tale da elevare il livello culturale di formazione di quella gente e metterli in grado di usare le nuove tecnologie. Questo è un fatto che ci aiuta a capire perché buona parte delle politiche della cooperazione allo sviluppo stanno miseramente fallendo, coi risultati che i nostri Ministeri degli Esteri ormai non danno più soldi per la cooperazione allo sviluppo. La vecchia cooperazione allo sviluppo infatti diceva: "regaliamo ai paesi del terzo mondo", oggi questo non serve più a niente. Ieri non era così perché potevamo regalare un trattore a una comunità contadina di un paese africano e quelli, anche se non sarebbero stati capaci di produrre il trattore, erano in grado di usarlo, perché con poco si insegna a uno, anche analfabeta, a guidare il trattore e arare la terra. Provate però a regalare a un semianalfabeta il computer, quello non sa che farsene. Capite cosa vuol dire che oggi le nuove tecnologie, le cui conseguenze ha descritto molto bene il Prof. Gallino, hanno un elemento di polarizzazione, cioè se non vengono corrette, agendo sulle risorse umane, anziché far convergere fanno divergere i sentieri di sviluppo dei paesi. Questa è la ragione per cui i paesi africani sono nella situazione che ben sappiamo. Non manca la tecnologia, ma manca il materiale umano, la persona, in grado di utilizzarla. Agire sulle regole del gioco vuol dire che bisogna consentire a tutti di partecipare al gioco. Facendo l’esempio di prima, del lavoro ai bambini, potremmo dire: abbassiamo i sistemi di protezione in occidente perché così competiamo con i paesi emergenti, oppure potremmo invertire il discorso chiedendo che, con le dovute gradualità e cautele, anche in quei paesi vengano introdotte le stesse norme in applicazione della teoria dei gruppi di riferimento. Questa è una regola del gioco, perché se c’è un dislivello quanto alle clausole sociali, questo dislivello può essere colmato o abbassando chi è più in alto o alzando chi è più in basso, il gioco poi riprende come prima. Ci sono problemi di transizione è ovvio, perché non basta dire questo ma bisogna essere consapevoli delle implicazioni. Se imponiamo gli standard sociali ai paesi del terzo mondo, dobbiamo anche aiutarli, almeno in una fase iniziale, a superare il gap, perché loro si servono di questo per poter riuscire a competere con i nostri sistemi. Quindi è ovvio che non basta imporre le regole in modo ipocrita, come in certi dibattiti internazionali si sente dire da parte di certi paesi sviluppati, che si scoprono difensori della solidarietà. Non serve dire che i paesi in via di sviluppo debbono rispettare i diritti dei lavoratori se non ci si pone il problema di cosa questo comporti.

Quindi la prima via è che cambino quelle regole scritte, che sono state scritte nel 1944 a Bretton Woods. Anche qui a scanso di equivoci, perché c’è chi dice che il sistema è diventato talmente impersonale che non può essere riscritto. Chi dice questo, dice il falso. Uno può dire che non gli piace, ma non può dire una falsità, perché Bretton Woods è stato un luogo fisico dove certi personaggi si sono messi intorno a un tavolo e hanno firmato una sorta di contratto: quel contratto da cui è nato quell’ordine economico che oggi è entrato in crisi. Così come nel ‘44, dopo la guerra, è stato scritto quell’accordo non vedo perché non si possa scrivere adesso. Forse non si vuole, ed è giusto che uno non lo voglia, ma non si può dire che oggi non sarebbe possibile. Pensate ai fenomeni della finanziarizzazione dell’economia, qualcuno dice che non è possibile intervenire, non è vero niente, perché tecnicamente è possibilissimo, dopo di che uno può dire che preferisce che non si intervenga per vari motivi.

 

2. La società civile internazionale

Una seconda via è quella che passa attraverso una rivitalizzazione di quella che possiamo chiamare la società civile internazionale. La società civile internazionale non è una chimera, è qualcosa di molto reale. Per far capire, lasciate che rievochi due episodi che oggi sanno tutti. Quando due anni fa si venne a sapere che la Nike, per fare le scarpe da tennis, faceva lavorare i bambini in Pakistan ecc., alcune organizzazioni di volontariato internazionale (associazioni di consumatori sostanzialmente) decisero di boicottarla lanciando una campagna di boicottaggio. Qual è stato il risultato? E’ stato che all’inizio del 1997, la Nike è stata costretta a darsi un codice di autoregolamentazione, così detto codice deontologico, nel quale si legge (ormai pubblicato e disponibile a tutti) che la Nike si impegna a non far lavorare bambini al di sotto di una certa età, le donne anziane ecc. Alcuni obiettano che loro lo fanno per interesse, ma è ovvio! Non importa qui fare del moralismo e chiedersi perché sono stati indotti a darsi il codice, l’importante è sapere che sotto la pressione che veniva dal lato della domanda, dai consumatori, questa impresa, per continuare a vendere, è stata costretta a scendere ai patti. Questo è un esempio molto interessante, ed è un esempio solo; non sto dicendo che esso debba venire assolutizzato, ma me ne servo per far passare questo concetto. L’altro esempio interessante è quello della Coca-Cola. Il sindacato svedese, tre anni fa, venne a saper che gli impianti della Coca-Cola in Guatemala funzionavano in una maniera indegna e indecorosa del genere umano, allora fece un’azione di boicottaggio in Svezia e consigliò a tutti i cittadini svedesi di bere la Pepsi-Cola, nel giro di sei mesi la Coca-Cola, nel suo quartier generale, si accorse che non riusciva più a vendere e cambiò le regole di funzionamento dell’impianto in Guatemala. Ce ne sono tanti di questi esempi. Quello che voglio dire è che oggi, a differenza di ieri, il consumatore è depositario di un potere enorme, perché siamo andati avanti nello stadio dello sviluppo. Ciò vuol dire che il potere del consumatore oggi è molto maggiore degli stati nazionali, perché il potere di quest’ultimo declina per le ragioni dette poc’anzi. In altre parole, oggi, l’azione e l’attività di consumo si carica di un significato nuovo rispetto al passato. Ieri il consumo era quella attività umana attraverso la quale un soggetto comprava beni per soddisfare i bisogni più o meno fondamentali, la logica del consumatore era quella di dire: "io compro i prodotti al minor prezzo, oppure quei beni che mi garantiscono il rapporto qualità prezzo più adeguato". Oggi non è più così perché i consumatori stanno diventando dei soggetti che sanno che il proprio atto di consumo è un atto che ha valenza etica; nel senso che, se io compro, spendo i miei soldi per comprare quelle scarpe anziché le altre e sapendo che quelle scarpe sono state prodotte in un certo modo, non posso fare spallucce e dire: "a me questo non importa, perché l’unica cosa che mi interessa è comprarle da chi me le vende al prezzo minore". Non posso più dirlo, perché questo lo posso dire se sono un consumatore che sono vicino alla linea della sopravvivenza, ma quando mi colloco al di sopra, il mio atto di consumo è un atto che ha valenza morale. Ovviamente posso fregarmene, ma non posso dire che non ha valenza morale. Questa è una percezione che sta emergendo, soprattutto tra i più giovani, i qual sono molto sensibili a questo discorso, tanto è vero che anche noi economisti dobbiamo riscrivere i libri di testo. La teoria del consumo è uno dei primi capitoli nei libri di microeconomia che si insegnano nell’università e devono essere tutti riscritti perché sino adesso si diceva: "la funzione di utilità del soggetto ha come argomenti i beni consumati a parità di prezzo". Dobbiamo cominciare a dire che non è vero, perché io soggetto consumatore traggo utilità non solo dal bene che ho, ma anche dal messaggio che con il mio gesto d’acquisto trasmetto alla produzione. Posso protestare in senso politico orientando i miei consumi in un modo piuttosto che un altro. Questo è il significato della società civile internazionale di cui stavo parlando. Ora è evidente che di questo bisogna parlarne, le cose già avvengono, le organizzazioni già si stanno collegando a rete fra di loro in tutti i paesi. Noi siamo più indietro degli altri per le note ragioni, perché le informazioni da noi non circolano, poi c’è di mezzo la lingua che è un impedimento, però le cose sono sotto gli occhi di tutti e stanno avvenendo.

 

3. Lo sviluppo locale

Infine una terza linea è quella che riguarda il concetto di valorizzazione del consumo locale: il localismo. Anche qui la globalizzazione è come una medaglia: ha due facce. Da un lato c’è la globalizzazione di cui abbiamo detto prima, ma qual è l’altra faccia? E’ il localismo, che taluno chiama regionalismo, ma non c’è bisogno: lo sviluppo locale. Vediamo che oggi, paradossalmente, il fenomeno della globalizzazione, proprio perché sta facendo scomparire, per le ragioni dette prima, i poteri nazionali, sta dando nuovo impulso e nuovo vigore allo sviluppo locale, alle comunità locali. Dal punto di vista economico, questo fenomeno ha un termine ben preciso: distretto industriale. Mai come in questi ultimi anni si parla di distretti industriali. Il concetto nasce con Marshall alla fine del secolo scorso, poi sino a pochi anni fa nessuno più ne parlava, perché si diceva che l’industria è basata sulla grande industria, mentre il distretto industriale è una cosa del terzo, quarto mondo. Ci si è resi conto della stupidità di quella affermazione. Oggi, se l’Italia è famosa in tutto il mondo, lo è per i suoi distretti industriali, perché noi siamo il paese che in rapporto alla popolazione ha il più alto numero di distretti industriali. Al di là delle specificazioni tecniche, da economista, qual è l’idea di base del distretto industriale? E’ l’idea di economia civile, come mi piace personalmente chiamarla. L’idea in base alla quale la società civile si organizza anche sul fronte economico, creando quella rete di relazioni economiche che hanno come principio fondativo il principio di reciprocità. Siamo stati portati a pensare, per colpa di noi economisti, che abbiamo insegnato in maniera sbagliata, l’idea che l’unica forma di scambio è quella dell’equivalenza. L’idea di base è che lo scambio, fondamentale in una società dove c’è divisione del lavoro, assume forme diverse in relazione ai contesti e non è detto che la forma dello scambio di equivalenti (che vuol dire: io ti do questo e tu mi dai l’equivalente in valore) sia l’unica forma dello scambio che abbia le proprietà dell’efficienza e dell’efficacia. Ci sono invece altre forme, le quali avvengono secondo una logica diversa, quella della reciprocità. Vi posso assicurare che la letteratura su questa forma di scambio negli ultimi anni è in espansione, ma non solo quella italiana, parlo della letteratura economica sulle più prestigiose riviste, le top-ten più prestigiose; se scorrete gli indici delle annate, vedrete che c’è sempre un articolo che parla di "reciprocity" o "a system of reciprocity" oppure "equilibrium of reciprocity", che testimonia il crescente interesse. Il punto è che, se si analizza il distretto industriale, si scopre che il distretto industriale funziona, ma non perché ci sono persone più intelligenti, non perché ci siano più risorse (i maggiori distretti sono in Emilia, Toscana, Veneto, regioni cioè considerate arretrate), ma perché esiste il concetto di rete. La rete è esattamente l’opposto della gerarchia, del comando e nella rete, affinché i nodi della rete tengano, bisogna che i soggetti che vi partecipano siano in grado di fidarsi l’un l’altro, cioè le reti di fiducia, i rapporti di fiducia. La reciprocità è lo strumento che permette di creare le reti di fiducia, queste a loro volta abbassano i costi di transizione, quindi rappresentano un elemento di forte competitività. Morale della favola: i distretti industriali, che sono nati dal niente e che non hanno ricevuto un soldo dallo stato, sono riusciti a competere sul mercato internazionale. Il made in Italy, conosciuto in tutto il mondo, che ci permette di uscire dalla crisi, è merito della piccola media impresa, non della grande industria (questo è bene che si sappia), che, come gli storici hanno ampiamente documentato, è stata un grosso fallimento, pensate alla chimica; l’unica eccezione è il settore dell’auto, della meccanica, ma per ragioni ben precise. Se l’Italia è in grado di agganciare il treno dell’Europa è dovuto all’esistenza dei distretti industriali e quindi a quel tipo di relazione di reciprocità a cui ho brevemente accennato. Questo discorso centra perché se riuscissimo a precisarlo meglio, riusciremmo e a capire che un distretto industriale (che non vuol dire solo prodotti dell’industria, oggi quasi tutti i distretti industriali sono nel campo del terziario) rappresenta un modo nuovo di collegare tra di loro imprese e società civile. Io vedo in questo un potente antidoto a quei rischi legati al fenomeno della globalizzazione di cui ho detto prima.

 

Quindi: regole del gioco a livello internazionale, una rivalutazione della società civile, facendo capire a tutti che il momento del consumo oggi è un momento che è dotato di senso, una ripresa e valorizzazione della nozione di economia civile, ritengo penso che possano essere, ovviamente non da soli, punti e leve di una strategia che tenda a correggere quei meccanismi attualmente impersonali e anonimi del mercato globale che ho cercato di mettere in evidenza.

Questo è ovviamente un lavoro teorico che non può rimanere a livello astratto, deve tradursi, anche a livello operativo, in modificazione di certi assetti istituzionali. Ritengo, però, che questa sia una prospettiva convincente che comunque ha un pregio, che è quello di restituire un po’ di speranza in una fase in cui molti pensano che quello che avviene è una sorta di Moloch che ci sovrasta e di fronte al quale non ci sia nulla da fare.


Intervento del prof. Umberto Melotti sul tema:
"Migrazione, conflitti e identità culturali"
di Giovedì 26 Marzo 1998
Cinema Massimo - Sala 2 - Via Montebello 8

Introduzione

Ringrazio di cuore gli organizzatori di questo ciclo di incontri per il loro gradito, cordiale invito, che mi riporta a Torino a trattare la tematica delle migrazioni internazionali, anche in relazione ai conflitti e alla identità culturale.

Recentemente sono stato in Indonesia e, quando ho lasciato l’Italia, la tematica della migrazione era sulle prime pagine di tutti i giornali in relazione alla recente legge approvata dal Parlamento; sono partito da Zurigo per l’Asia e la tematica dell’immigrazione era sulle prime pagine dei giornali svizzeri di lingua tedesca; sono arrivato a Singapore e poi a Johor Baharu (il sultanato più meridionale della Malaysia) e l’immigrazione era sulle prime pagine, a titoli cubitali, anche nei giornali di questi lontani Paesi. Qui l’immigrazione e le preoccupazioni relative riguardavano le migrazioni che dall’Indonesia, illegalmente, si dirigono verso Singapore e verso il sultanato di Johor Baharu. Argomenti, stili e preoccupazioni erano gli stessi in Italia, in Svizzera e in questi Paesi asiatici.

Ho incontrato a Johor Baharu quello che mi è stato detto essere intervenuto da voi come primo relatore, Johan Galtung, e abbiamo parlato anche della tematica della crisi di queste "tigri" asiatiche. Galtung diceva che non si trattava tanto di una particolare crisi dell’Asia, quanto dell’inizio di una crisi più generale che, a suo giudizio, si collega con i processi di globalizzazione sui quali verte, essenzialmente, il ciclo di questi incontri.

Cerchiamo di chiarirci bene le idee quando parliamo di migrazioni internazionali, dal Sud al Nord del mondo e, più recentemente, dai Paesi dell’Est europeo all’Occidente. Sono il segno, forse, più significativo di un’epoca di crisi e di transizione, un fenomeno destinato a durare, almeno stando alle previsioni che noi possiamo formulare grazie agli indicatori economici, demografici e sociali, per almeno un secolo. Ci troviamo di fronte, quindi, a un fatto di grande rilevanza storica, che va analizzato tanto con riferimento al passato, per mettere a fuoco gli elementi di continuità con i precedenti processi di mobilità del sistema mondiale, quanto nella specificità che questi ultimi movimenti hanno rispetto a quegli stessi precedenti, e importanti, fenomeni migratori.

Inquadramento storico del problema

Cosa vuol dire, innanzi tutto, che i grandi movimenti internazionali sono stati un fattore importante, significativo, e forse anche costitutivo del sistema mondiale in formazione, dall’epoca della scoperta delle Americhe in poi? Esistono anche migrazioni più antiche, ben conosciute, con crisi e conflitti importanti anche sul piano degli stimoli economici, sociali, politici e culturali. Per limitarsi alle dinamiche che hanno coinvolto l’Occidente, pensiamo alle migrazioni dei Dori, che hanno aperto la via al medioevo ellenico e al successivo rilancio e alle migrazioni dei barbari, che noi chiamiamo "invasioni dei barbari" nel nostro linguaggio etnocentrico al quadrato: "invasioni" e "barbari". Nei Paesi da cui queste persone provenivano ci si riferisce ancora oggi a questi fenomeni con una terminologia differente: per esempio nella lingua tedesca di parla di Volkeneinbanderungen,ovvero "migrazione dei popoli". Queste migrazioni, lo sappiamo bene, hanno dato un colpo definitivo all’Impero romano già in crisi e hanno aperto quella che, un pochino etnocentricamente, chiamiamo "la lunga notte del medioevo", ma che in realtà è stata un’epoca ricchissima di trasformazioni in cui si sono delineati, per la prima volta, gli Stati nazionali così come oggi li conosciamo. Pensiamo alle dinamiche che hanno coinvolto la Cina nei confronti delle popolazioni nomadi: il più grande manufatto presente sulla Terra - visibile a occhio nudo, ci dicono gli astronauti, persino dalla Luna - la Grande Muraglia, era lì a segnare il confine tra il mondo agricolo, stanziale e il mondo dei nomadi che, di tanto in tanto puntavano sulla Cina. Anche in questo caso migrazioni, conflitti, invasioni: tanto è vero che Marco Polo aveva trovato in Cina una dinastia mongola.

Per restare all’Occidente e a ciò che si è verificato dagli inizi della cosiddetta "epoca moderna" - quella che si suole convenzionalmente datare dalla scoperta, o conquista, delle Americhe - le grandi migrazioni internazionali si sono configurate come un fatto di straordinaria importanza per quanto concerne le dinamiche sociali. Marx sosteneva che senza questo elemento lo stesso capitalismo non avrebbe potuto beneficare di un elemento fondamentale per il proprio sviluppo. D’altro canto le migrazioni sono state anche uno straordinario fattore di civiltà: grandi Paesi, come gli Stati Uniti d’America - la superpotenza oggi dominante - sono nati dalla migrazione. Molti Paesi dell’America Latina - Brasile, Cile, Argentina, Uruguay - sono nati da migrazioni, la superpotenza, solo recentemente crollata, del continente eurasiatico, l’Unione Sovietica, era l’erede di quell’impero zarista che si era esteso con migrazioni verso l’Asia Centrale e l’Estremo Oriente. Importanti elementi di civiltà legati alle migrazioni si sono avuti anche nelle colonie britanniche: in India, dove la conquista britannica ha portato la lingua inglese unificatrice al di là delle numerosissime lingue, spesso tra loro differenti più di quanto non lo siano l’italiano e il cinese, e in Africa, visto che ancora oggi, a tanti anni dall’indipendenza - l’anno storico dell’Africa è il 1960, le ultime colonie di un certo rilievo, quelle portoghesi, hanno ottenuto l’indipendenza a metà degli anni Settanta - noi spesso guardiamo ad essa distinguendo tra Africa anglofona, francofona, lusofona e, per alcune parti, anche italofona (se così possiamo chiamare Somalia ed Eritrea).

Tanti elementi generatori di stimoli, trasformazioni e, la cosa non va assolutamente ignorata o taciuta, di genocidi: la distruzione della popolazione india in gran parte dell’America Latina, le popolazioni cinesi indotte alle migrazioni forzate con i cosiddetti contratti verso altre aree asiatiche, hanno costruito società dove spesso alla differenza di razza si è sovrapposta quella sociale e di cultura. Laddove vere e proprie forme di discriminazione razziali non esistono più, vi sono ancora tracce delle precedenti stratificazioni sociali, che se anche dissimulano le proprie componenti razziali, spesso, in realtà, sono eredi di quelle discriminazioni del passato.

Le migrazioni che ho qui richiamato - e che hanno segnato forse nove decimi dell’epoca moderna - avevano una caratteristica ben diversa da quelle attuali: andavano, per l’essenziale, dal centro del sistema mondiale in formazione, costituito allora soprattutto dalla Vecchia Europa, verso le periferie del sistema mondiale: le Americhe, l’Africa, l’Asia, fino alla lontana Australia. Dopo la Seconda Guerra Mondiale, tra i tanti cambiamenti che questa guerra ha portato con sé (la divisione del mondo in due grandi blocchi ideologici, economici e militari, il passaggio all’indipendenza delle colonie britanniche e francesi mentre quelle tedesche l’avevano già ottenuta dopo la Grande Guerra o erano passate ad altri) ne possiamo registrare uno che concerne le migrazioni: l’inversione della direzione netta dei flussi migratori. Dal 1950 in poi - la metà del nostro secolo, se vogliamo assumere una data emblematica - le migrazioni hanno incominciato ad andare dalle periferie del sistema mondiale verso il centro e hanno costituito uno degli elementi più importanti e significativi del cosiddetto processo di globalizzazione.

L’emigrazione dall’Italia e l’immigrazione in Italia

Anche in questo secondo dopoguerra l’Italia ha continuato a essere Paese d’emigrazione, Mentre l’Europa centro settentrionale era già diventata area d’immigrazione, l’Italia ha continuato a essere il più importante paese d’emigrazione dell’Europa e il risultato di questa fase è che gli emigrati italiani all’estero e i loro discendenti sono più di cinque milioni. Se vogliamo assumere alcuni dati con un pochino più di ampiezza, circa il 50% della popolazione dell’Argentina e del sud del Brasile è di origine italiana e quella italiana è la prima nazionalità europea presente all’interno degli altri Paesi dell’UE (circa 200.000 individui), seconda soltanto alla Turchia, ma con la differenza che quest’ultima accentra soprattutto la sua emigrazione nella Germania, mentre quella italiana è più ampiamente dispersa. Per un quarto di secolo l’Italia è stata Paese d’emigrazione in questo contesto profondamente mutato e la nostra attenzione non ha avuto come suo oggetto precipuo le dinamiche migratorie, se non come studio della migrazione italiana all’estero, e anche in questo campo piuttosto sotto tono, come una tematica dall’importanza quanto meno sottovalutata.

L’immigrazione in Italia incomincia a diventare visibile all’inizio degli anni Sessanta, anche se statisticamente appare evidente solo quando, per la prima volta, gli immigrati in Italia superano gli emigrati dall’Italia, nel 1973, segnando un’inversione di tendenza che non è mai stata ribaltata negli anni successivi, fino a oggi. L’Italia è diventata un Paese di immigrazione, sia pur tardiva, assieme ad altri Paesi dell’Europa meridionale, come la Spagna, il Portogallo, la Grecia: tutti Paesi che, in precedenza, erano stati importanti Paesi di emigrazione. Tra la fase, nei primi decenni del dopoguerra, in cui l’Italia era un Paese di emigrazione e quella in cui l’Italia è diventata Paese di immigrazione, ci sono differenze strutturali dal punto di vista economico, politico, sociale e culturale. Quindi se noi vogliamo mettere a fuoco le possibili situazioni di conflitto, se vogliamo cercare di capire i riflessi e i problemi che si pongono per quanto concerne la costituzione di una nuova società multirazziale, multietnica, multiculturale, multireligiosa e così via, dobbiamo capire queste differenze.

Le tre fasi dell’immigrazione in Europa nel dopoguerra

Limitiamo, almeno per il momento, la nostra attenzione al Vecchio Continente che probabilmente, schematizzando, ha conosciuto tre fasi. La prima fase, che a grandi linee parte, in alcuni Paesi, dall’immediata fine della Seconda Guerra Mondiale, mentre in altri, come la Germania, incomincia un po’ più tardi, e che arriva, appunto, al 1973, è caratterizzata dell’immigrazione verso i Paesi dell’Europa centro-settentrionale a partire, soprattutto, dai Paesi dell’Europa meridionale: l’Italia, come già accennato, è la prima area di emigrazione, seguita dal Portogallo, dalla Spagna, dalla Grecia e dalla Iugoslavia. Questa immigrazione ha una caratteristica ben determinata: è richiamata da un’effettiva necessità di lavoro per la ricostruzione postbellica e per il lungo periodo di sviluppo che le ha fatto seguito ( questo sviluppo leggetelo tra virgolette, perché tuttora c’è un dibattito in corso sul concetto di sviluppo ). Comunque è la fase in cui si colloca il cosiddetto "grande miracolo economico tedesco" e il più piccolo "miracolo economico" dell’Italia settentrionale - il triangolo industriale Torino, Milano, Genova . Non perchè esistevano queste motivazioni, però, bisogna pensare che gli emigranti fossero sempre bene accetti: uno scrittore svizzero di lingua tedesca, Max Fisch, in un suo scritto sulla xenofobia esordisce così: "Abbiamo cercato braccia e sono arrivati uomini" e quando arrivano uomini portano complessità sociale, aspettative, conflitti. Due quinti delle strade francesi sono state costruite da immigrati e le grandi fabbriche di automobili - la Renault e la Citroën in Francia, la Volkswagen e la Ford in Germania - non avrebbero potuto far funzionare le loro catene di montaggio senza il significativo apporto della manodopera degli immigrati. Questo bisogno effettivo determinava una certa legittimazione di questa presenza, che comunque non bastava, come ho detto, ad assicurare l’effettiva integrazione sociale, né tantomeno il rispetto delle identità culturali.

La seconda fase, quella che potremmo, a grandi linee, datare attorno al 1973-1982, ha caratteristiche diverse. Il 1973 è l’anno in cui diviene evidente la nuova crisi strutturale che investe l’economia europea, e in genere l’economia occidentale; è la fase che si apre con la cosiddetta seconda crisi del petrolio, che vede il decentramento delle industrie, a volte nei Paesi vicini, ma a volte anche in quelli lontani; in cui abbiamo la nuova divisione internazionale del lavoro, le fabbriche che esportano le proprie attività ad alta intensità di manodopera là dove essa costa meno; è la fase in cui nascono le quattro tigri asiatiche - Hong Kong, Singapore, Taiwan, la Corea del Sud -. Durante questo periodo c’è una situazione di crisi che viene patita anche dai Paesi del Terzo Mondo non produttori di petrolio, che devono importarlo, e questo porta al crollo di alcune bellissime esperienze politiche nei Paesi in via di sviluppo.

Questa situazione di crisi e di instabilità alimenta, da un lato, un’immigrazione per ragioni economiche, soprattutto di giovani, anche a causa delle dinamiche demografiche, ma anche un’emigrazione, per motivi di ideologia politica: in questo periodo, infatti, si moltiplicano i colpi di stato e gli interventi repressivi, a esempio in Argentina, Paraguay e Cile (il famoso colpo di stato contro Allende). Non dimentichiamo, però, anche altri conflitti: in Medio Oriente si sviluppano la guerra israelo-araba e il conflitto dei curdi con i Paesi vicini, mentre crescono i conflitti a carattere etnico in Africa, in Asia (ad esempio nell’isola di Ceylon) e le dinamiche che seguono immediatamente la guerra del Vietnam, con l’espulsione o la fuga di gruppi della minoranza cinese che vivevano nel Vietnam del Sud. Queste situazioni di conflitto contribuiscono grandemente agli effetti di spinta, come li definiscono i demografi e i sociologi, da queste aree. Questa situazione porta comunque , negli anni Settanta, per effetto del prevalere delle forze di "push" (di espulsione) su quelle di "pull" (ovvero di attrazione), alla continuazione dei flussi migratori dalla periferia verso il centro del sistema mondiale, anche in assenza di una domanda effettiva da parte dei Paesi ospitanti la cui economia è in piena crisi. L’Italia diviene Paese di immigrazione proprio in questa fase, anche se in quegli anni non ci si accorgeva molto dell’immigrazione al punto che il primo studio di un qualche peso è stato pubblicato nel 1979, sulla base di dati del 1977, mentre in precedenza c’erano stati solo pochi articoli di giornale, dettati più che altro dalla curiosità.

Fino a una buona metà degli anni Ottanta, c’era comunque un atteggiamento di sensibilità soprattutto in chi entrava in contatto col fenomeno, così che un amico svizzero mi diceva in quel periodo: "in Italia per gli immigrati c’è un’aria tiepida, mentre in Svizzera spira ormai il gelo".

Negli anni ‘80, dall’82 in poi, abbiamo una certa ripresa delle economie occidentali, in alcuni casi anche abbastanza forte, si parla infatti di golden Eighties, gli aurei anni ottanta, anche se sono stati molto aurei per alcuni e ben poco per altri. In questo ambito di ripresa, mentre si aggravano le condizioni di alcuni Paesi extraeuropei soprattutto dell’Africa (il segretario dell’organizzazione dei Paesi dell’Africa proprio nel 1982 diceva "questo continente nel domani non ha speranza", in seguito al fallimento delle esperienze socialiste di vari paesi e al venir meno delle speranze nate nel periodo di liberazione dalle colonie), incominciano le migrazioni di massa, soprattutto dai Paesi del nord Africa. Nel periodo precedente si era verificato un evento molto importante: proprio quei Paesi che una volta avevano richiamato manodopera anche con precise politiche di reclutamento, uno dopo l’altro nel ‘73 avevano chiuso le frontiere a un’ulteriore immigrazione di lavoro. Le nuove forze di spinta, che venivano dall’Africa subsahariana, dal Nord Africa e da altri Paesi più lontani dal bacino del Mediterraneo come Capo Verde, le Filippine, l’India, alcuni paesi dell’America Centrale, cominciarono a dirigersi con più frequenza verso l’Italia in particolare e i Paesi dell’Europa meridionale in generale che, essendo stati prima del ‘73 Paesi d’emigrazione, non si erano dati le strutture amministrative e normative per potere contenere i flussi di ingresso. Esistevano comunque delle regole, però mancavano controlli efficaci disposti alle frontiere e anche sul territorio. Una volta entrati, non vi era quella forma di controllo che esisteva nei Paesi dell’Europa centro settentrionale sopra citati. Le migrazioni di massa si sono quindi rivolte soprattutto all’Europa meridionale. Si è andata affermando la coscienza che l’Italia fosse diventato un paese d’emigrazione, anche se in un periodo di crisi. C’era una ripresa, ma con disoccupazione crescente soprattutto tra le fasce giovanili.

Le leggi italiane sull’immigrazione

La prima legge che ha inteso fronteggiare il fenomeno dell’emigrazione è stata quella dell’86, fondamentalmente una legge di sanatoria, che prevedeva, però, alcune cose importanti. Innanzi tutto concedeva agli immigrati regolari, compresi coloro che si fossero regolarizzati con quella sanatoria, gli stessi diritti degli italiani nel rispetto della loro identità culturale. Cominciava così a delinearsi un orientamento importante, anche se rimasto per gran parte sulla carta perché a quelle indicazioni non ha fatto seguito un impegno politico concreto.

Ciò non di meno, nel 1990 sorge l’esigenza di una nuova legge: la famosa legge Martelli, che è un’ulteriore legge di sanatoria, ma che definisce le caratteristiche fondamentali del fenomeno dell’immigrazione e pone per la prima volta la questione delle quote. L’afflusso di massa del 1991, soprattutto dall’Albania, ha dimostrato come sia difficile dare seguito a questa politica anche nello stesso bacino mediterraneo. Il dibattito comincia allora a diventare molto caldo, un dibattito non più solo tra studiosi, ma politico, aspro, ideologico. C’è la denuncia della diffusione del razzismo in Italia, anche se spesso l’uso di questo termine è più polemico che definitorio di processi sociali reali, mentre c’è chi vede nel moltiplicarsi di questi fenomeni migratori un attentato all’identità culturale locale e le posizioni della Lega Lombarda sono un po’ di questo tipo. Vi sono poi coloro che accettano l’immigrazione, ma solo se strettamente necessaria da un punto di vista economico (un’immigrazione di chiamata e non che fa seguito a effetti di spinta). In questo contesto si apre un dibattito molto caldo nel Paese, a tratti esagerato, con la tendenza a esasperare i toni, piuttosto che ad analizzare i reali processi sociali. Le disposizioni della nuova legge hanno in parte funzionato, soprattutto in alcune regioni del nord, in altre purtroppo no, e comunque molto resta delegato indirettamente alle organizzazioni confessionali come la CARITAS, che per altro non ha demeritato; certo sono queste stesse associazioni che sostengono che lo stato dovrebbe fare la sua parte e non sempre delegare alla chiesa e alle organizzazioni a essa legate (ma questo è un fatto ormai secolare).

Si arriva alla legge recente, presentata come quella che dovrebbe essere la prima legge organica, dopo addirittura tre anni di lavori in commissione, mi sembra che però non ci sia molto di organico: una montagna ha partorito un topolino. In Italia oggi ci sono tra i due e i tre milioni di immigrati tra regolari e irregolari. Ma con quali orientamenti si è fatta la legge? Facciamo un confronto con i principali Paesi europei, quelli in cui l’immigrazione è incominciata prima e che hanno cercato, a grandi linee, di elaborare un progetto sociale globale. Non che questo progetto sociale globale sia sempre entusiasmante, come vedremo, ma è uno sforzo che l’Italia non ha ancora fatto nonostante la recente legge organica. Sono progetti assai diversi da Paese a Paese, come già dicevo, molto radicati nelle diverse culture politiche nazionali di questi Stati e anche, in fondo, influenzati dalle stesse differenze che l’immigrazione ha assunto in ciascuno di essi. Cerchiamo di analizzarli brevemente, mettendo a fuoco, stante il titolo del nostro intervento, gli aspetti che più direttamente concernono la problematica del conflitto e dell’identità.

Il progetto francese

Iniziamo dal progetto francese. La Francia è forse l’unico Paese dell’Europa che possa essere definito veramente un Paese d’immigrazione. L’immigrazione in Francia è già incominciata nel secolo scorso e ha assolto a funzioni non soltanto economiche, ma anche demografiche. La Francia, che prima del 1789 era il più popoloso Paese d’Europa - potremmo dire che, a grandi linee, aveva cinque volte gli abitanti dell’Inghilterra - sconta nell’800 l’effetto della rivoluzione e delle guerre rivoluzionarie, oltre che di tutta una serie di altri conflitti: le prime guerre coloniali in Africa, la guerra franco-prussiana, nel nostro secolo le due guerre mondiali e l’intervento in Algeria. Tutti questi eventi rappresentano una vera falcidie di popolazione, in particolare di maschi giovani in età riproduttiva. Si aggiunga a questo che la Francia è uno dei primi Paesi in cui si diffonde la contraccezione, probabilmente per la sua cultura laicizzata e per il diverso rapporto tra città e campagna. Intanto ai confini della Francia sorge la potenza tedesca: l’industrializzazione tedesca è stata rapida e per far fronte a questa minaccia, anche sul piano militare, la Francia ha bisogno di forza lavoro e di soldati. Per questo motivo i governi facilitano un’immigrazione non soltanto di lavoro, temporanea, ma anche definitiva, ovvero un’immigrazione di popolamento. Ma come si confronta con un’immigrazione di questo tipo una cultura come quella francese dove lo Stato si identifica con la nazione e della nazione viene data quella particolare definizione: "non è francese chi non vuol essere francese", che risale ai tempi del conflitto con la Germania per le regioni dell’Alsazia e della Lorena? La Francia è un Paese che non rispetta la diversità culturale al suo interno, come ben sanno i corsi, i normanni, i franco-provenzali, gli occitani, e le altre minoranze, alcune delle quali anche consistenti. Il modo in cui la Francia si rapporta agli immigrati è, conseguentemente, quello della assimilazione, un’assimilazione culturale. L’idea è: gli immigrati divengano dei buoni francesi e acquisiscano tutti i diritti dei francesi diventando francesi. Si tratta indubbiamente di un progetto universalistico: non vi è discriminazione, almeno sul piano ideologico astratto, legata alla razza o alla cultura, però è un progetto fortemente etnocentrico, perché l’idea del buon francese è sempre la continuatrice di quella dichiarazione dei diritti dell’uomo che vedeva l’uomo come francese, senza rispetto per l’identità altrui. E’ un progetto che prevede l’assimilazione dell’immigrato, o almeno dei suoi figli : "ils fairont de bons Français", ovvero il diritto di cittadinanza per i figli degli immigrati, con l’idea che chi nasce in Francia è francese. Naturalmente con una scuola che fa diventare francesi e in generale con una società civile che favorisce questo processo. Si tratta di un modello che ha ottenuto i suoi risultati: si può calcolare oggi che almeno un quinto della popolazione francese sia o direttamente immigrata o abbia almeno uno dei quattro nonni immigrato. E’ una politica continuatrice anche di una particolare politica coloniale in cui l’assimilazione era il modo consueto di rapportarsi tra la Francia e le sue colonie. Il che significava che chi avesse adottato la lingua francese o, cosa più significativa, la religione cristiana avrebbe acquisito tutti i diritti dei cittadini francesi. Questo processo, come dicevo, ha funzionato, si può criticare sul piano etico o politico, però ha avuto un suo successo.

Malgrado tutto, questa visione del probleme delle migrazioni è entrata in crisi quando, a partire dagli anni Sessanta, l’emigrazione dai Paesi vicini (Italia, Spagna, Portogallo ecc.) è stata sempre più sostituita da un’immigrazione proveniente da Paesi più lontani. L’assimilazione era relativamente facile, anche se non sono mancati i conflitti - pensate a quello che ha visto ad Aigues Mortes un massacro di italiani all’inizio del secolo scorso - quando gli immigrati provenivano da Paesi vicini come il Belgio, dove i valloni condividono con la cultura francese tanto la lingua quanto la religione cattolica. L’integrazione per assimilazione diventa però difficile quando gli immigrati provengono da Paesi lontani, non tanto geograficamente, ma culturalmente. Diventa difficile con chi è di religione mussulmana, come gli immigrati dalle ex colonie africane, o di concezione confuciana o buddhista, come chi proviene dall’ex Indocina francese o dalla Cina. E’ vero che la scolarizzazione diffusa sul modello occidentale e in genere tutto il processo di globalizzazione hanno ridotto le distanze sul piano culturale, ma non le hanno annullate del tutto. Bisogna anche dire che il modello francese è andato in crisi su questi aspetti proprio quando sono andate in crisi le grandi agenzie di socializzazione, che erano indubbiamente una stampella portante di quel progetto: la scuola, con la sua grande crisi, l’esercito, la fabbrica e il modo di produrre tipico della fabbrica, i sindacati e i partiti politici di massa che erano una parte importante di questa integrazione sociale favorente l’assimilazione. Oggi in Francia vi è un grande problema di integrazione sociale e la mancata integrazione dei giovani immigrati o dei figli di immigrati dà spazio al conflitto.

Ho avuto modo di studiare la situazione della banlieue di Lione e di altre città e ho visto come certe ferite siano aperte e portino spesso a scontri, a volte anche molto violenti, con la polizia. In questi casi, quando accade che un giovane immigrato sia involontariamente ucciso negli scontri, questo viene percepito come l’effetto di un occhio particolare con cui la polizia controlla queste zone, nelle quali d’altra parte gli scontri sono molto gravi e portano a incendi di automobili e ad assalti ai supermercati. Le radici di queste violenze sono da ricercarsi, come dicevo, nella mancata integrazione degli immigrati, nella difficoltà di riconoscere quelle identità culturali che invece vogliono persistere. Si aggiunga a questo che l’immigrazione non è più quella dell’individuo che va solo e che è quindi più facile da assimilare, oggi l’immigrazione avviene per nuclei familiari e la stessa numerosità degli immigrati fa sì che si vengano a formare dei gruppi etnici che vogliono mantenere i rapporti con le aree di provenienza.

D’altra parte la mancanza di riconoscimento per le altre culture è congruente con un progetto che basa l’integrazione sociale sull’assimilazione, ma questo è oggi un progetto difficilmente realizzabile che si scontra con realtà culturali che resistono fortemente all’assimilazione. Spesso si tende a concentrare l’attenzione, anche da parte di molti studiosi, su una sola di queste realtà: l’Islam, che viene demonizzato. Certo l’Islam è un elemento importante di questo processo, ma quest’identità non sarebbe così forte e così ricercata, non si abbarbicherebbe in difesa di sé, se una nazione più rispettosa delle identità culturali riuscisse a creare delle condizioni di integrazione diverse.

Il progetto inglese

La Gran Bretagna ha un modello totalmente differente da quello francese. Così come è diversa la cultura politica di questi due Paesi, molto più flessibile quella britannica nei confronti dell’amministrazione di quanto non sia quella transalpina, con i diversi metodi di governo indiretto delle colonie che aveva adottato (i maharajà in India e i governatori o i viceré altrove) che stanno a testimoniare non certo un riconoscimento di uguaglianza, ma piuttosto di comprensione delle differenze culturali. Questo atteggiamento flessibile viene trasferito nella madrepatria quando incomincia a diventare significativa l’immigrazione dal Commonwealth, cioè nel secondo dopoguerra. Si trattava di un’immigrazione meno ricercata che in altri Paesi: la Gran Bretagna non aveva un gran bisogno di manodopera, anche perché gran parte del fabbisogno era pagata, semmai, dall’emigrazione irlandese. Era un’emigrazione che rispondeva, prima che altrove, a forze di "push" dai Paesi di provenienza. Con l’indipendenza dell’India britannica si determinano i conflitti che porteranno alla scissione tra India e Pakistan e, successivamente, all’ulteriore divisione tra Pakistan Occidentale e Pakistan Orientale - quello che oggi si chiama Bangladesh -, i conflitti in Africa con l’indipendenza degli stati della parte orientale e l’espulsione degli asiatici ivi trapiantati, l’afflusso di cinesi a Hong Kong, soprattutto nella fase della carestia alla fine degli anni Cinquanta. Si determinarono così flussi di interi gruppi di popolazioni , al punto tale che sarebbe più corretto parlare quasi di un trapianto di popolazioni, che vengono accettate nell’ambito di un disegno che sarebbe troppo chiamare multiculturale, ma che possiamo dire di tipo pluralistico, che riconosce alle etnie un loro relativo margine. D’altra parte, mentre in Francia si pensava che l’immigrato potesse diventare un buon francese, nessuno, in Gran Bretagna, si aspettava che un immigrato diventasse un buon inglese. C’era dunque questa tolleranza, condita da un certo distacco, ma le difficoltà sorgevano su un altro fronte. Visto che la discriminazione razziale è così tanto lontana dalla mentalità inglese, gli interventi legislativi furono tutti tesi a prevenire le manifestazioni di carattere razzista e la legislazione inglese, in questo campo, ha aperto la strada a quella di molti altri Paesi, ma i problemi e le tensioni sorsero allorché entrarono in crisi le grandi città nate dalla prima industrializzazione inglese: Manchester, Birmingham, Liverpool.

In una politica di pluralismo ineguale viene riconosciuta la possibilità di mantenere le proprie identità culturali più di quanto non sia sicuramente in Francia, però direi che vi è sempre l’idea che la guida del Paese deve rimanere saldamente nelle mani della maggioranza, cioè degli anglosassoni, che sono effettivamente, almeno per ora, la maggioranza. Non si tratta quindi di una società multiculturale come quelle di cui a volte si favoleggia, ma piuttosto di una tolleranza della diversità, con difficoltà, conflitti presenti, ma anche con una grande vivacità. La prognosi, come diceva uno studioso anglosassone, è riservata: la Gran Bretagna un giorno potrà diventare, forse, una buona società multiculturale, ma potrebbe anche diventare un Paese di grandi tensioni.

Il progetto tedesco

La Germania è il più grande Paese europeo di immigrazione, conta nei suoi confini poco meno di otto milioni di immigrati regolari, e continua oggi, a più di 40 anni da quando l’immigrazione ha preso abbrivio in quel Paese, ad affermare, in tanti documenti di politici e amministratori: "la Germania non è un Paese d’immigrazione". Dopodiché si può discutere di tutto: dell’integrazione, delle misure di controllo delle frontiere, ecc. Insomma, la Germania ha sempre rifiutato e continua a rifiutare l’immigrazione e l’integrazione degli immigrati, ovvero, in breve, che essi entrino a far parte veramente della popolazione del Paese con una piena parità di diritti. Nei primi anni l’immigrazione in Germania ha assunto una particolare fisionomia, quella dell’immigrazione temporanea per motivi di lavoro, in cui l’immigrato andava a supplire alla scarsità di manodopera locale per un tempo limitato, con reciproca soddisfazione. Ma il paradosso è che, nell’anno della grande crisi, il 1973, quando tutti i Paesi, Germania compresa, chiudono le frontiere, molti immigrati - si stima circa l’80% - non ritornano al proprio Paese d’origine, anzi, con l’aiuto di leggi umanitarie, attuano il ricongiungimento familiare e l’immigrazione si trasforma da temporanea e rotatoria in stanziale e definitiva. Per la prima volta la Germania conosce quella che i sociologi chiamano una "popolazione nata dall’immigrazione", ma qual è la cultura politica della Germania riguardo a questi problemi?

La Germania (così come l’Italia) è un Paese in cui lo stato nazionale si è formato tardivamente, in cui la nazione, intesa come gruppo ideologico di appartenenza su basi etnico-culturali, è nata molto prima dello stato unitario. Quello che conta, in questa ottica, è l’appartenenza al "popolo tedesco", più che non l’appartenenza a un determinato stato e gli eventi, anche recenti, della storia del nostro secolo hanno evidenziato drammaticamente questo aspetto. All’indomani della Seconda Guerra Mondiale, le grandi potenze vincitrici avevano imposto la divisione del Reich in due stati, la Repubblica Federale Tedesca e la Repubblica Democratica Tedesca, ma quello che continuava a importare nella coscienza collettiva era l’appartenenza al "popolo tedesco". Tanto è vero che il riconoscimento dei pieni diritti era automatico per coloro che dalla RDT passavano alla RFT, perché, appunto, appartenevano al "popolo tedesco". L’importanza che per i tedeschi ha questa omogeneità e la difesa strenua di questa omogeneità di popolo hanno costituito il maggior freno all’integrazione degli immigrati. Certamente non era come ai tempi dell’ideologia razzista della pulizia etnica, ma certi aspetti della cultura politica tedesca in tal senso persistono ancora oggi, tant’è che il principio fondamentale di cittadinanza in Germania è pur sempre quello della cittadinanza di sangue, per discendenza. I figli degli immigrati turchi nati in Germania continuano a essere cittadini turchi, mentre i tedeschi emigrati anche 300 anni fa, al tempo di Caterina la Grande, in Russia, nella valle del Volga, se rientrano in Germania, dopo tre settimane acquisiscono la cittadinanza tedesca perché appartengono al "popolo tedesco". Una discussione su questi temi c’è, ma è ancora marginale e la situazione rimane di questo tipo. Numericamente questo si può anche notare dal fatto che, nonostante dal 1993 la Francia abbia limitato gli accessi alla cittadinanza e la Germania abbia un po’ facilitato le cose, la Germania ha il doppio di immigrati della Francia e solo un ottavo delle sue naturalizzazioni, proprio in virtù di questo diverso concetto di diritto di cittadinanza.

Non si può dire, però, che non si sia fatto nulla: fin dal 1973 si è parlato in Germania di una "integrazione temporanea" per gli immigrati, ma in quegli anni era difficile mettere in pratica questo tipo di programmi. Più recentemente abbiamo avuto la caduta del muro di Berlino, l’unificazione tedesca e tutti i problemi a essa connessi. I cittadini tedeschi della Germania orientale, spesso in condizioni economiche e sociali difficili più di quanto non lo siano alcuni immigrati di Paesi anche lontani, si sono ritrovati a stretto contatto con una realtà totalmente diversa, come quella della Germania Ovest. Non è un caso che i più gravi contrasti, di cui anche la nostra stampa ha parlato, tra tedeschi e immigrati siano avvenuti in grandi città della Germania orientale. Basta pensare a Rostock, il grande porto sul Baltico. I contrasti sono stati gravi e hanno coinvolto anche cittadini italiani immigrati, ma c’è una speranza. Il presidente della RFT, von Weizsäcker, proprio parlando davanti alle bare degli immigrati turchi bruciati vivi a Solingen, si è riferito agli stranieri immigrati in Germania col termine di "concittadini tedschi", e questo è un segnale importante, per quanto indubbiamente un po’ di circostanza.

Bisogna anche segnalare un’altra cosa: parlavo prima di grandi città tedesche, ma la città tedesca con la più alta percentuale di immigrati, Francoforte, è una città che, per il momento, non ha conosciuto grandi conflitti. La cosa non è casuale, a mio parere, e in fondo smentisce in parte quelle teorie un po’ banali sulle soglie della tolleranza in termini meramente quantitativi e percentuali. Francoforte è una città la cui amministrazione ha affrontato il problema dei conflitti: vi è un’istituzione , voluta da un assessore verde, un protagonista, ormai anziano, del maggio francese (Rudi Dutshe n.d.c.), che si occupa di conflitti affrontandoli con i metodi della mediazione sociale e possibilmente prevenendoli. Con un termine inglese si direbbe che è un early warning system, ovvero un organismo che sa leggere per tempo i segni del mutamento sociale; qualche cosa si è stati capaci di realizzare, ed è un’esperienza che andrebbe meditata e riproposta.

Conclusioni

In Italia, altro che early warning system! Vi ricordate quando il sindaco di Milano, Pillitteri, il famoso cognato, gridava "razzisti! fascisti!" riferito ai poveri tramvieri che non erano proprio entusiasti della presenza dei marocchini che campeggiavano nel centro creando non pochi problemi? Un sindaco cosa deve fare? Innanzi tutto applicare la legge, non chiamare fascisti dei cittadini che si lamentano per dei disagi sociali reali, casomai dare un tetto a questi immigrati, se è possibile, e, nello stile italiano, aprire dei varchi. Questo caso è, d’altra parte, la punta di un iceberg di una mancanza di consapevolezza critica su questi argomenti molto diffusa nel nostro Paese in cui spesso ci si è limitati a un astratto dibattito ideologico tra i buoni che sono per una società multiculturale e i cattivi razzisti. In realtà la situazione è molto più complessa: si tratta di decifrare le situazioni di disagio reale che si determinano in questa situazione, affrontarle criticamente con gli strumenti adatti che sono spesso quelli del contenimento degli arrivi incontrollati che vi sono stati e di un controllo sul territorio - voi a Torino sapete bene quanto bisogno ce ne sia nelle nostre città - per rispondere in maniera adeguata a problemi sociali reali; poi, naturalmente, centri di assistenza per chi arriva, per consentire l’integrazione in maniera più semplice a questi che saranno domani nostri concittadini, registrarli, prepararli per quest’integrazione che non sarà certo facile, ma, per lo meno, è possibile. Questa situazione può essere, come oggi spesso si dice considerandolo un fatto automatico (anche se non lo è per nulla) occasione di reciproco arricchimento per tutti; può esserlo, dicevo, ma a determinate condizioni: politiche serie, con interventi coordinati e la capacità di intervenire in maniera efficace, in altre parole direi semplicemente con una politica meno condizionata da un dibattito astratto e ideologico.
 


Globalizzazione e trasformazioni del lavoro
(la presente trascrizione non e' redatta dalla conferenza del 2 aprile 1998, ma proviene da un testo dello stesso autore)


Marco Revelli

 

Prima di entrare direttamente nel merito del rapporto tra globalizzazione e lavoro, vorrei fare una breve precisazione terminologica sul concetto di globalizzazione. Questo termine era pressoché sconosciuto in Italia fino a pochi anni fa, per lo meno nei circuiti, sempre un po’ oscillanti tra l’effimero e l’improvvisato, del dibattito politico e giornalistico. Se voi andate, a spulciare il dibattito politico e gli articoli di giornale, fino al 1992 non trovate questo nome. Oggi con la stessa baldanzosa superficialità è diventato un luogo comune, l’ingrediente obbligato - un po’ come quelle spezie che occultano il sapore dei cibi - di ogni predica sulle riforme sullo stato sociale, sulla flessibilità del lavoro, sui parametri di Maastricht, sui turbamenti nei mercati finanziari, ecc… Sempre comunque con la medesima genericità di impiego, sul piano concettuale, come se la globalizzazione fosse un fenomeno unitario. E sempre con la stessa imprecisione temporale, come se la globalizzazione fosse fenomeno dell’immediata attualità, come se fosse "nata ieri", per così dire. Come se fosse fenomeno esclusivo degli anni ‘90. In realtà, il termine risale all’inizio degli anni ‘80, quando incominciarono ad usarlo le Manager Business School di Harward, della Columbia University, di Stanford. Nasce lì, nelle scuole di gestione aziendale americane, il termine. E sta ad indicare un fenomeno assai complesso, tutt’altro che unitario, comprendente una pluralità di processi tra loro variamente interconnessi e tra loro differenti per durata, per data di origine e per velocità di scorrimento.

La scuola francese, per esempio, che più di altre si è dedicata all’analisi terminologica, alla specificazione del termine, e che si è sforzata (per usare l’espressione loro) di "déchiffrer des môts chargées d'idéologie", di decifrare delle parole cariche di ideologia, non neutrali, tutt’altro che tecniche, individua all’interno di questo fenomeno (che preferisce chiamare "mondializzazione" lasciando il più impegnativo "globalizzazione" agli anglosassoni) per lo meno tre processi: un primo processo di mondializzazione dei mercati delle merci (di mondialization marchande, di mondializzazione commerciale, per così dire, di mondializzazione mercantile); un secondo processo di mondializzazione degli investimenti diretti delle imprese all’estero, o di mondializzazione della produzione, della distribuzione su scala mondiale dei processi di lavoro, che è, ovviamente, altra cosa dalla mondializzazione delle merci; e infine un terzo processo di mondializzazione finanziaria, di mondializzazione o globalizzazione dei mercati dei capitali.

Tre processi, tutti e tre determinati, per certi versi, dalle caratteristiche di fondo di quella che potremmo chiamare "la terza rivoluzione industriale": quella che è in corso, con la grande trasformazione che stiamo vivendo. Se la Prima rivoluzione industriale è quella legata alla nascita della manifattura semplice, all'uso del vapore come energia produttiva; e la Seconda rivoluzione industriale, che potremmo collocare nel passaggio tra Ottocento e Novecento, è quella collegata con la nascita della produzione di massa, della grande fabbrica standardizzata, dell’organizzazione scientifica del lavoro, del taylorismo; il processo che stiamo vivendo, segnato dalla rivoluzione dei trasporti (containers e aerei cargo, tanto per intenderci) e dalla rivoluzione delle telecomunicazioni (satelliti più informatica), non può che essere considerato, a pieno titolo, come la "terza rivoluzione industriale".

 

Solo qualche dato per dare l’idea della portata dei fenomeni e della loro capacità di unificazione dello spazio globale. Per quanto riguarda la rivoluzione dei trasporti, nel 1953 poco meno di mezzo secolo fa, il traffico internazionale di merci per via aerea era di 350 milioni di tonn./km.(che è un’unità di misura dell’intensità del traffico merci); nel 1963 era già salito a 1 miliardo e 700 milioni; nel 1976 raggiungeva i 13 miliardi e 300 milioni e nel 1992 il traffico è stato di oltre 62 miliardi di tonnellate: questa è l’espansione che ha subito la circolazione delle merci a livello internazionale (stiamo misurando il commercio internazionale). Contemporaneamente il volume di merci trasportate per nave cresceva del 500% e quello trasportato per ferrovia del 300% (si parla sempre di trasporti internazionali). La quantità, il volume "di cose" che si spostano attraverso i confini si è moltiplicato enormemente e si sono moltiplicate le distanze, che le merci percorrono.

Per le telecomunicazioni, d'altra parte, basti pensare che ancora nel 1965 esisteva solo un cavo telefonico transatlantico, che non poteva trasmettere più di 89 chiamate simultaneamente tra Europa e America. E di poche decine di chiamate era la portata della comunicazione attraverso il Pacifico. Oggi la rete cablata e il sistema satellitare, a livello globale, permettono di gestire circa 1.000.000 di chiamate simultaneamente attraverso l’Atlantico e di raggiungere in pochi istanti uno qualunque del miliardo e duecento milioni di terminali distribuiti in 190 paesi. Trent’anni fa, una telefonata transatlantica di tre minuti, costava in media 18 dollari (al valore di allora che sono 90 dollari al valore attuale); oggi la stessa telefonata costa da un dollaro a un dollaro e cinquanta. Questo può dare l’idea della trasformazione nella gestione dello spazio,sia sul pianodella velocità che su quello dei costi.

Tre processi - quelli a cui abbiamo fatto riferimento prima -, dunque, che affondano le radici nelle grandi trasformazioni tecnologiche proprie della Terza rivoluzione industriale; che ne sono innescati, determinati e accelerati, e che sono destinati a loro volta a trasformare radicalmente le condizioni organizzative e sociali del sistema produttivo industriale e del sistema economico. A cambiare la natura del "modello" che ha dominato la parte centrale del Novecento e che abbiamo appunto definito come "il fordismo": un sistema che era un intreccio di organizzazione del lavoro e di organizzazione dell’impresa, di forme di rappresentanza sociale e di dinamica del con?itto, di strutture di amministrazione pubblica e di forme di Stato, che hanno segnato e caratterizzato il tipo di società che abbiamo conosciuto fino ad ora, in cui siamo cresciuti, in cui si sono formati i nostri sistemi politici, le nostre strategie di vita. Esso intrecciava e combinava, lo dicevo prima, produzione di massa standardizzata e con?itto industriale basato sulla rottura e sulla mediazione, sullo sciopero e sul contratto, facendo della forma del contratto il suo istituto più tipico, capace di regolare le relazione industriali; del sindacato di industria e del sindacato confederale il suo strumento di rappresentanza sociale; e dello Stato sociale un fondamentale meccanismo di regolazione delle relazioni sociali, un efficace strumento di ridistribuzione del reddito, che serviva contemporaneamente a garantire sicurezza alle classi lavoratrici e a sostenere e rendere razionale la domanda a favore del capitale industriale. Questo faceva lo Stato in quello che, dal nome dell’economista che più compiutamente ha teorizzato tutto ciò, John Maynard Keynes, è stato chiamato "il keynesismo": una teoria economica e insieme un meccanismo di regolazione sociale che attraverso lo Stato riusciva a realizzare un compromesso tra classi lavoratrici e capitale (il cosiddetto "compromesso keynesiano") di particolare efficacia perché tale da dar vita a un "gioco a somma positiva" - per così dire -, nel quale cioè entrambe le parti avevano qualcosa da guadagnare. Sono questo modello e questo gioco, appunto, che vengono sfidati - sfidati pesantemente - dalle innovazioni che caratterizzano il momento attuale: dai tre processi che ho descritto prima.

 

Possiamo provare a esaminare come ognuno di questi tre processi finisca per intaccare o mettere in crisi un aspetto del fordismo. Incominciamo dal primo: il processo di mondializzazione dei mercati (quello che abbiamo chiamato la mondializzazione mercantile). E’ il processo che è incominciato per primo (risale per lo meno agli anni ‘60, e forse ancora prima), e che coincide, per molti versi, con l’americanizzazione post bellica, con l’inizio di questo lungo dopoguerra. E' un processo che ha strettamente a che fare con l’aspetto comunicativo e culturale, con il formarsi di un sistema dell’informazione e delle comunicazioni esplicitamente e compiutamente internazionale, capace di comunicare contenuti e valori al di là dei confini: un sistema che sicuramente non può essere contenuto entro i confini degli Stati nazionali e che attraverso i suoi molteplici canali - la televisione, la pubblicità, lo stesso cinema -, ha prodotto una relativa e crescente uniformazione dei gusti, delle preferenze e quindi anche della domanda di merci, non più localizzata, non più segmentata su base nazionale, sempre più omogenea, sempre più ampia. Io tendo a leggere il '68 - il 68 internazionale - come il primo fenomeno dispiegato che giunge a far esplodere alla superficie questo processo di internazionalizzazione culturale che era andata avanti sotto la superficie, e che trova come veicolo una generazione che aveva incominciato a condividere gli stessi simboli, gli stessi miti, le stesse musiche, gli stessi libri (non c’erano più culture nazionali, c’era sempre di più una cultura giovanile transnazionale, che attraversava i confini e produceva linguaggi). Il '68 è stato, per certi versi, la forma eversiva della globalizzazione. Ma ce n'era, al di sotto, un’altra, ben più conformistica, per certi versi, che era l’uniformazione del consumo delle merci, l’uniformazione e l’omologazione nelle preferenze di consumo. Oggi, gli apologeti del neoliberismo, si compiacciono che - cito da un recente articolo di Sergio Romano - "in India, dove vi sono 900 milioni di abitanti esistano ormai 150 milioni di consumatori, desiderosi di imitare le abitudini di vita delle società af?uenti". E salutano con entusiasmo le dichiarazioni del direttore dell’organizzazione per il commercio mondiale, il mitico WTO, l’organismo che ha sostituito il GATT nel regolare il commercio internazionale, secondo il quale - cito ancora -, "nell’ultima generazione due miliardi di nuovi produttori-consumatori hanno fatto il loro ingresso nel mercato mondiale, per il crollo delle barriere culturali e doganali, che prima segmentavano i mercati". Per questa via, costoro rivelano un aspetto effettivo dell’economia mondiale di fine millennio: la tendenziale dissoluzione dei mercati nazionali, fino a ieri divisi non solo dalle sbarre doganali e dai dazi, ma anche dai gusti dei consumatori, e la loro crescente integrazione e interdipendenza; la formazione, almeno per alcuni beni strategici come automobili, elettrodomestici, computer - ma anche per alcuni generi di consumo simbolo come le t-shirt universali, i cappelli da baseball americani, le scarpe da ginnastica Nike, i jeans, gli occhiali da sole, e così via - di un unico mercato mondiale integrato. Anche se nello stesso tempo tacciono un secondo aspetto altrettanto (anzi direi ben più) reale di quella omologazione virtuale, simbolica della nuova realtà: dimenticano il fatto che di quei due miliardi di uomini nuovi per l’economia, una parte consistente potrà diventare solo produttore reale, ma non contemporaneamente anche consumatore reale; solo una minima parte di quei due miliardi potrà trasformare le proprie aspirazioni a un consumo opulento e omologato in realtà, in domanda effettiva (si pensi che per un lavoratore cinese, reddito medio 400 dollari all’anno, occorrerebbero più di 20 anni di lavoro, senza spendere un centesimo, accumulando tutto ciò che si guadagna, per acquistare quella stessa utilitaria per la quale a un lavoratore europeo bastano 10 mensilità di salario). Da questo intreccio, di realtà della produzione (due miliardi di individui sulla terra sono realmente potenziali produttori, possono diventare forza lavoro, possono essere messi al lavoro nella produzione di merci opulente) e di virtualità del consumo, che rimane per ora una promessa, nasce la natura per certi versi inedita del mercato globalizzato. Un mercato che è, insieme, spazialmente infinitamente più vasto e omogeneo dei precedenti mercati nazionali e nello stesso tempo più saturo e meno dinamico di quelli. Un mercato in cui, laddove c’è una disponibilità di reddito per acquistare le merci più tipiche della "civiltà industriale", come in Europa per esempio, c’è tuttavia un deficit di domanda, una sostanziale saturazionje del mercato (ormai più di un europeo su due possiede un'auto, o un elettrodomestico) mentre dove esisterebbe una domanda effettiva da soddisfare, come nel Terzo mondo, nell’infinita area in cui ancora 4 miliardi di uomini vivono con livelli di consumo minimi, là c’è uno strutturale deficit di reddito e quindi di domanda reale.

Di qui, da queste caratteristiche inedite del mercato post-fordista, nasce il carattere inedito della competitività tra le imprese: quel tipo di competitività che il Gruppo di Lisbona ha definito con il termine "competitività globale", intendendo con ciò una situazione in cui tutti i produttori competono con tutti gli altri produttori in ogni punto del pianeta; un nuova geografia economica in cui le imprese si contendono le nuove microdomande che si attivano, spesso senza preavviso, in un tessuto che è saturo al centro e che tutt’al più si apre in periferia. Oggi i grandi produttori di auto presidiano l’Europa, gli Stati Uniti, il Giappone - dove si tratta di gestire una domanda di sostituzione, e dove non si fanno profitti perché i costi della competizione sono altissimi (dove, in gergo, si conviene che "non c'è trippa per gatti") - e corrono tutti nelle semiperiferie, nel Mercosur (che è il mercato dell’America Latina tra Brasile e Argentina), in Polonia (dove si spera che i paesi ex socialisti esprimano un domanda), in Turchia… nelle aree fino a ieri ecluse, in cui si aprono dei piccoli mercati locali che tendono a essere tuttavia rapidamente saturati. E' finita l'epoca i cui esistevano singoli mercati nazionali relativamente protetti dal gusto degli acquirenti e anche da barriere protezionisti dove l’impresa leader, il "campione nazionale", poteva sviluppare l’intera propria potenzialità produttiva: il nuovo sistema, è un sistema a tutto campo e molto frammentato; si compete a colpi di innovazione di prodotto (di rapidità nell'arrivare sul mercato con qualcosa di più degli altri) e di innovazione di processo (la capacità di modificare il processo di lavoro in modo tale da rendere la propria produzione più ?essibile, più rapida e quindi più capace di raggiungere i segmenti, le nicchie di mercato che improvvisamente si aprono e promettono di offrire una domanda), con l’obbiettivo, appunto, prioritario e ossessivo di arrivare sempre prima del concorrente globale e di prosciugare queste domande di nicchia.

E’ una situazione del tutto inedita, rispetto al modello fordista: quello che si è generato negli Stati Uniti all'inizio del secolo, che è decollato a cavallo della prima guerra mondiale e che è sbarcato in Europa nel secondo dopoguerra. Tale modello si affidava alla pianificazione di fabbrica di lungo periodo e all’operatività delle cosiddette economie di scala: produzioni di grandissimi volumi di pezzi tutti uguali (milioni di auto tutte uguali, milioni di componenti tutte uguali) contando sul fatto che tanto più grande era il numero di pezzi prodotto, tanto maggiore era la possibilità di ridistribuire i costi fissi (quello che si spendeva per gli impianti, quello che si spendeva per i salari) in modo tale da ridurre il costo per unità di prodotto e quindi anche il prezzo del prodotto. La produzione fordista pianificava e riduceva i costi crescendo, ampliando il raggio di mercato. Essa, si può dire, produceva il mercato riducendo i costi: quanto più riduceva i costi, tanto maggiori erano le fasce di popolazione che si potevano raggiungere. L’esempio della Ford modello T, che è quella che ha generato il paradigma fordista, è esemplare: quando Ford incomincia la produzione del suo modello T, circolavano negli Stati Uniti poco più di 150.000 auto, in un paese che aveva allora poco meno di 100 milioni di abitanti. Esisteva quindi un campo vergine aperto. Esisteva la possibilità di motorizzare cento milioni di individui con stabilimenti dotati di una capacità produttiva annua di non più di 10.000 autoveicoli, offerti ad un prezzo di circa 1.000 dollari l'uno. Due anni più tardi era in grado di moltiplicare per 10 la propria produzione e di ridurre a 600 dollari il costo. Andò avanti fino a produrre 1.000.000 di auto Ford modello T all’anno, facendole pagare neno di 300 dollari e conquistandosi così quote crescenti di mercato.

Questa era la situazione in cui è nato il fordismo: una situazione in cui il produttore gode di un’assoluta superiorità sul consumatore; in cui il consumatore è nudo e il produttore è in grado di rifornirlo. La Fabbrica gode di un’assoluta capacità di dominio sul Mercato. Il mercato, purché si adeguino i prezzi, è in grado di assorbire qualsiasi prodotto che la fabbrica genera. Il motto del produttore fordista era: "tutto ciò che si produce è venduto". Su questo presupposto si giustificavano gli enormi investimenti, le procedure piuttosto macchinose, la burocratizzazione di questo modello industriale.

E’ chiaro che la rivoluzione in atto oggi, cambia totalmente il quadro. Oggi la fabbrica è più debole rispetto al mercato. Il produttore dipende dal consumatore. Oggi la fabbrica non può pianificare la propria produzione su un mercato vuoto, ma è costretta ad adeguarsi alle bizzarrie, ai comportamenti effimeri, all’eccentricità e all’imprevedibilità di un mercato denso, spesso, affollato, che può impennarsi e può cadere, accelerare e rallentare nel giro di poche settimane. Oggi la fabbrica è costretta a subire il disordine del mercato. Antonio Gramsci, negli anni Trenta, poteva ancora immaginare il fordismo come il modo attraverso cui la razionalità di fabbrica viene imposta alla società. Oggi è la fabbrica che deve subire il disordine della società, deve imparare a "respirare" in qualche modo con il mercato, deve imparare a "navigare a vista" e far fronte alle imprevedibili svolte di un mercato che procede per piccoli lotti. Oggi non si può più contare sull’economia di scala per lo meno nella forma "totale" con cui essa operava fino a un ventennio fa - non si può più ragionare come Ford e dire: "ognuno è libero di scegliersi la Ford modello T che preferisce, purché sia nera". Oggi occorre imparare a intercettare i "pallini" del consumatore, i tick del consumatore, ed essere in grado di fornirgli just in time, nel momento stesso in cui esprime la propria domanda, il prodotto di cui questo ha bisogno. E’ un rovesciamento radicale.

L’inventore del sistema Toyota, l'ingegnere giapponese Taiichi Ohno l’ha espresso in modo molto sintetico, quando ha detto che oggi, rispetto al modello fordista si tratta di imparare a realizzare la quadratura del cerchio, e cioè ridurre i costi senza aumentare il volume dei prodotti; ridurre i costi, e quindi competere a costi minori con gli avversari globali, in una situazione di crescita lenta o di crescita zero, quale è quella che caratterizza oggi il mercato dell’auto nelle zone centrali. E la risposta è stata la ?essibilità totale, la qualità totale, la fabbrica integrata, diavolerie come il just in time, il kan ban, il kai zen, termini tecnici che ci arrivano dal Giappone e che in sostanza possono essere ricondotti a questa filosofia aziendale: si riducono i costi a parità di volume di prodotto, facendo "dimagrire la fabbrica" - questa produzione si chiama infatti lean production, produzione snella - eliminando quelle che i teorici di questa organizzazione del lavoro chiamano le "sacche di grasso", cioè i tempi morti, le quantità di manodopera che crescono, il magazzinaggio, tutti gli addetti alla logistica, tutti gli addetti al controllo e al collaudo, costringendo chi lavora a esercitare contemporaneamente delle facoltà di concetto, in qualche modo, a controllare la qualità del prodotto e non solo a erogare in modo impersonale il proprio lavoro. Questa è la nuova fabbrica, il just in time cosa significa? Significa che si aboliscono tutti i magazzini, tutte le aree di stoccaggio che permettevano di accumulare i pezzi prodotti in attesa di utilizzarli, e ci si organizza per far arrivare sulla linea di montaggio i pezzi esattamente nel momento in cui servono ed esattamente nella quantità in cui servono. Ci si organizza per produrre per il mercato la quantità di auto, o la quantità di elettrodomestici, esattamente nella misura che il mercato vuole, non ununità di più, non una di eno, esattamente nel momento in cui il cliente lo richiede, non prima, non dopo. Non si vedranno più gli immensi piazzali della Fiat con le decine di migliaia di auto in attesa di essere avviata ai concessionari.

Il meccanismo della produzione non parte più dal centro per andare verso la periferia, ma ha dei sensori sul mercato per risalire il ciclo lavorativoe, ridefinendo il modo di lavorare, istante per istante, settimana per settimana, mese per mese, sulla base di quello che domanda il mercato. La fabbrica, in sostanza, deve imparare a dimensionarsi sui movimenti nervosi del mercato. Per questo non può più funzionare con le procedure burocratiche di prima. E deve chiedere ai lavoratori una disponibilità totale: disponibilità di tempo, di fantasia, di creatività, un’adesione piena all'"azienda" quale nemmeno il fordismo più feroce pretendeva dai propri dipendenti.

L’effetto sociale è dirompente. Con questa innovazione, infatti, si spezza quel circolo virtuoso tra crescita industriale e occupazione che aveva dominato i decenni centrali del Novecento e in particolare quelli che vengono chiamati, dai francesi, "le trenta gloriose", il trentennio che va dal 1945 al 1975, dominato dalla crescita presoché costante della produzione e dei consumi, a ritmi mai più eguagliati. Allora, nel modello fordista, l’impresa cresceva insieme all’occupazione: cresceva il volume delle merci, ma cresceva con un tasso di crescita superiore a quello della produttività del lavoro, cosicché generava nuova occupazione. Il nuovo modello, cresce dimagrendo. Il nuovo modello industriale riesce a realizzare la crescita, dei volumi produttivi e dell’accumulazione dell’impresa, distruggendo occupazione. Abbiamo una ricerca abbastanza interessante, svolta in Germania, su un arco di alcuni decenni e riportata in un bel libro di Guy Aznar, Travailler moins pour travailler tous (tradotto in Italia da Bollati Boringhieri) che dimostra esplicitamente questa inversione di tendenza: con essa si è cercato di misurare l’impatto sui livelli occupazionali dell’investimento in innovazione industriale di una cifra fissa di 100 miliardi di marchi in fasi cronologiche diverse. Ci si è accorti che, tra gli anni '50 ed i primi anni ‘60, questa cifra investita produceva circa 500.000 posti di lavoro. Alla fine degli anni '60, nel periodo immediatamente successivo, ne creava solo più 40.000. Nel quinquennio successivo ne sopprimeva 100.000alla fine degli anni '70 il medesimo investimento giungeva a distruggere circa 500.000 posti di lavoro. Proprio perché ora, le macchine e l’organizzazione erano in funzione del dimagrimento della fabbrica (erano in funzione della sostituzione degli uomini). E questo ci spiega perché in Europa, il prodotto interno lordo è in media, nel periodo degli ultimi 20 anni, quasi triplicato mentre la disoccupazione è balzata alle stelle, fino a raggiungere oggi circa i 20.000.000 di disoccupati su scala continentale. Questa disoccupazione non è più il prodotto della crisi dello sviluppo, di un blocco temporaneo dello sviluppo, che si tratta di rimettere in moto; è, al contrario, il modo con cui le nostre società si sviluppano. E' una forma della crescita; è il prodotto della crescita.

 

Questo per quanto riguarda il primo punto (mi sono dilungato molto su questo perché ha un effetto trainante, gli altri saranno un po’ più brevi). Il secondo processo che sostanzia la globalizzazione, è - come dicevo - il processo di mondializzazione della produzione. Questo incomincia un po’ più tardi rispetto a quello del mercato, alla metà degli anni ‘70 con quello che allora si fdefininì con l'espressione "decentramento produttivo". Le grandi industrie incominciano a trasferire all’esterno una serie di produzioni che prima svolgevano al proprio interno. Prima, vicino, nelle immediate vicinanze della fabbrica-madre, nell’"indotto"; poi, con la razionalizzazione dei trasporti, ed il loro diminuito costo, sempre più lontano, allungando le catene della sub-fornitura verso fornitori sempre più delocalizzati. Questo fenomeno i tecnici lo chiamano: la transnazionalizzazione del processo di lavoro. Michael Porter, uno dei più accreditati teorici delle "strategie aziendali" lo chiama: la transnazionalizzazione della catena del valore (delle diverse attività che costituiscono le diverse fasi del processo di valorizzazione aziendale: progettazione, marketing, assemblaggio, commercializzazione, ecc.). La catena degli atti attraverso i quali viene valorizzato un prodotto si allunga, esce dallo stabilimento, passa nel territorio, attraversa i confini nazionali, diventa globale.

Anche qui, si registra un rovesciamento di 180 gradi, rispetto al modello fordista. Il modello di Ford organizzava centralizzando. In esso, organizzare voleva dire concentrare in un unico spazio omogeneo (uno stabilimento, appunto) la maggior parte di funzioni produttive e sottometterle ad un’unica catena di comando. Così si organizzavano le cose dall'inizio del secolo fino a circa un ventennio fa. E così si pensava: il mercato è disordine, l’organizzazione aziendale mette ordine. La "mano invisibile" del mercato non garantisce, la "mano visibile" dell’organizzazione permette di rendere razionale il combinarsi di diversi processi parziali di lavoro in un unico flusso integra, garantendo attravreso procedure formalizzate e stabili la simultaneità, tra le diverse funzioni. Sono nati così grandi, grandissimi stabilimenti industriali, come la Ford di River Rouge: uno stabilimento di oltre 1.000 acri di area, strutturato intorno a un’asse centrale, con le materie prime che arrivano mediante grandi chiatte e per ferrovia ad un capo, vengono lavorate all’interno e all’altro capo esce l’auto finita. O come Mirafiori a Torino: 3 milioni di metri quadri di area industriale, di cui un milione e mezzo coperti, 200 chilometri. di convogliatori aerei, di linee di montaggio, 40 Km. di ferrovia interna. Il gigantismo industriale rispondeva a questo modello. Il postfordismo invece rovescia questa dimensione, incomincia a concepire l’impresa come una struttura a geometria variabile, capace di dislocare i propri segmenti produttivi, anche al di la dei confini.

Io vorrei leggervi solo una citazione di uno che se ne intende, perché è stato il direttore della McKinsey & Company di Tokio (la McKinsey è una delle più grandi agenzie di consulenza aziendale globale, raccoglie i consulenti delle grandi imprese globalizzate): Kenichi Ohmaee, il quale ha scritto un libro-provocazione intitolato The End of nation State (tradotto in Italia da Baldini & Castoldi). Scrive che oggi, grazie alla telematica, alle reti globali, alla precisione con cui le macchine utensili eseguono programmi di computer, è possibile immaginare un’azienda, che produca qualsiasi tipo di merce (dalle auto all'elettronica di consumo) la quale abbia sede a Singapore (città-stato che offre particolari condizioni di agilità nel costituire imprese), ma che scelga di svolgere la progettazione del prodotto in India (dove ci sono tecnici ad altissimo livello, ingegneri progettisti che prendono salari da 7 a 10 volte inferiori a quelli occidentali); l’ingegnerizzazione del prodotto a Kuala Lampaur, in Malesia, localizzando i propri servizi finanziari ad Hong Kong (fino a ieri paradiso finanziario e in parte anche fiscale), e appaltando la produzione ad aziende situate in diverse regioni della Cina (nei cosiddetti "distretti speciali" dove i salari sono da 80 a 100 volte inferiori a quelli europei), nelle quali si lavora sotto la guida di stazioni telematiche ubicate a Bangalore, nell’India meridionale, per vendere poi il prodotto negli Stati Uniti o in Europa. Un’impresa "a rete", dunque, capace di andarsi a prendere servizi e componenti in qualunque parte del mondo, esclusivamente in base al rapporto costo/qualità. E non è fantascienza, se pensate che la Fiat, per esempio, per quanto riguarda i sedili della Bravo e della Brava, impiegano tessuti che vengono fatti nel biellese, da un’impresa a capitale inglese, poi spediti in Ungheria per essere cuciti e infine rispediti a Mirafiori per essere montati sulla macchina. Tutti i tessuti, tranne il velluto, che nel trasporto si acciacca e che quindi viene cucito in Italia.

La realtà è quindi quella di un'inedita, strordinaria "mobilità" del capitale, che è in gardo sempre più di prescindere dal "territorio" - per lo meno da quello di origine -; di "emanciparsi dal territorio, e di fare il proprio shopping industriale in giro per il mondo, costringendo per certi versi gli Stati - che al territorio rimangono implacabilmente ancorati, a praticare forme di dumping sociale (dumping sociale significa concorrenza sleale abbassando forzatamente i costi sociali, e dunque le granazie della manodopera locale). Gli Stati competono tra di loro per attirare sul proprio territorio investimenti industriali, anche a costo di diminuire le garanzie del lavoro, di abbassare i livelli contrattuali, di offrire alle imprese benefici fiscali e infrastrutture sotto costo. E' di pochi mesi fa la notizia che negli Stati Uniti si è svolta una vera e propria asta tra i diversi Stati per attirare la localizzazione di uno stabilimento della Mercedes, il quale si è localizzato in Pennsylvania dove ha ottenuto le migliore condizioni dal punto di vista normativo, salariale, di infrastrutture e così via. Questa è diventata la situazione, in un contesto in cui gli stessi mercati del lavoro hanno finito per diventare interconnessi e interdipendenti. In cui i segmenti centrali di classe operaia, di forza lavoro, sono costretti ha competere con i segmenti periferici, i quali hanno ormai rapporti di salario di 40, 50, 60 volte inferiori a quelli degli operai centrali. Per quanto riguarda il costo medio di un’ora di lavoro, per esempio, mentre in Italia è di 18.000 lire all’ora in media il costo del lavoro, in Cina è di 380 lire all’ora, in Indonesia è di 755 lire all’ora, in Tailandia di 793 lire, in Brasile di 1.190 lire, in Romania di 1.500 lire, in Corea del Sud di 4.700 lire: questo è il rapporto di salario. Se noi confrontiamo, un operaio qualificato tedesco e un operaio generico di Saigon o tailandese, il rapporto può diventare anche di 1 a 80 é di 1 a 100, con la possibilità di accedere a tecniche di lavoro che rendono per certi versi inutile il livello di specializzazione, di qualificazione dell’operaio tedesco.

 

Ultimo punto, quello che ho chiamato la finanziarizzazione dell’impresa. O meglio la finanziarizzazione delle economie: la crescita, per certi versi esponenziale, della sfera finanziaria e del capitale finanziario rispetto alle altre forme di ricchezza. In fondo, la circolazione del capitale, è la più facile da globalizzare: il denaro come forma astratta, come "segno", circola sulla rete globale in forma di bit, molto più facilmente degli atomi di cui sono ancora fatte le merci. E questa circolazione della ricchezza astratta a livello globale, è diventata per certi versi impressionante: ha raggiunto volumi fino a ieri inimmaginabili. E, per alcuni osservatori, terrorizzanti. Anche qui per sintetizzare faccio riferimento a una citazione, da un libro - che è uscito non da molto anche in Italia (tradotto da Garzanti) - di Gregory Millman, Finanza Barbara. Scrive Millman:

"Ogni giorno gli operatori in valuta, muovono 1000 miliardi di dollari [1000 miliardi di dollari sono un milione e mezzo di miliardi di lire, grosso modo l’intero valore del debito pubblico italiano; e la cifra che ogni giorno si scambiava, oggi sarà già superiore] alla velocità della luce sulla rete globale. Sommando - continua Millman - tutto il petrolio saudita, le auto giapponesi, il frumento americano, gli aeroplani europei e aggiungendo il resto dei prodotti che i paesi comprano e vendono tra di loro [cioè l’economia reale, materiale] si ottiene solo una piccola parte di questi 1.000 miliardi di dollari [circa un sessantesimo], il resto viene scambiato per ricavarne un profitto immediato, in un mercato che si muove a grande velocità, in cui l’espressione a lungo termine, significa 10 minuti: un periodo in cui si possono agevolmente vincere o perdere milioni". Questa è la situazione che si è creata con l'inaugurazione di questa gigantesca "piazza affari" telematica globale che si apre al mattino con Tokio e si chiude alla sera con Wall Street e che lavora 24 ore al giorno, e che ha trasformato il pianeta in un gigantesco "Casinò" in cui vengono vinti o "bruciati" migliaia di miliardi ogni ora. Ed in cui avviene quel grande processo di "astrattizzazione" che costituisce una delle maggiori incognite che gravano sul capitalismo attuale. Il capitale finanziario circola, infatti, non per articolarsi in processi di lavoro e in ricchezza materiale, ma per crescere su se stesso - denaro che produce denaro -, investendosi e disinvestendosi a grandissima velocità. Questa è la parte mobile, quello che si scambia ogni giorno. Quale sia la dimensione di questo capitale finanziario globale, pochi si azzardano a quantificare: si parla di 30-40.000 miliardi di dollari all'inizio di questo decennio, destinati a diventare 85.000 alla fine, cioè una cosa come 100 milioni di miliardi di lire. Una cifra enorme: di gran lunga superiore a qualunque "ricchezza pubblica": alle riserve monetarie di qualunque Stato nazionale, o di qualunque possibile coalizione di Stati..

Possiamo chiederci da cosa sia alimentata questa massa. E potremmo, io credo, con buona approssimazione, concludere che questa massa di ricchezza è il prodotto di uno straordinario salto in avanti della produttività del lavoro sociale, che si è generata negli ultimi 20 anni. Vent’anni fa un operaio di Mirafiori produceva in media 19 auto all’anno, oggi un operaio di Melfi ne produce 70. E’ un salto enorme della produttività del lavoro sociale, diffuso in tutti i rami della produzione industriale o almeno in quelli più dinamici. Quindi il prodotto di un grande salto della produttività del lavoro e della ricchezza generata, che è rimasta in forma astratta, che non si è trasformata, né in diminuzione dell’orario di lavoro, né in un aumento dei posti di lavoro, in un ampliamento della base produttiva, o in un ampliamento dei salari, del potere d’acquisto dei lavoratori. Non è avvenuto niente di tutto questo: il surplus di produttività reale non si è trasferito in un processo reale, è rimasto nella sua forma astratta. Una parte di questa ricchezza, è costituita da salario differito: dentro questa bolla speculativa ci sono buona parte dei fondi pensione dei lavoratori americani e inglesi e ora via via anche di quelli europei, con gli ultimi anche noi (anche i nostri salari differiti sono stati immessi in questo grande casinò globale in cui vengono giocati molto spesso i risparmi dei lavoratori di uno stato contro i lavoratori di altri stati - il Messico stava andando a fondo, perché i fondi pensioni americani si erano ritirati -). Si pensi che i fondi pensione americani che agli inizi degli anni ‘80 erano intorno al 28% del PIL di un'annata ormai sono circa il 75% del PIL. Ci sono, poi, anche i fondi accumulati dalle imprese: profitti dell’impresa che non vengono reinvestiti, che vengono tenuti come fondi di sicurezza, che vengono giocati in questo grande circuito. Tutto ciò costituisce una massa in movimento in grado di travolgere le politiche economiche di qualsiasi Stato. Voi pensate che nel 1992/93, quando ci fu il grande attacco speculativo alle monete europee, la banca centrale tedesca la Bundesbank e la banca centrale francese, investirono nella battaglia di difesa delle rispettive valute qualcosa come 300 miliardi di dollari, nemmeno un terzo della cifra che quotidianamente viene fatta girare nel mondo, rivelando che quelle a disposizione degli Srtati nazionali sono difese assolutamente inadeguate. La massa di capitale finanziario apolide, senza patria, senza un territorio, è ormai da 7 a 10 volte superiore alla somma delle riserve monetarie delle banche centrali dei paesi del G7. Quindi, anche se tutti i governi dei principali paesi sviluppati si alleassero per imporre una politica economica in controtendenza con quella desiderata da chi muove in modo impersonale (molto spesso sono dei programmi dei computer che spostano questi stock di capitali); se anche i diversi paesi decidessero di imporre una politica economica diversa, ne verrebbero probabilmente travolti.

E questo è il grande rovesciamento, rispetto al modello economico del Novecento: è l’elemento che fa saltare il compromesso sociale; è l’elemento che rischia di travolgere le politiche sociali, che erano politiche di responsabilità territoriale, determinate nei singoli Stati e dai singoli Stati. I singoli Stati perdono per certi versi da loro "sovranità" sulle rispettive monete - sovranità che passa in campo economico a entità impersonali -, e la stessa unità del territorio degli Stati Nazionali viene messa a dura prova. In fondo, finché si registrava una coincidenza relativamente perfetta tra spazio dell’economia, spazio della produzione e spazio della politica, era possibile immaginare i territori dei singoli Stati come degli spazi omogenei, in cui veniva fatta valere in modo universale la legge di quel singolo Stato, quindi la volontà e la capacità di regolazione da parte delle sue autorità politiche e monetarie. Oggi, quando lo spazio dell’economia è diventato infinitamente più ampio, rispetto allo spazio della politica, ed il raggio con cui muove l’economia e la produzione ha ridicolizzato per certi versi e ha attraversato i confini, affievolito le frontiere, anche il territorio dei singoli Stati si riempie di buchi: la capacità di imporre la stessa legge su tutto il proprio territorio viene meno. Vi sono ambiti, sempre più numerosi, dell’esistenza che vengono decisi altrove; vi sono aspetti dell’esistenza dei cittadini di uno stato che non sono più competenza del loro governo liberamente eletto, ma che vengono decisi da gruppi di interesse che operano delocalizzati, anche molto lontani. La fortuna o la sciagura di un territorio passa da decisioni che riguardano i ?ussi di ricchezza che attraverseranno o non attraverseranno quel territorio.

E’ una sfida, gigantesca per certi versi, non solo all’economia, ma anche alla politica. Essa segna la vera fine del Novecento. E' un passaggio drammatico, quello che siamo chiamati ad affrontare, in cui, io credo, la necessità di difendere gli ambiti di civiltà che il modello dello stato sociale fordista aveva garantito e la necessità di operare contemporaneamente, radicali innovazioni si intrecciano fortemente e dalla cui soluzione dipenderà, in buona misura, il modo in cui usciremo dalla crisi in cui siamo oggi tutti in qualche modo coinvolti.


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