Il sistema economico mondiale:
meccanismi perversi che creano squilibri planetari

http://www.spin.it/accri/tscorso3.htm


Aluisi Tosolini
direttore di 

Intervento al:

Corso di formazione e informazione alla cooperazione missionaria, al volontariato internazionale e al commercio equo e solidale
(Trieste, 30 novembre 1996), organizzato da Centro Missionario Diocesano, ACCRI, Mosaico


Sommario:

0. Introduzione: sviluppo e cooperazione

1. Sviluppo: teorie e modelli

2. Cooperazione - fasi storiche: dagli ideali all'inutilità

3. Cooperazione internazionale: dal 1949 ad oggi

4. Perché cooperare?

5. Verso politiche planetarie di sicurezza sociale

Bibliografia di riferimento


0. INTRODUZIONE: SVILUPPO E COOPERAZIONE

E' praticamente impossibile, anche solo in termini generali ed introduttivi, compiere in un pomeriggio una analisi storica generale dell'attuale modello di sviluppo. Del resto non è particolarmente utile neppure utilizzare la storia della cooperazione, perché la storia della cooperazione allo sviluppo si muove in sincronia (e logicamente non potrebbe far altro) con l'evoluzione dei modelli di sviluppo.

Gli obiettivi (di matrice cognitiva) della presente relazione si possono pertanto così riassumere:

La tesi generale dell'intervento può così riassumersi

Le politiche di sviluppo (e di aiuti allo sviluppo) nate alla fine della II Guerra Mondiale ipotizzavano il superamento del sottosviluppo a breve termine se si fosse imitata l'esperienza dei paesi industrializzati. Il fallimento dell'ipotesi della "modernizzazione" , come della antagonista teoria della dipendenza, è risultato assoluto.

Il nuovo paradigma economico (liberismo ortodosso) postula oggi l'inutilità della cooperazione come "dovere" (crisi del fondamento), teorizza la necessità di abbandonare a se stessi quanti non reggono la sfida della competizione (fine del contratto di solidarietà tra esseri umani), crea le condizioni per il tramonto degli stessi soggetti della cooperazione (declino dello stato e della società civile) ed esalta l'autoregolazione del sistema (eclissi della democrazia).

In questo contesto parlare di cooperazione allo sviluppo implica entrare nella logica di un nuovo contratto tra uomini e donne del pianeta ove per cooperazione si intenda "sicurezza sociale" o "welfare transnazionale o planetario".

1. SVILUPPO: TEORIE E MODELLI

Definizioni

a. Sviluppo come modernizzazione

La nascita dello sviluppo (e di conseguenza del sottosviluppo e della logica della cooperazione allo sviluppo) si colloca, non solo per convenzione, al 20 gennaio 1949. Quel giorno su Washington nevicava. Il presidente Truman si avviò al Congresso dove tenne un discorso fondamentale che, secondo molti studiosi, segna l'inizio dell'era della cooperazione allo sviluppo. La seconda guerra mondiale si era da poco conclusa e Truman disegnò con lucidità l'orizzonte della nuova frontiera dell'Occidente e degli Usa in particolare. Dopo aver definito "sottosviluppati" un numero enorme di paesi, Truman affidò ai Paesi sviluppati il compito di "operare per lo sviluppo" definendone chiaramente i binari: "Una maggiore produzione è la chiave del benessere e della pace". Le nazioni si dividono in fuoriclasse e ritardatarie: sono "gli Stati Uniti ad emergere sulle altre nazioni per tecnica industriale e ricerca scientifica". E Truman, mascherando l'interesse con la magnanimità, non esitò ad annunciare un programma di aiuto tecnico che avrebbe dovuto "eliminare le sofferenze di questi popoli con attività industriali ed un più alto standard di vita"

Si colloca qui, anche, l'origine di quelli che Ralf Dahrendorf chiamerà inseguito "i setti miti miti dello sviluppo" e che, a distanza di anni, sono ancora attuali (1. il mondo è unitario; 2. nascerà un nuovo ordine internazionale; 3. esiste solidarietà tra i Paesi sottosviluppati; 4. i Paesi sottosviluppati raggiungeranno i paesi sviluppati; 5. aiuti allo sviluppo; 6. il processo di sviluppo è lineare, stabile, continuo; 7. universalità della modernizzazione).

In quel preciso momento storico sviluppo e sottosviluppo sono concetti definiti a partire dal solo parametro economico (sviluppo = crescita economica = industrializzazione = modernizzazione). Il modello interpretativo è quello stadiale proposto da W.W. Rostow. La proposta di Rostow, figlia della logica dell'evoluzionismo unilineare di stampo positivista, obbedisce al paradigma della modernizzazione a base endogena e costituisce il termine di riferimento, sia in positivo che in negativo, di tutte le successivi teorizzazioni.

Il paradigma della modernizzazione ed il neoclassicismo sosteneva che i paesi arretrati fossero ammalati solamente di un ritardo congiunturale rispetto ai paesi che avrebbero dovuto imitare. Secondo questi economisti "il cambiamento è graduale, marginalista, non disgregante, equilibrato e, in larga misura indolore. Una volta avviata, la crescita diventa automatica e si diffonde ovunque, propagandosi fra le nazioni e fluendo fra le classi sociali inferiori, cosicché ognuno si avvantaggia dal processo".

Merita, in questo contesto, di essere sottolineata la funzione dell'"imitazione" da parte dell'élite del sud del mondo dei processi di sviluppo pensati e sperimentati al nord. Sull'imitazione e sulla sua valenza disgregante in chiave sociale e culturale si sono negli anni soffermati diversi studiosi, in particolare Serge Latouche.

b. Le tesi dei dependentistas

La "modernizzazione" venne violentemente attaccata nei suoi fondamenti teorici soprattutto dagli scienziati sociali latino-americani, tra i quali va ricordato Rodolfo Stavenhagen e le sue "tesi fallaci sull'America Latina". Egli anticipò - studiando soprattutto il caso messicano - quello che diventerà uno degli attacchi teorici maggiormente elaborati della "teoria della dipendenza": vale a dire la presunta incapacità della borghesia latino-americana di adempiere alla sua missione storica -la liberazione delle forze produttive e la transizione dal feudalesimo al capitalismo -; anzi, legata agli interessi stranieri, i dependentistas la consideravano più un veicolo di sottosviluppo piuttosto che di sviluppo. La forte influenza di A. G. Frank, F. Cardoso, R. Stavenhaghen, E. Faletto, T. Dos Santos - ed altri - sul declino del "paradigma della modernizzazione" apriva contemporaneamente la strada all'affermazione nel mondo scientifico e della ricerca sociologica de "l'approccio della dipendenza", nato dalla convergenza tra due percorsi politici: il primo, definito nell'ambito della sociologia dello sviluppo come "neomarxista"; il secondo, originato dall'analisi contenuta nei documenti della "Commissione Economica per l'America Latina" (CEPAL) delle Nazioni Unite, creata a Santiago del Cile già nel 1948.

La convinzione dei "dependentistas" era che "Il sottosviluppo [fosse] un processo continuo, non uno stato iniziale che verrà soppiantato dallo sviluppo; è la penetrazione capitalista la causa principale del sottosviluppo»: così scriveva già nel 1957 Paul Baran. In termini di teoria dello sviluppo, possiamo parlare di vero e proprio "paradigma della dipendenza" solo se operiamo il seguente livello di generalizzazione:

a) il sottosviluppo non dipende dalla mancanza di capitale o di imprenditorialità diffusa nei paesi poveri ma dalla divisione internazionale del lavoro, che attribuisce al terzo mondo un ruolo assolutamente marginale e subordinato nello sviluppo economico mondiale;

b) gli ostacoli allo sviluppo hanno perciò un'origine fondamentalmente esterna ai paesi poveri ed è perciò necessaria una loro rimozione;

c) la periferia viene spogliata delle sue ricchezze (processo di sottosviluppo) con le quali si alimenta la crescita del centro (processo di sviluppo): sottosviluppo della periferia e sviluppo del centro sono perciò due aspetti di un unico processo globale;

d) siccome la periferia è condannata al sottosviluppo per i suoi legami col centro, si ritiene indispensabile che un paese della periferia si stacchi dall'economia mondiale per fare affidamento sui propri mezzi. Tale processo di trasformazione politica può avvenire anche per via rivoluzionaria. In particolare questa sarà l'idea elaborata dall'economista dipendentista egiziano Samir Amin, che la strutturerà nella "teoria del de-linkage".

c. 1974: il NOEI

Il momento di più alta capacità di influenza del paradigma della dipendenza si registra nel 1974, quando le pressanti richieste di cambiamenti strutturali nei meccanismi dell'economia e del commercio internazionale diedero vita alla "Dichiarazione per la costituzione di un Nuovo Ordine Economico Internazionale" dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite, un progetto meglio conosciuto con la sigla NOEI. Lo sviluppo era diventato l'argomento prioritario dell'agenda internazionale, grazie al comportamento fermo e politicamente ben coordinato dei paesi del "terzo mondo", giunto inatteso dai paesi ricchi: non che ciò abbia portato automaticamente al rispetto degli impegni votati da parte della comunità internazionale, ma il NOEI rappresenta l'atto di maggiore coerenza che la teoria della dipendenza abbia saputo produrre nel campo delle istituzioni internazionali. Fu la crisi economica che negli Anni Settanta investì i paesi ricchi - e la stessa struttura produttiva mondiale, che risentì degli effetti degli choc petroliferi del 1973 e del 1979- a spogliare il paradigma della dipendenza della sua capacità di spiegare il funzionamento dei meccanismi della povertà mondiale in mancanza di un ruolo-guida delle potenze capitaliste. . "La crisi attuale - scrisse nel 1981 A. G. Frank - dev'essere considerata come una crisi di sviluppo e non un breve declino ciclico. L'utilità delle teorie del sottosviluppo strutturalista e della dipendenza sembra sia venuta meno a causa della crisi mondiale degli Anni Settanta. Il tallone d'Achille di queste concezioni della dipendenza è sempre stato l'implicita nozione di qualche alternativa indipendente per il terzo mondo. Questa alternativa teorica non è mai esistita in pratica: di sicuro, non nel senso di un sentiero di sviluppo non capitalistico e nemmeno per mezzo delle cosiddette rivoluzioni socialiste. La nuova crisi che si frappone allo sviluppo mondiale invalida e rende inapplicabili tali teorie (riduttive) sulla dipendenza e le derivanti soluzioni politiche».

d. Dalla dipendenza all'interdipendenza

Con l'epilogo dei paradigmi della modernizzazione e della dipendenza, la sociologia dello sviluppo assiste alla scomparsa di due teorie che avevano cercato di spiegare le dinamiche della povertà mondiale

a) partendo dalla realtà dei paesi ricchi per ragionare sulla loro presunta capacità di contaminare con lo sviluppo capitalista le altre regioni del mondo (tesi della modernizzazione);

b) partendo dalla realtà dei paesi sottosviluppati per postularne il necessario distacco dall'economia internazionale in caso di ricerca desiderata dello sviluppo (tesi dei dependentistas).

C'è chi sostiene che, dopo il declino delle due più importanti teorie dello sviluppo, «(non resta che ripartire»dalle] macerie di un dibattito fra le pietre angolari dei classici dello sviluppo in tutti questi anni. Perché macerie? Macerie perché, se andiamo oggi a confrontarci con le politiche [e le riflessioni] delle agenzie di sviluppo internazionali, (...) non assistiamo più alla definizione di teorie dello sviluppo articolate e conchiuse. Potremmo piuttosto parlare di una puntualizzazione delle strategie di sviluppo, come assemblaggio - non sempre organico - di esperienze concrete che hanno fornito qualche risultato tangibile».

Ciò sarebbe avvenuto perché - in un primo momento - c'è stato un conflitto modernizzazione/dipendenza che - in una seconda fase - ha prodotto il declino sul piano operativo di entrambi gli approcci: "da qui trae origine il tentativo di definire un approccio diverso, nuovo, (...) più pragmatico e normativo dei precedenti». Entriamo - questo è importante - nella fase di globalizzazione delle teorie e delle strategie dello sviluppo, come nel caso dell'interdipendenza.

Il mutamento di paradigma è chiaramente visibile nel famosissimo rapporto Brandt del 1980 per che per primo inizia a parlare di Nord e di Sud come interdipendenti.

e. globalizzazione

L'interdipendenza ha il merito di aver reso evidente il fatto che "siamo tutti sulla stessa barca" e che perciò acquista importanza una gestione planetaria dei problemi a dimensione planetaria. In tale contesto, scrive Papisca, "l'interdipendenza in quanto tale [diventa] nient'altro che lo stesso sistema internazionale messo a nudo, [dove quest'ultimo è] l'insieme interrelato di influenze ineguali o più esattamente di nuovi rapporti di potere in cerca di legittimazione».

Ma questa ricerca si scontra con due fenomeni totalmente nuovi nel campo delle relazioni internazionali, che non potevano far parte né della modernizzazione né della dipendenza perché ad entrambi rimaneva cara una visione dei rapporti internazionali dove gli stati-nazione erano gli unici interpreti, dove la sovranità statuale si fa il sistema internazionale: l'erosione del potere economico-finanziario degli stati con il conseguente ridimensionamento della loro sovranità, e la transnazionalizzazione degli affari mondiali con - in particolare - la globalizzazione dell'economia e della finanza. Infatti, il sistema mondiale quale sistema di stati-nazione e non quale sistema in cui i processi politici abbiano per protagoniste (insieme con gli stati) strutture di autorità diverse tra loro e in competizione l'una con l'altra, i fenomeni estremamente complessi propri dell'interdipendenza globale non potranno essere compresi nella loro interezza e in tutte le loro implicazioni».

Secondo Susan George attualmente ben 90 paesi nel mondo non hanno nessuna autonomia di scelte a livello politico ed economico in quando il processo di "riaggiustamento strutturale del debito" imposto dalla World Bank li costringe a fare i conti ogni giorno con gli economisti della Banca Mondiale che impongono come e dove investire il bilancio dello stato.

f. sviluppo sostenibile

"Our common future", rapporto della Commissione Brundtland su ambiente e sviluppo, è del 1987. La commissione sottolinea il fatto che il mondo si trova davanti ad una "sfida globale" a cui può rispondere solo mediante l'assunzione di un nuovo modello di sviluppo definito "sostenibile". Per sviluppo sostenibile si intende "far sì che esso soddisfi i bisogni dell'attuale generazione senza compromettere la capacità di quelle future di rispondere alle loro". "Lo sviluppo sostenibile, lungi dall'essere una definitiva condizione di armonia, è piuttosto processo di cambiamento tale per cui lo sfruttamento delle risorse, la direzione degli investimenti, l'orientamento dello sviluppo tecnologico e i cambiamenti istituzionali siano resi coerenti con i bisogni futuri oltre che con gli attuali". Tuttavia, se da un lato "lo sviluppo sostenibile impone di soddisfare i bisogni fondamentali di tutti e di estendere a tutti la possibilità di attuare le proprie aspirazioni a una vita migliore" dall'altro nella proposta persiste un'ingenua o comunque eccessivamente ottimistica fiducia nella tecnologia che porterà ad una nuova era di "crescita economica".

Comunque sia, un aspetto (che sarà ripreso in seguito) merita di essere sottolineato: la centralità della "partecipazione di tutti": "il soddisfacimento di bisogni essenziali (basic needs) esige non solo una nuova era di crescita economica per nazioni in cui la maggioranza degli abitanti siano poveri ma anche la garanzia che tali poveri abbiamo la loro giusta parte delle risorse necessarie a sostenere tale crescita. Una siffatta equità dovrebbe essere coadiuvata sia da sistemi politici che assicurino l'effettiva partecipazione dei cittadini nel processo decisionale, sia da una maggior democrazia a livello delle scelte internazionali" .

g. Sviluppo umano - human development

"Lo sviluppo avrebbe dovuto essere un progetto di post-colonialismo, la scelta di accettare un modello di progresso secondo il quale il mondo intero avrebbe ricostruito se stesso seguendo l'esempio del moderno Occidente colonizzatore, senza dover subire l'assoggettamento e lo sfruttamento impliciti nel colonialismo. L'assunto era che il progresso di stile occidentale fosse possibile per tutti. Si faceva dunque coincidere lo sviluppo, inteso come aumento del benessere collettivo, con l'occidentalizzazione delle categorie economiche: dei bisogni, della produttività, della crescita. (...) Lo sviluppo fu quindi ridotto a una continuazione del processo di colonizzazione; un'estensione del progetto di creazione di ricchezza nella moderna visione patriarcale dell'Ovest, fondata sullo sfruttamento e sull'esclusione delle donne (occidentali e non), sullo sfruttamento e sul degrado della natura, e infine sullo sfruttamento e sull'erosione delle altre culture".

Per Vandana Shiva lo sviluppo è un nuovo progetto del patriarcato occidentale a cui si deve resistere. Compito non è "svilupparsi" ma "sopravvivere allo sviluppo".

Nello stesso anno in cui in Italia appare il testo della Shiva, l'Undp pubblica il primo rapporto sullo sviluppo umano. Una radicale ridiscussione del concetto di sviluppo che tocca chiunque, sia a nord che a sud del mondo.

"Il mondo non conoscerà mai la pace finché le persone non raggiungeranno la sicurezza nella loro vita quotidiana. I conflitti di domani si verificheranno forse più all'interno delle singole nazioni che non tra un paese e l'altro, e avranno le loro origini profonde nell'aumento della povertà e delle disparità economiche. In un quadro come questo la sicurezza deve essere ricercata nello sviluppo, non nelle armi".

Così il Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo (UNDP) apriva il suo quinto rapporto che ha costituito l'agenda del "Social Summit" tenutosi a Copenaghen nel marzo 1995. La celebrazione dei 50 anni delle Nazioni Unite, scrive sempre il rapporto, deve essere l'occasione per rivedere la prospettive dell'umanità, ridisegnarne l'agenda, definirne gli obiettivi per i prossimi decenni.

Del resto le Nazioni Unite, sin dalla loro nascita, hanno sottolineato la centralità dello sviluppo come altra faccia della medaglia chiamata pace.

E negli ultimi anni un ruolo chiave nell'opera di ridefinizione delle politiche di sviluppo è stato ricoperto proprio dal programma delle nazioni unite per lo sviluppo umano che ha curato la pubblicazione di sei rapporti sullo sviluppo umano e la preparazione del Word Summit for Social Development di Copenaghen.

La novità dell'apporto dell'United Nations Development Programme sta sostanzialmente nell'aggettivo "umano" posto accanto alla parola "sviluppo".

Cos'è sviluppo nell'età dell'interdipendenza e della globalità? Con quali indicatori si misura? L'Undp ha segnato pubblicamente la fine del paradigma della modernizzazione che vedeva nel sottosviluppo un ritardo congiunturale che i paesi poveri avrebbero potuto colmare imitando i paesi del ricco e industrializzato occidente. L'indicatore tipico di questa concezione di sviluppo legato al solo dato economico è stato per decenni il PNL (Prodotto Nazionale Lordo): il suo tasso di crescita annuo, il suo ammontare assoluto, il suo valore pro-capite hanno distinto i paesi poveri dai paesi ricchi, i paesi sottosviluppati dai paesi sviluppati . Ebbene, il primo rapporto Undp fa fatto piazza pulita di tale indicatore proponendo un nuovo misuratore chiamato "human development index" (HDI, in italiano "indice di sviluppo umano" - ISU).

Per sviluppo umano l'Undp intende "il processo che permette alle persone di ampliare la propria gamma di scelte. Il reddito è una di queste scelte, ma non rappresenta la somma totale delle esperienze umane. La salute, l'istruzione, l'ambiente salubre e la libertà di azione e di espressione sono fattori altrettanto importanti. La sviluppo umano, di conseguenza, non può essere promosso da una ricerca a senso unico della sola crescita economica. La quantità della crescita è fondamentale (...) ma altrettanto importante è la distribuzione della crescita, vale a dire se le persone partecipano pienamente al processo di crescita".

Da qui il nuovo modo di misurare lo sviluppo socio-economico: l' ISU integra in modo innovativo speranza di vita, alfabetizzazione degli adulti e reddito in modo da produrre una unità di misura più esauriente del solo PNL per valutare il progresso di un paese.

Il concetto di sviluppo umano e l'ISU hanno suscitato molta attenzione nel mondo accademico e politico ed hanno portato a significative acquisizioni e proposte politiche sulle modalità di riduzione delle diseguaglianze mondiali, sulla necessità di decentrare il più possibile e a livello mondiale il potere politico e decisionale, sui necessari processi di riforma e democratizzazione delle Istituzioni di Bretton Woods (Banca Mondiale, Fondo Monetario Internazionale), sull'urgenza di un "governo mondiale" dell'economia (iniziando con la creazione presso l'Onu di un "Consiglio di sicurezza economico"), sulla assoluta necessità di "catturare" il potenziale dividendo di pace per utilizzarlo entro progetti e politiche di sviluppo umano e sociale, sull'imperativo di dotare il mondo di nuove istituzioni capaci di coordinare le necessarie politiche di sicurezza sociale globale e sviluppo umano e sostenibile per tutti, sull'impegno a valorizzare la società civile e le sue vari espressioni (ong, associazioni, ecc), sulle nuove modalità di gestione degli aiuti allo sviluppo (ipotesi 20/20), sulle possibilità di rendere maggiormente equo il commercio internazionale,...

h. human development e nuovo scenario internazionale: i nodi da sciogliere

STATO-NAZIONE ADDIO

La proposta dello HD si colloca nel contesto di un mutamento di natura del sistema internazionale: gli stati-nazione hanno perso la loro autonoma capacità di indirizzare in termini nazionali lo sviluppo nazionale dell'economia, e con estrema difficoltà sono in grado di governare i flussi finanziari globali che viaggiano con sempre maggiore libertà (creando un problema di controllo democratico) nei networks mondiali. Oggi la comunità internazionale degli stati è composta da soggetti statuali con limitatissima "capability", vale a dire la capacità soggettiva di un attore internazionale di modificare a proprio vantaggio l'equilibrio di un certo sistema internazionale. Questo fenomeno rilancia con forza la questione della centralità della cooperazione internazionale, come i lavori preparatori del Vertice Sociale di Copenaghen hanno ben sottolineato.

A ciò si aggiunga che l'affermazione del diritto internazionale dei diritti umani - grazie al codice dei diritti umani e al nuovo sistema delle relazioni internazionali post-1989- ha assestato un colpo definitivo a quelli che erano i caratteri più squisitamente politici e belligeni della sovranità statuale. Perciò, a livello sistemico, oggi non si può che agire su un piano transnazionale per affrontare le "nuove sfide della sicurezza globale" .

La transnazionalizzazione degli affari mondiali, inoltre, è la nuova dimensione con la quale si deve misurare la Politica: si tratta cioè di capire se all'affermarsi di categorie globali della finanza, dell'economia, ecc... sia seguita anche l'affermazione di categorie planetarie della Politica, in modo da avere gli strumenti interpretativo-istituzionali per gestire adeguatamente la nuova situazione internazionale che è stata "scoperta" elaborando il concetto di "interdipendenza".

I NEMICI DEL MERCATO GLOBALE: STATO E SOCIETÀ CIVILE

Due sono i nemici della logica del mercato e della ortodossia del libero mercato che della deregulation, della competitività, dell'efficienza ha fatto le proprie bandiere : lo stato e la società civile. Su quest'ipotesi concordano Ralf Dahrendorf e Susan George. Scrive Darherendorf : "La globalizzazione economica sembra associata a nuovi tipi di esclusione sociale". Tra questi :

Il fine ultimo del liberismo, come scrive S. George, è quello di eliminare stato e società civile cosicché il sistema economico si trovi sempre da rapportarsi con il singolo individuo in competizione con tutti gli altri singoli individui : è la realizzazione del darwinismo sociale e della logica precontrattuale di Hobbes, homo homini lupus.

Come sostiene Latouche, sulla linea di Karl Polanyi, l'autonomizzazione del tecnico e dell'economico dal sociale svuota quest'ultimo di ogni sostanza.

L'INTERDIPENDENZA ED IL SUO PARADIGMA

"Interdipendenza nella politica internazionale si riferisce a situazioni caratterizzate da effetti reciproci tra paesi o attori in differenti paesi». In altri termini per interdipendenza si intende fare affidamento - non in senso etico ovviamente - su altri. Una definizione da cui ricavare quel concetto di reciprocità che è l'esatto contrario della unilateralità concepita nell'ambito della modernizzazione e della dipendenza. E' interessante notare che in questo ambito la reciprocità non va confusa con il mutuo vantaggio, nel senso che "i rapporti di interdipendenza comportano sempre dei costi» non necessariamente simmetrici: infatti, un conto è l'esistenza

della dipendenza reciproca, un altro è che paga i costi maggiori di tale rapporto. Non bisogna infatti scadere nella "retorica dell'interdipendenza" per la quale essa è un fatto comunque positivo; ciò dipende dai rapporti di forza esistente tra i soggetti che interagiscono.

IL PARADIGMA DELLA COMPLESSITÀ'

Ma sono venute meno anche tante certezze scientifiche, liquefattesi di fronte alle nuove caratteristiche dell'economia, del commercio, della politica mondiali: oggi non sono più possibili spiegazioni monocausali del sottosviluppo, quasi che le cause stiano unilateralmente in questo o quel meccanismo ingiusto. L'analisi si fa complessa, e per questo c'è necessità di maggior rigore scientifico: vanno contestualmente considerati fattori interni ed esterni, elementi storici e culturali, fatti strutturali e congiunturali, cause storiche e d'attualità. Oggi - con tutte le conseguenze che ciò comporta - bisogna assumere la complessità quale categoria dell'analisi politica e scientifica.

UN PROBLEMA DI CONTESTI

Elaborare un Programma d'Azione a partire dal concetto di sviluppo sociale, definito

come sviluppo materiale e spirituale di ogni comunità umana, in un ambito di solidarietà tra le nazioni ed i diversi gruppi sociali non è possibile senza tener conto del nel nuovo contesto delle relazioni economiche mondiali, caratterizzate da:

1. un aumento impressionante e senza precedenti della progressione degli scambi intra-industriali e degli scambi dei prodotti intermedi (non finiti) tra paesi industriali. La dinamica dei flussi di scambio della Unione Europea con il Giappone e gli Stati Uniti (la cosiddetta Triade, NDR) è sempre più importante in volume, sempre più esclusiva. Ciò significa che l'apporto dei PVS nel panorama dell'economia mondiale diventa marginale. Lo scambio commerciale tra multinazionali rappresenta una percentuale tra il 35% ed il 50% delle importazioni di Stati Uniti, Giappone, Regno Unito: esso rappresenta il 40% del commercio mondiale totale. Un fenomeno nuovo, amplificatosi dopo la caduta del bipolarismo internazionale, che, ad esempio, fa dire a Riccardo Petrella - direttore del Programma FAST della Commissione CEE- che siamo in pieno "de-linkage"- sganciamento dei PVS dall'economia mondiale, per motivi del tutto opposti a quelli previsti da Samir Amin.

2. la mondializzazione delle tecnologie. Sul controllo democratico delle tecnologie si gioca il futuro assetto dei poteri, nazionali ed internazionali. E' forte e netta la dipendenza dei paesi terzi verso USA, Giappone e CEE. Siamo di fronte ad un nuovo aspetto dell'interdipendenza: il tecno-mondialismo, vale a dire la globalizzazione dell'economia e della politica internazionale che avviene attraverso lo sviluppo delle comunicazioni elettroniche (banche dati, borse valori elettroniche, mail post, videoconferenze, ecc..). Da questo processo - fuori da ogni controllo democratico - il Sud del mondo è totalmente escluso. Di questo "capitolo" fa parte anche il controllo dei flussi e delle reti transnazionali dell'informazione, che conferiranno un nuovo impulso al processo di mondializzazione economica già avanzatissimo.

3. la colonizzazione dell'immaginario

La conquista dell'Occidente non è stata solamente militare, politica e non ha significato solamente saccheggio e sfruttamento. Il dominio dell'Occidente si basa soprattutto su "forze simboliche il cui dominio astratto è più insidioso. ma anche meno contestabile. Questi nuovi agenti di dominazione sono la scienza, la tecnica, l'economia e l'immaginario, sul quale si basano: i valori del progresso". Il dominio dell'Occidente si basa su una colonizzazione e standardizzazione dell'immaginario. L'essenziale della produzione mondiale di "segni" è concentrata nel Nord oppure viene fabbricato in officine da esso controllato, secondo le sue norme e modalità. Siamo di fronte dunque a un vero e proprio imperium culturale. Quello che è negativo è la circolazione unidirezionale (o comunque in enorme sproporzione) di parole, immagini, rappresentazioni, credenze, teorie, norme, criteri di giudizio. Da questo punto di vista il dominio e il prestigio dell'Occidente sul resto del mondo si esprime nei suoi aspetti più velenosi nella pratica del dono, più ancora che in quella della depredazione o spoliazione colonialista. L'Occidente finora ha vinto al livello dell'immaginario. Ed in effetti "l'Occidente è emancipatore nel senso che libera dalle mille costrizioni della società tradizionale e apre infinite possibilità; tuttavia questo affrancamento e queste possibilità si realizzeranno soltanto per una infima minoranza. In cambio, la solidarietà e la sicurezza saranno distrutte per tutti".

Lo sviluppo si basa su un processo di interiorizzazione dello sguardo dell'altro; la mimesi, il desiderio di essere come l'altro, diventano la legge e il motore dello sviluppo. Per questo ci dice Latouche la cultura non è una dimensione dello sviluppo, viceversa è lo sviluppo che è una dimensione della sola cultura occidentale. Lo sviluppo è stato ed è l'occidentalizzazione del mondo, ovvero lo sradicamento delle culture tradizionali. "Integrando le varie parti del mondo nel mercato mondiale, l'Occidente ha fatto qualcosa di più che modificarne i modi di produzione: ha distrutto il senso del sistema sociale, cui tali modi erano strettamente connessi". Eppure, ci dice Latouche, il processo di occidentalizzazione incontra limiti e resistenze da parte delle culture tradizionali sopravvissute, sostenute in questo anche dai risultati dei fallimenti dello sviluppo.

4. deficit di democrazia. Mentre esistono categorie planetarie dell'economia e centri internazionali ben strutturati per la sua gestione, la politica è ferma ancora alla dimensione nazionale, trovandosi totalmente priva della capacità/possibilità di fornire controllo democratico su - ad esempio - la circolazione incontrollata dei flussi finanziari, oggi in grado -a colpi di speculazione- di prevalere su ogni progetto a valenza sociale. La mondializzazione dei mercati finanziari impone una stretta disciplina ai poteri pubblici nazionali e limita il margine di manovra dei governi (è il fenomeno della tecno-finanza).


2. COOPERAZIONE - FASI STORICHE : DAGLI IDEALI ALL'INUTILITÀ

In primo luogo occorre definire il concetto di cooperazione. Per "cooperazione" si intende, grosso modo, l'insieme di operazioni di aiuto che qualcuno (in questo caso i paesi ricchi o i paesi industrializzati dell'OCSE ad esempio) mette in atto nei confronti dei paesi definiti "in via di sviluppo". Questa cooperazione viene sempre legata alla "cooperazione allo sviluppo" o "cooperazione con i Paesi in via di sviluppo" o "aiuto pubblico ai PVS"

Inganno dei poveri o dovere di solidarietà?

Fino ad oggi per "cooperazione" si intendeva un aiuto (diretto, indiretto, bilaterale, multilaterale, finanziario, ecc) da parte di uno Stato (o di una pluralità di Stati, o di una organizzazione internazionale finanziata da una pluralità di stati) nei confronti di un altro Stato. Questa definizione sottolinea notevolmente il concetto di "stato", cioè di una società legalmente e legittimamente costituita che si definisce Stato.

La attuale crisi della cooperazione è anche frutto della interdipendenza e della globalità che ha come conseguenza la crisi dello Stato-nazione. L'interdipendenza e la globalità, la interdipendenza mondiale e la globalizzazione producono la crisi dello Stato nazionale.

Lo stato nazionale e la sua crisi

La crisi dello Stato nazionale implica la crisi del paradigma cooperazione così come l'abbiamo conosciuto fin adesso, cioè come aiuto fra Stato e Stato. E questo perché la cooperazione tra stato e stato non è un atto dovuto, non è necessitato. ovvero uno Stato aiuta un altro, ma non è necessitato a farlo, non c'è nulla che lo obblighi a farlo. Se lo fa, lo fa perché vuole, perché si è impegnato, perché ha interesse, perché sono buoni, ma non c'è niente che obblighi un Paese, ad esempio l'Italia, a cooperare con il Burkina Faso.

Il che non è di per se stesso un giudizio negativo. E' solo la constatazione che sino ad oggi la cooperazione non è stata concepita come dovere di solidarietà.

Oggi la crisi dello Stato-nazione implica il superamento della cooperazione intesa come atto non obbligatorio e ricolloca la cooperazione nel quadro dei doveri di solidarietà.

Ma prima di addentrarci nel merito di questa proposta cerchiamo di comprendere storicamente i vari momenti della "cooperazione" internazionale"


3. COOPERAZIONE INTERNAZIONALE: DAL 1949 AD OGGI

La cooperazione nasce nel secondo dopoguerra e passa attraverso cinque fasi.

A. la prima fase, immediatamente dopo la II guerra mondiale, fino agli inizi degli anni cinquanta. La motivazione politico-ideale.

La fine della II guerra mondiale porta con sé la consapevolezza che l'umanità andava considerata come un tutto richiedente un governo complessivo dei conflitti e dei problemi. Vi è un impeto "ideale" che spinge alla costruzione di un "nuovo" mondo. La nascita dell'ONU (1945), la dichiarazione universale dei diritti dell'uomo (1948, ed i successivi convenants del 1966) costituiscono la base dello strumento multilaterale della cooperazione.

Su questa spinta nascono le agenzie dell'ONU (FAO, OMS, UNICEF, ecc) che sottolineano l' aspetto ideale della cooperazione e si fondano su motivi di solidarietà, interdipendenza e coscienza più ampia del "bene comune" allargato a tutta l'umanità e non più riferito solo ai singoli popoli a alla loro semplice sommatoria.

Tutti motivi che postulavano e postulano il superamento del concetto di stato-nazione come concetto di riferimento al fine di una applicazione a livello mondiale dei principi della giustizia distributiva e legale.

B. Seconda fase: la motivazione politico-economica (anni '50)

Nel 1949 la cooperazione assume una nuova colorazione. Il 20 gennaio del '49, come abbiamo già visto, il Presidente degli USA Truman tiene al Congresso un discorso fondamentale.

Gli USA si pongono dunque ad esempio per i paesi in "ritardo" nello sviluppo. E già che ci sono si autonominano "maestri" di sviluppo e quindi di cooperazione..

Il tutto diventa più chiaro leggendo la Public Law 480, cioè la legge sull'assistenza allo sviluppo del 1954 che recita più o meno così: "Il presidente degli USA può richiedere che il surplus di prodotti agricoli venga destinato in primo luogo a qualsiasi Nazione amica degli USA, in secondo luogo a Popolazioni amiche e bisognose, indipendentemente dal fatto che siano amiche o no degli USA e comunque in tal caso sarà necessario che i destinatari di queste risorse non diminuiscano le loro normali spese per l'acquisto di risorse alimentari in seguito al dono". Insomma: aiutare sì, ma non troppo. Molto più sinceramente Coffin (vice presidente dell'USAID, l'agenzia americana per la cooperazione allo sviluppo), di lì a poco -1964- dirà: "Il nostro obiettivo fondamentale non è lo sviluppo per l'amore dello sviluppo. L'obiettivo importante è sostanza offrire il massimo di opportunità alle iniziative private e industriali degli USA. ... Il problema è di valutare come il programma (di aiuti, ndr) possa dare il massimo sostegno possibile agli interessi degli Stati Uniti nel loro complesso". E' tutto chiaro: la cooperazione allo sviluppo è una delle armi del neocolonialismo economico e culturale: ti aiuterò per aiutarmi; io aiuto te per aiutare me.

C. Anni Sessanta. Motivazione etico-sociale.

Negli anni sessanta si realizza per la maggior parte dei paesi coloniali il processo di decolonizzazione: è proprio nel 1960 che moltissimi paesi/colonie raggiungono l'indipendenza. E' questo anche il momento nel quale le società civili del nord del mondo, si fanno carico in maniera più precisa del problema della cooperazione tra Paesi. E' questo il momento in cui, anche in Italia, a fronte della pressione della società civile, nasce una legge sulla cooperazione, si organizzano le prime organizzazioni non governative, esce la Populorum Progressio (1968), vi è una forte tensione che viene appunto definita etico-sociale. Ad esempio, la Populorum Progressio definendo "lo sviluppo" come "nuovo nome della pace" riassume con chiarezza il paradigma concettuale che si va facendo strada e fonda il cosiddetto "dovere di solidarietà" motivato a sua volta dalla considerazione del "bene comune dell'umanità", di tutta l'umanità.

Ma la stagione della motivazione etico-sociale passa molto velocemente e la cooperazione diventa presto terreno di conquista per gli uomini del marketing.

D. La cooperazione come marketing (dagli anni ' 70)

"Le imprese americane dipendono sempre più dalle materie prime dei paesi sottosviluppati. Inoltre queste imprese hanno bisogno dei mercati dei paesi sottosviluppati. Da ultimo questi paesi offrono possibilità di investimenti produttivi per la tecnologia ed il capitale statunitense". Così si possono riassumere, con Collins e Lappè, le tre motivazioni dell'aiuto in favore dei paesi in via di sviluppo da parte degli USA. La cooperazione diventa uno degli strumenti di penetrazione e controllo dei mercati mondiali.

Anche elaborazioni molto lodevoli, quali ad esempio il Rapporto Brandt (1980), vede nella cooperazione una delle possibilità di aggiustare non solo le economie povere del Sud del Mondo, ma anche le economie in crisi del Nord del Mondo. In pratica, secondo questa tesi, i fondi per la cooperazione e lo sviluppo dovrebbero essere finalizzati all'export del Paese che aiuta. Siccome non c'è nessuno che obbliga (nb: questo ragionamento non è, stante le attuali regole internazionali, illegittimo), siccome non esiste nessun dovere di cooperazione, è ovvio che se io coopero, posso anche pretendere dei ritorni. Non si tratta - finché siamo dentro il paradigma dei rapporti "inter-nazionali", ovvero tra stati sovrani - di pretese illegittime in sé e per sé.

Certo, si fa fatica a considerare cooperazione un aiuto che "aiuta soprattutto se stessi" ma ciò non è di per sé illegittimo. E' invece certamente illegittimo farsi strada a colpi di tangenti o stornare fondi per pagare forniture di armi, o far finta di utilizzare i fondi ed intanto intascarseli ... Ma su ciò non mi dilungo: è cronaca di questi giorni. La cronaca di "farnesopoli" come viene chiamata l'indagine del giudice Paraggio di Roma sulla cooperazione italiana.

E. La cooperazione come sicurezza (anni '90)

"Cooperazione come sicurezza" non è un titolo cattivo inventato da un critico prevenuto, ma è il titolo, il nuovo nome, affibbiato alla cooperazione dall'ex ministro degli esteri italiano Gianni De Michelis. Questi, in una importantissima conferenza internazionale sullo sviluppo (Roma 17-19 ottobre 1991), riesce a mettere insieme alcuni concetti sulla cooperazione estremamente interessanti. Per un verso, assume la assoluta necessità/obbligatorietà della cooperazione (per stare al gioco di parole da cui siamo partiti sostiene che "o si coopera, oppure questo mondo salta per aria") e a questo proposito riesce anche a utilizzare molte delle elaborazioni di Giovanni Paolo II (riprendendo in modo abbastanza spudorato il concetto di solidarietà espresso nella "Sollecitudo Rei Socialis"). Ma, giunto al dunque, sostiene che la cooperazione è la forma nuova che può assumere la ricerca di sicurezza da parte dell'Italia. Non si tratta, sia chiaro, di un progetto che ha per obiettivo "la sicurezza sociale" dell'umanità. Più prosaicamente De Michelis riteneva che rendere maggiormente sicura l'Italia (sicura nel senso anche militare del termine) implicava due opzioni possibili: o armarsi e prepararsi a buttare a mare chi, povero e disperato, viene a casa mia per invadermi e per prendermi risorse; oppure posso fare in modo che questi poveri se ne stiano a casa loro. Queste due modalità possono (e debbono) essere giocate insieme. La cooperazione può garantire la mia sicurezza se io utilizzo i fondi della cooperazione, dell'aiuto allo sviluppo, non tanto vincolandoli allo sviluppo di questa o quest'altra società, o di questa o di quest'altra situazione di carenza nei PVS, ma se io li utilizzo per fermare processi che si generano nel sud del mondo e che rischiano di avere conseguenze negative anche per gli abitanti del nord del mondo.

E', quello di De Michelis, un ragionamento molto fine che utilizza un argomento molto sentito dall'opinione pubblica e, va detto, anche ovvio. I processi migratori da sud a nord non possono certo essere affrontati solo "aggiungendo qualche posto alla tavola del nord". Si tratta di risolvere ben più complessi problemi quali quello dello sviluppo dei paesi da dove gli emigranti fuggono. Alla radice questo processo richiederebbe una sostanziale riaggiustamento - nel senso di una equa distribuzione - dei rapporti tra nord e sud del mondo. Un progetto costoso che implicherebbe rivedere radicalmente anche le scelte di vita, di consumo ecc. degli abitanti del nord.

Ma non è questo il progetto: la finalità non è lo sviluppo degli altri quanto la "mia" sicurezza. Un modo non armato di garantire la propria ricchezza, di garantire la propria predominanza nel mondo. Un modo gentile e scaltro di utilizzare concetti ed elaborazioni estremamente interessanti, finalizzate alla garanzia del proprio privilegio in modo non armato.


4. PERCHÉ COOPERARE?

la cooperazione inutile

Se l'analisi sin qui svolta è corretta, risulta evidente che al paradigma di sviluppo proposto dalla logica del libero mercato corrisponda l'inutilità della cooperazione.

Sono venuti meno i soggetti che potrebbero cooperare (gli stati e le società civili) ma è anche venuta meno la consapevolezza del "dovere" della cooperazione : i poveri vanno abbandonati a se stessi : si può e si deve vivere senza di loro.

L'interdipendenza e la globalizzazione che comportano la crisi dello Stato nazionale, mettono in crisi oppure no, anche il paradigma della cooperazione, così come è stata gestita fino adesso?

Partiamo da alcuni dati. La tab. seguente evidenzia la distribuzione del reddito a livello mondiale.

Come si può notare i dati dell'UNDP parlano piuttosto chiaro:

Popolazione mondiale                                    Reddito mondiale
      20%                       più ricco                         82,7%
      20%                                                         11,7%
      20%                                                          2,3%
      20%                                                          1,9%
      20%                       più povero                         1,4%

In un mondo con queste caratteristiche parlare di cooperazione è un non senso: è più corretto parlare di redistribuzione delle ricchezze. Ed osservando "l'amaro calice" della povertà mondiale si comprende il crudo significato di concetti quali "cooperazione come sicurezza" laddove sicurezza si intende "sicurezza per me a scapito di altri ed a qualunque costo".

Tenete conto che la cosiddetta curva di Lorenz (uno degli strumenti di valutazione dell'uguaglianza economica che trascrive graficamente le aspirazioni al benessere materiale attraverso i redditi) prevede, teoricamente, che la perfetta uguaglianza risponda alla logica secondo cui ogni 1% della popolazione abbia un 1% del reddito complessivo (come è ovvio!). Qui invece il 20% più povero deve "sopravvivere" con l' 1,4% del reddito mondiale.

E questa disparità, ovviamente, non riguarda solo il reddito ma tocca tutti gli elementi della vita sociale ed economica. L'attività economica (nello specifico 4 ambiti della stessa) sia "iniquamente" distribuita a livello mondiale. Al solito: l'84% del commercio mondiale è in mano al 20% più ricco mentre solo lo 0,9% riguarda il 20% più povero della popolazione mondiale. Si tratta, ovviamente, di dati che hanno valore e significato solo se connessi l'uno con l'altro anche se, come chiunque può capire, si tratta sempre di dati estremamente significativi. Nello specifico caso del commercio qui citato possiamo certo sostenere che "cooperazione" in questo ambito non può essere progetto scisso dalla necessità di rendere il commercio internazionale stesso più equo.

Del resto in questi ultimi decenni la disparità tra ricchi e poveri è aumentata.

Il rapporto tra il reddito del 20% più povero della popolazione mondiale ed il 20% più ricco sia passato da 30/1 a 60/1. Se poi i conti vengono fatti disaggregando i dati per paese o per sesso si hanno situazioni ancora più gravi.

E senza andare molto lontano basta soffermarsi al caso Italia dove circa il 13% della popolazione vive sotto la soglia della povertà (definita sommariamente come reddito inferiore alla metà del reddito medio procapite annuo).

Questi dati interrogano la cooperazione che, idealmente, aveva il compito di colmare almeno in parte il fossato tra ricchi e poveri per permettere ad ogni uomo e donna di questo pianeta di accedere a livelli di vita decenti.

Ciò non è accaduto. Anzi dal punto di vista dei flussi finanziari non sono i paesi del nord ad aiutare i paesi del sud ma accada il contrario. Se analizziamo il trasferimento netto di risorse da Nord a Sud e il debito internazionale vediamo che dal 1980 al 1981 49 milioni di dollari sono stati trasferiti dai Paesi ricchi ai Paesi poveri. Dal 1983 in avanti tuttavia il saldo è a favore del nord, cioè sono più i soldi che da Sud vengono a Nord. E dal 1983 al 1989 vi è una crescita costante: 242 miliardi di dollari dai poveri ai ricchi.

Abbiamo così non una cooperazione da Nord a Sud, ma abbastanza ironicamente, una cooperazione del Sud nei confronti del Nord.

Non bastasse, il III rapporto dell'Undp sintetizza in maniera impietosa quanto costa al sud del mondo l'accesso ineguale e non paritario (ovvero non alle stesse condizioni dei paesi ricchi che sono coloro che definiscono le regole del "gioco" economico internazionale) al mercato mondiale. Gli aiuti che i PVS hanno ricevuto nel 1990 ammontano a 54 miliardi di dollari (AUS totale). A fronte di tale entrata i paesi del sud, a causa dell'iniquo funzionamento dei mercati internazionali hanno minori entrate per un totale di 500 miliardi di dollari. Il che significa che, per assurdo, i paesi del sud potrebbero dire: "Se il nord smettesse di aiutarci e nel frattempo correggesse le regole del mercato internazionale, noi, è vero, perderemmo i 54 miliardi di dollari di aiuto (tralasciando un giudizio di merito sull'utilizzo dei medesimi) ma avremmo comunque 446 miliardi di dollari di maggiori entrate grazie al miglior funzionamento del mercato internazionale".

Si tratta di dati eclatanti su cui riflettere. Noi sentiamo spesso qualcuno sbuffare: "Ma insomma, non se ne può più di aiutare questi poveri disperati nel Sud del mondo. Non combinano niente malgrado tutti i soldi che mandiamo loro..." e via andare con teorie che scivolano lentamente (ma a volte anche a velocità strabiliante) verso forme di razzismo che imputano nella sostanza ai poveri la colpa (magari genetica) della loro situazione di povertà. In parallelo assistiamo ad un progressivo e feroce attacco alle diverse forme di welfare state considerate come inutili, diseconomiche perché non figlie delle logiche di mercato.

Succede inoltre che più un paese è povero meno aiuti - tendenzialmente - riceve. Solo il 32% dell'AUS si diriga verso i 10 paesi dove è concentrato il 66% dei poveri del mondo (che ammontano a circa 1 miliardo e 300 milioni).

Gli aiuti, cioè, sono legati a doppio filo alle logiche geopolitiche. Così, ad esempio, il flusso di AUS verso l'Egitto nel 1991 è stato di 4.638 milioni di dollari (corrispondente al 14% del PNL). Si può facilmente osservare come l'Egitto sia uno dei paesi maggiormente "aiutati" (e ciò vale anche per gli anni successi qui non analizzati) e lecita risulta pertanto la domanda: perché l'Egitto? La risposta è abbastanza semplice: l'Egitto è un paese strategicamente rilevante per i donatori, è il baluardo dell'occidente laico contro il fondamentalismo islamico e quindi cooperare con l'Egitto equivale, nella sostanza, investire in sicurezza (propria, ovviamente).


5. VERSO POLITICHE PLANETARIE DI SICUREZZA SOCIALE

Siamo partiti, iniziando questa conversazione, citando i processi di mondializzazione - globalizzazione (dell'economia, dell'informazione, ecc.) e di interdipendenza. Abbiamo sottolineato come tali processi comportino la fine dello Stato nazionale come punto di riferimento reale dei processi economici (che si definiscono sempre più come transnazionali).

Ciò implica anche la necessità di rivedere la cooperazione in quanto tale, ovvero in quanto rapporto tra Stati sovrani con il fine di aiutare i PVS.

Credo che la cooperazione allo sviluppo debba pian piano trasformarsi in "politica globale di sicurezza sociale", un "welfare" planetario. La cooperazione allo sviluppo dovrebbe divenire l'insieme di strumenti (finanziari, progettuali, pubblici e privati) che hanno lo scopo di permettere e garantire la sicurezza sociale di ogni persone del pianeta. Una sicurezza definita non dal senso bellico del termine ma da qualità di vita degna di questo nome e riassumibile (seguendo le indicazioni dell'Undp) nel concetto di "sviluppo umano" che segna la scelta di un nuovo paradigma per lo sviluppo (Per sviluppo umano l'Undp intende "il processo che permette alle persone di ampliare la propria gamma di scelte. Il reddito è una di queste scelte, ma non rappresenta la somma totale delle esperienze umane. La salute, l'istruzione, l'ambiente salubre e la libertà di azione e di espressione sono fattori altrettanto importanti. La sviluppo umano, di conseguenza, non può essere promosso da una ricerca a senso unico della sola crescita economica. La quantità della crescita è fondamentale (...) ma altrettanto importante è la distribuzione della crescita, vale a dire se le persone partecipano pienamente al processo di crescita").

Ed è su questa sfida che si gioca il social summit di Copenaghen (marzo 1995). Nel documento preparatorio si dice, emblematicamente, che: "Il mondo non conoscerà mai la pace finché le persone non raggiungeranno la sicurezza nella loro vita quotidiana. I conflitti di domani si verificheranno forse più all'interno delle singole nazioni che non tra un paese e l'altro, e avranno le loro origini profonde nell'aumento della povertà e delle disparità economiche. In un quadro come questo la sicurezza deve essere ricercata nello sviluppo, non nelle armi".

Il passaggio dalla cooperazione alla sicurezza sociale globale impone però un radicale mutamento di mentalità e di paradigma. Occorre prendere davvero coscienza che siamo sulla stessa barca, occorre che il "dovere di solidarietà", sino ad ora riconosciuto entro la cerchia della propria comunità o nazione, allarghi la propria ottica sino a comprendere il mondo intero.

Nell'epoca della globalizzazione e della interdipendenza - questa è la sfida - il dovere di solidarietà non si ferma ai confini della mia nazione ma "li supera" (in senso psicologico, visto che in senso tecnico essi neppure esistono più...) allargando l'orizzonte della azione politica e dei progetti di società.

Una sfida dalla enorme portata: oggi noi non percepiamo davvero questo dovere di solidarietà (nel senso politico del termine) a livello planetario. Al massimo siamo giunti agli aiuti ed alla emergenza umanitari (aiuti ed emergenze "necessari e doverosi" a prescindere dall'appartenenza nazionale proprio perché rivolti legati al fatto stesso di essere "uomini", ovvero di appartenere al genere umano, e pertanto "universali"). Ma al "dovere di solidarietà" nel senso di "dovere" che interpella ogni uomo ed ogni società (a prescindere dall'appartenenza nazionale) alla costruzione di un ambiente di vita "umano" ove ogni persona abbia la possibilità di realizzare le proprie potenzialità non siamo ancora giunti. Paghiamo un ritardo antropologico: la realtà è evoluta ad una velocità altissima e noi non abbiamo sviluppato con la stessa velocità la nostra coscienza ed i mezzi per governare la nuova realtà.

Così se è vero che oggi non esistono più confini economici, ambientali, comunicativi, ... e che lo Stato Nazione non riesce più a governare i processi della mondializzazione, è anche vero che tale ragionamento non funziona dal punto di vista politico e della difesa. Oggi noi non esiste (e ne abbiamo una disperata necessità !) né una politica né una difesa "planetaria".

Risulta così evidente come quanto sin qui detto troverà piena conclusione nell'intervento di Papisca che proprio di una politica e di una difesa planetaria costruite sulla riforma dell'Onu si fa da anni promotore.

Ciò implica mettere mano o seri processi di democratizzazione delle varie istituzioni internazionali (tra le altre la Banca Mondiale ed il Fondo Monetario Internazionale) e la creazione di processi reali di governo sovranazionale dell'economia. Tra questi merita una particolare menzione l'ipotesi (che sarà discussa a Copenaghen al social summit) di una "tassa mondiale" che dovrebbe servire a finanziare progetti di sviluppo e di sicurezza umana a livello planetario. Nel vertice di Rio de Janeiro (1992) si propose una tassa sul consumo di energia (uno degli indicatori con cui si misura la ricchezza economica di un paese) mentre al social summit verrà proposto di tassare dello 0,5% le operazioni di speculazione finanziaria a breve termine.

Noi oggi abbiamo problemi mondiali, planetari ed interdipendenti a cui non corrisponde un omogeneo livello di decisione e progettazione politica. Un'economia non governata democraticamente tende per sua stessa natura a farsi essa stessa governo del mondo imponendo nella pratica le proprie regole (competitività, massimizzazione del profitto, ...) ed i propri "valori" (tra i quali certamente la centralità dell'uomo come fine e non come mezzo non risulta certamente ai primissimi posti).

Un governo dell'economia mondiale implica la necessità di metter mano alla redistribuzione delle ricchezze e delle opportunità al fine di garantire a tutti un livello minimo di sviluppo umano e di sicurezza sociale. Ma non esisterà mai sicurezza sociale (ovvero cibo, sanità, salute, educazione, lavoro...) se la distribuzione della ricchezza rimane iniqua.

Da qui la necessità di ripensare la cooperazione (ed il senso di "cooperare altrimenti"): cooperare in modo diverso significa operare affinché si ponga mano ad una reale redistribuzione delle ricchezze ad un altrettanto reale processo di globalizzazione dei processi decisionali democratici fondati sui principi della carta dei diritti dell'uomo.

Risulta immediatamente evidente, tuttavia, come la redistribuzione della ricchezza, della qualità e quantità di vita, comporti costi rilevanti che toccano da vicino le nostre esistenze, le nostre scelte di vita, i nostri consumi, il modo stesso di organizzarsi della nostra economia e della nostra società.

Il che significa anche comprendere il significato di "cooperazione come difesa - anche militare - dei nostri privilegi", ovvero l'ipotesi sempre più reale di utilizzare gli strumenti della difesa militare non nei confronti di nemici armati ma di "nemici" armati solo di povertà e disperazione.

Ma se la cooperazione non affronta questo nodo rischia di ridursi ad inganno: è illogico, ad esempio, aumentare il proprio aiuto finanziario al sud del mondo se contemporaneamente non si muta il rapporto commerciale che ci lega ai paesi che aiutiamo. Il che non significa smettere di cooperare nel senso tradizionale del termine quanto imparare ad agire sui due livelli: quello dell'aiuto tradizionale e quello dell'impegno nei processi di mutamento strutturale della gestione del pianeta.

Il che implica, come già sottolineato, rivedere stili e modelli di vita sia a livello individuale che collettivo. Qui si collocano, a mio avviso, un pericolo ed una difficoltà ulteriori: generare la necessità di rivedere stili e modelli di vita deve inesorabilmente costringerci a pensare ad un modello diverso di realizzazione dell'uomo e della donna nella nostra società. In caso contrario non ci sarà mai il consenso necessario per un'operazione così complessa mentre crescerà il consenso nei confronti di chi propone (e proporrà) di prepararsi a difendere a mano armata i nostri stili di vita (ed i nostri privilegi) messi in discussione dai disperati del sud del mondo, dalla massa di poveri ed esclusi che premono alle nostre frontiere per poter entrare a raccogliere almeno le briciole del nostro banchetto.


ALLEGATI : cooperazione allo sviluppo, il caso Italia

Aspetti legislativi

Prima di affrontare il tema della cooperazione come "dovere di solidarietà soffermiamoci sullo specifico del caso Italia analizzando in primo luogo la cronologia delle leggi italiane sulla cooperazione:

1966 - legge 1033, la cosiddetta Legge Pedini: autorizza la dispensa dal servizio militare di leva dei cittadini che prestino servizio di assistenza tecnica ai Pvs secondo accordi stipulati dal Governo italiano. Si tratta di una operazione che nasce su spinta della base, della società civile: sono molte le persone che iniziano a frequentare il sud del mondo e a cooperare con loro ma sono scoperte dal punto di vista assistenziale e previdenziale.

1971 - Legge 1222 del 15 dicembre 1972. E' la prima legge sulla "cooperazione tecnica con i Pvs". L'art. 30 inserisce il principio di riconoscimento delle ONG a condizione che i programmi siano preventivamente riconosciuti dal MAE (ministero affari esteri);

1979 - legge 38 del 9 febbraio 1979 denominata "cooperazione italiana con i PVS". Si introduce il principio del riconoscimento delle ONG per selezione ed invio volontari nell'ambito di progetti della durata massima di 6 anni preventivamente approvati dal MAE. Sono riconosciuti i diritti previdenziali, sanitari ed occupazionali dei volontari;

1985 - legge n. 73. E' la famosissima legge che dà vita al FAI, che poi sarà gestito dal senatore Francesco Forte. Si tratta di una legge che costituisce un fondo di 1900 miliardi di lire per interventi straordinari.

Il FAI e la sua gestione costituiscono, purtroppo, uno dei capitoli più neri della cooperazione italiana. Il FAI è al centro della indagine condotta dalla magistratura romana (Pubblico Ministero Paraggio) e definita "Farnesopoli"

1987 - Legge n. 49 del 28 febbraio 1987 denominata "Nuova disciplina della cooperazione italiana con i Pvs". E' la legge attualmente in vigore. Una legge giudicata molto positivamente (l'art.1 motiva la cooperazione secondo obiettivi derivanti da doveri di solidarietà) ed invidiata dagli altri Paesi. Tuttavia è una legge stravolta dalla pratica. Attualmente è in corso un intenso dibattito sulla revisione della legge 49, dibattito che si nutre anche delle "indagini" della commissione d'inchiesta parlamentare sulla cooperazione italiana.

Il trend dell'aiuto pubblico allo sviluppo

In parallelo allo svolgersi dell'aspetto legislativo risulta interessante analizzare quanto accade dal punto di vista finanziario, ovvero studiare il trend dell'aiuto pubblico allo sviluppo dal punto di vista delle risorse messe annualmente a disposizione di tale capitolo.

Il dato da cui partire è una cifra percentuale: 0,7% del prodotto nazionale lordo. Perché? Perché l'Italia (e moltissimi altri paesi) ha aderito nel 1969 alla risoluzione 26.26 del 24 ottobre '69 dell'ONU che impegna i Paesi ricchi a versare lo 0,7% del PNL in cooperazione, in fondi per la cooperazione.

Per quanto concerne l'Italia un dato è subito evidente: il nostro paese non ha mai raggiunto la quota 0,7%. Nel 1989 (momento di massimo impegno finanziario italiano) si raggiunge lo 0,42 (pari a 3.613 miliardi di lire. Ma, emblematicamente, non si tratta di un trend in ascesa, anzi. Si parte dallo 0,15% del 1980 per arrivare nuovamente allo 0,15% nel '95.
 
 


Bibliografia minima di riferimento

UNDP, Human development report, New York, Oxford Un.Press 1990-1996 (7 rapporti)

R. DAHRENDORF, Economic oppotunity, civil society and political liberty, Copenhagen, Conferenza UNRISD sul tema Rethinking social development (traduzione italiana Quadrare il cerchio, Bari Laterza, 1995

A. Bonomi, Il trionfo della moltitudine, Torino, Bollati Boringhieri 1996, pag 43.

Augé M. Nonluoghi. Introduzione ad una antropologia della surmodernità, Elèuthera, Milano, 1993 ed. Orig. Non-lieux, Paris, Suil 1992).

Gruppo di Lisbona (a cura di R. Petrella), I limiti della competitività, Roma, Manifesto libri 1995

S. George - F. Sabelli, Crediti senza frontiere. La religione secolare della Banca Mondiale, Torino, Ega, 1994

Giovanni Paolo II, Sollicitudo rei socialis (30.12.1987)

Centesimus annus (1.4.1991)



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