GAME OVER
Naomi Klein

Ora è il momento, nel gioco della guerra, di disumanizzare i nostri nemici. Sono incomprensibili, i loro atti incredibili, le loro motivazioni senza senso. Sono 'pazzi' e i loro Stati 'canaglie'. Non è il momento di capire meglio: no, serve solo una migliore intelligence. Queste sono le regole del gioco della guerra. Senza dubbio le persone sensibili contesteranno questa interpretazione: la guerra non è un gioco. Sono vite reali squarciate; sono figli, figlie, madri e padri persi. L'atto di terrorismo dell'11 settembre è stato la più dura delle realtà, un gesto che fa apparire tutte le altre azioni frivole, simili a giochi. È vero: nel modo più assoluto la guerra non è un gioco.

E dopo il tragico martedì forse non sarà più trattata come tale. Forse l'11 settembre 2001 segnerà la fine dell'era ignobile della guerra videogioco. Guardare i telegiornali dell'11 settembre è stato del tutto diverso dall'ultima volta che sono rimasta incollata davanti alla Cnn per guardare una guerra in tempo reale. Il campo di battaglia della Guerra del Golfo non aveva nulla in comune con quanto abbiamo visto negli ultimi giorni. Allora vedevamo solo asettici bersagli di cemento, demoliti e scomparsi all'istante. Chi c'era in quei poligoni astratti? Non l'abbiamo mai saputo. Dalla Guerra del Golfo la politica estera americana si basa su un'unica brutale menzogna: che gli Usa possano intervenire nei conflitti di tutto il mondo senza subire nessuna vittima. Siamo di fronte a un paese che è arrivato a credere nell'ossimoro più estremo: una guerra sicura. La logica della guerra sicura si basa, naturalmente, sulla capacità tecnologica di condurre una guerra esclusivamente dal cielo. Ma si fonda anche sulla profonda convinzione che nessuno osa provocare gli Stati Uniti -l'unica superpotenza rimasta- sul loro territorio. Fino all'11 settembre questa convinzione ha permesso agli americani di essere felicemente immuni dai conflitti internazionali in cui sono i protagonisti.

Gli americani non ricevono dalla Cnn servizi quotidiani sui bombardamenti in corso in Iraq, né i reportage sugli effetti devastanti delle sanzioni per i bambini di quel paese. Dopo il bombardamento, nel 1998, di una fabbrica farmaceutica in Sudan, scambiata per un impianto di armi chimiche, non ci sono state molte inchieste su come la mancata fabbricazione di vaccini abbia influito sulla prevenzione delle malattie nella regione. E quando la Nato ha bombardato i bersagli civili in Kosovo, la Nbc non ha intervistato i sopravvissuti. Gli Stati Uniti sono diventati esperti nell'arte di addolcire e rendere asettici gli atti di guerra compiuti altrove.
Sul piano interno la guerra non è più un'ossessione nazionale, è una questione che è ampiamente affidata agli esperti. Questo è uno dei molti paradossi del paese: anche se sono il motore della globalizzazione in tutto il mondo, gli Stati Uniti non sono mai stati più isolazionisti e meno aperti al mondo.
L'attacco dell'11 settembre, oltre ad essere indicibilmente raccapricciante, ha sconvolto gli americani anche perché è arrivato inaspettato. È raro che le guerre arrivino come uno shock per il paese attaccato, ma stavolta è stato così. Gli Stati Uniti sono un paese che non solo si credeva in pace ma anche a prova di guerra, una percezione di sé che sarebbe vista con sorpresa dalla maggior parte degli iracheni, dei palestinesi e dei colombiani.

Come una persona affetta da amnesia, gli Usa si sono svegliati nel mezzo di una guerra, solo per scoprire che è una guerra che va avanti da anni. Gli Stati Uniti meritavano di essere attaccati? Naturalmente no. Questo discorso è pericoloso. Ma c'è un'altra domanda che va posta: la politica estera statunitense ha creato le condizioni in cui potesse fiorire una simile logica perversa? Una guerra non tanto contro l'imperialismo Usa quanto contro una presunta insensibilità americana? L'era della guerra videogioco in cui gli Usa sono sempre ai comandi ha prodotto in molte parti del mondo una rabbia accecante contro la persistente asimmetria delle sofferenze. È questo il contesto in cui i perversi vendicatori non chiedono altro che i cittadini americani condividano il loro dolore. Dal momento dell'attacco, i politici e i commentatori statunitensi ripetono che il paese andrà avanti come sempre. È un'affermazione strana: ogni indizio va nella direzione contraria. La guerra, per parafrasare una frase dei giorni delle Guerra del Golfo, è la madre di tutte le interruzioni. Come dovrebbe essere sempre. L'illusione di una guerra senza vittime è stata spezzata definitivamente. Un messaggio lampeggia sul nostro videogioco collettivo: game over.

Tratto da 'Internazionale' 21/27 Settembre 2001