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20 ott. 2001
Il pudore di chiamarla guerra
le idee
ADRIANO SOFRI
IL PRIMO titolo, «Giustizia
infinita», fu frettolosamente ripudiato perché, si disse,
suonava sconveniente alla sensibilità musulmana, che riserva a Dio
l'infinitezza. Alle mie orecchie l'aggettivo suonava appropriato, perché
ammetteva che questa lotta - contro il «terrorismo», così
chiamato anche lui in attesa di un nome migliore - non avrebbe avuto fine.
Infinita: non per onnipotenza, ma per impotenza. Senza fine, non senza
confini. In discussione era piuttosto il sostantivo, la giustizia: cui
l'aggettivo di infinita faceva da attenuante. Che ripiego questo «Enduring
Freedom», e peggio ancora la sua grottesca traduzione: duratura.
La libertà sia tenace e immutabile - non durevole, come in un foglio
di garanzia quinquennale. La giustizia piuttosto non va nominata invano.
Perché la giustizia è un'aspirazione nobile ma l'ingiustizia
è una realtà immane. Anche l'infelicità esiste, e
la felicità è solo un'attesa: ma l'infelicità coincide
con la condizione umana. L'ingiustizia è invece il frutto dell'azione
umana, è opera nostra, e non fa che crescere e accumularsi.
L'ingiustizia riempie il mondo e lo tira in basso, e la giustizia è
un filo di fumo inseguito dagli sguardi degli schiacciati. Non bisogna
prendersi troppa confidenza con la giustizia, neanche con la parola: senza
mantenerla. Non solo: la giustizia è il ripudio della vendetta,
ma la vendetta è anche la sua antica sorella, una sorella esosa
e ricattatrice. Bisogna trattare con discrezione la giustizia in generale
(non perciò amarla meno, al contrario!) e specialmente nella risposta
all'attacco mosso alle Torri e al Pentagono - lingua di scacchi. Se ci
rassegniamo a dire che i morti delle Torri esigono giustizia, e giuriamo
di dar loro giustizia, prepariamo la rovina. La punizione per quei morti
non è forse giusta? Sì: ma più urgente è la
punizione in nome dei vivi, candidati per sorteggio alla prossima impresa
dei martiri assassini. Non è un principio assoluto che adesso deve
ispirarci: è l'incombenza puntuale di una minaccia.
Noi europei, quando siamo in vena, immaginiamo l'Europa come un'America
con le rovine romane e senza pena di morte. Lusinghiera vanità.
L'America ha un sentimento accanito della giustizia perché non l'ha
ancora strappato via dalla sorellanza con la vendetta. Questo la rende
più capace di giustizia - noi siamo duttili, pronti a metterla da
parte, la giustizia, in cambio d'altro, che chiamiamo pace, e facciamo
dei girotondi per dimenticare il nostro strappo - ma anche più tentata
dalla vendetta. Noi, gli italiani, che siamo tra gli europei più
precocemente scampati alla pena di morte - e orgogliosi perciò -
siamo anche i più pieghevoli all'ingiustizia. Gli inglesi l'hanno
appena congedata, la pena di morte, e ne devono avere ancora un ricordo
vivo e una nostalgia, che li rende capaci di colpire. Le cose cambiano
d'aspetto da un momento all'altro, da un luogo all'altro. «Non c'è
pace senza giustizia»: gli uni lo dicono per invocare la riduzione
delle disuguaglianze nel mondo, e intanto deprecare la risposta alle aggressioni;
gli altri lo dicono per esigere che alla pace non sia sacrificata la libertà
e il diritto. C'è un Isaia per ogni bandiera.
Il tempo della giustizia dev'essere sempre. Ma ora l'azione contro
i nemici non deve incatenarsi al castigo giurato ai morti. Con questo proposito,
si indurrà a picchiare forte e alla cieca. A commettere errori,
volendoli commettere. Né deve portare i colpevoli davanti a un tribunale,
assicurarli alla giustizia, e via. Deve misurarsi con la minaccia. Tener
la mira fissata sul pericolo futuro, ammaestrata dall'orrore avvenuto.
Far pagare un prezzo anticipato, non saldare un conto.
La pace non c'è: è stata rotta, non in una delle infinite
e orrende guerre al dettaglio che corrono la terra e esorcizzano la guerra
in grande, ma nel mondo. Un mondo contro un altro: qualunque nome sia destinato
a prendere l'uno e l'altro. Non c'è la pace, non c'è la giustizia.
C'è una guerra. Non ci si arrende alla cosa chiamandola col suo
nome. Al contrario. È infame, e c'è.
È strano come si vogliano chiudere gli occhi. Al tempo del Kosovo,
quando importava negarle il nome di guerra e imporle il nome di azione
di polizia internazionale, perché così si sarebbe riconosciuta
la necessità dell'intervento ma se ne sarebbero contestati i metodi
guerreschi (delle bombe dall'alto, a rischio zero, della potenza overwhelming
e degli errori naturali), nessuno voleva prestarsi a quel futile gioco
di parole. Gente seria: la Guerra del Kosovo! Oggi ci si impegna a negare
il nome di guerra, magari per chiamare la cosa operazione di polizia. Una
pattuglia di ufficiali giudiziari ammanetterà Bin Laden e i suoi,
leggendo loro i diritti. Al tempo della guerra del Golfo (altra guerra!
Si chiamò allora guerra una cosa imbarazzante in cui da una parte
non muore nessuno, dall'altra cento o duecentomila soldati!) ci furono
i fautori strenui dell'embargo, come strumento pacifico per liberare il
Kuwait, riportare la giustizia e sventare la guerra. Ora ci sono fautori
del Tribunale Penale internazionale, che hanno finora per lo più
ignorato o deriso. Ci sono fautori dell'Onu: peccato per la sua maggioranza
di Stati dispotici, per la sua inerzia o complicità nei confronti
di genocidi e stragi, per il suo Consiglio di Sicurezza con la Siria appena
entrata, nel giorno in cui i capi siriani dichiaravano legittime contro
Israele tutte le armi, compresi i kamikaze.
L'azione militare è ora vidimata dall'Onu in nome della legittima
difesa. La legittima difesa non è la giustizia: è una deroga
necessaria alla giustizia. Se l'azione degli americani e degli inglesi
è, come dev'essere, di legittima difesa, non deve ingannarsi né
ingannare sulla giustizia. Il diritto alla legittima difesa non è
condizionato dall'innocenza dell'aggredito. La giustizia è un'aspirazione
assoluta. La legittima difesa è duttile e relativa. Il suo criterio
è l'efficacia, purché non tradisca i valori che vuole difendere:
a cominciare dalla cura delle vite degli afgani innocenti come di vite
proprie. |