DIETRO LA STRATEGIA DEGLI ISLAMICI LA
VENDETTA PER LA PROFANAZIONE DEI LUOGHI SACRI AI MUSULMANI NON è
vero che Osama bin Laden abbia rivendicato alla tv l’attentato di New York:
c’è stato un errore nella traduzione a braccio. Egli esprime «compiacimento»
per quel colpo infame assestato agli Stati Uniti al prezzo di migliaia
di innocenti; promette, anzi: annuncia, lo sterminio degli infedeli (americani
per primi) la cui colpa è quella di opprimere gli islamici tutti
(«hanno infangato col sangue l’onore e la santità dell’islam»),
assicura il castigo tremendo di Dio per chi consente agli infedeli di calpestare,
inzozzandola, la terra più sacra, cioè l’Arabia Saudita che,
giustappunto, custodisce i luoghi sacri dell’islam: Mecca e Medina. Non
deve stupire il fatto che lo Sceicco del Terrore non rivendichi apertamente
quell’«operazione terroristica senza precedenti»: fa parte
della sua cultura lasciar dire agli altri. Un musulmano-doc comunica anche
tacendo, di solito conferma indirettamente, non in modo esplicito. In verità,
intende dire col suo linguaggio evasivo (nel merito) Osama bin Laden, è
stato Dio a colpire. Questo conta: chi abbia materialmente effettuato il
raid su New York ha scarsa importanza: siamo tutti strumenti del volere
divino. Del resto, al punto in cui stanno le cose, prove schiaccianti o
non, per gli Stati Uniti, per il loro presidente senz’altro umiliato e
scosso nel suo orgoglio di Wasp, non conta tanto punire il colpevole materiale
del delitto quanto il delitto stesso, magari dandogli connotazioni umane
plausibili. Tutto intero come appare, Osama bin Laden è plausibile.
Il suo fisico, il suo comunicare mediante una vidoecassetta (probabilmente
girata in uno studio, al riparo da interferenze sonore), il tono in falsetto
della sua voce, il crudele «messaggio» per certi versi mafioso
ch’egli indirizza al mondo, corrispondono esattamente all’idea che di lui
ci siamo fatti: noi che lo condanniamo, coloro che ne approvano le gesta
sinistre, i ragazzi frustrati della suburra palestinese dove manca l’acqua,
soprattutto la speranza in un futuro decente, ma non certo manca il verbalismo
pseudoreligioso dell’islam radicale, così infuocato e persuasivo
da cortocircuitare la ragione. Su questo giornale Barbara Spinelli ha scritto
che al linguaggio senz’altro pericoloso dello Sceicco del Terrore bisognerà
opporre «l’uso della parola giusta». Bisognerà opporre
«argomenti stringenti, in modo da non lasciare a bin Laden il monopolio
della serenità di coscienza e della rivolta contro le ingiustizie».
Ben detto. Tuttavia. Tuttavia. Un discorso come quello che Barbara Spinelli
suggerisce può esser recepito, metabolizzato da persone occidentali,
giovani e non, persino, forse, dai pacifisti di strada, dai ragazzini che
in tv battono le mani a neodemagoghi vanitosi, compiaciuti di se stessi,
da chi in cuor suo dubita che la risposta giusta alla follia demolitrice
di Osama sia il solito bombardamento aereo. Certamente un linguaggio concreto,
rigoroso, direi cartesiano può funzionare: giustappunto se rivolto
a quanti sommariamente ho più sopra accennato. Invece non può
funzionare se indirizzato a coloro che mi sia consentito definire neoislamici,
radicali o non. Dicono, persone di certo autorevoli, che sarebbe errore
grave parlare in questo momento di guerra, o scontro, tra civiltà,
peggio tra religioni. Dicono che l’islam non è Osama bin Laden.
L’islam, quello vero, autentico, vale a dire la stragrande maggioranza
di un miliardo e passa di individui, è altra e nobile cosa. D’accordo,
ma rimane il fatto che la minoranza nichilista della quale si fa vessillifero
Osama bin Laden ragiona esattamente come le SS: «Gott mit uns»,
Dio è con noi, afferma. In verità lo diciamo un po’ tutti,
peccando così di oscena superbia, di presunzione blasfema. Tutti
meno Giovanni Paolo II che Dio prega sino allo sfinimento sentendo il cilicio
della sofferenza intima aggiungersi a quello della sofferenza fisica. Giovanni
Paolo II, il pontefice di Santa Romana Chiesa, ha chiesto perdono per le
Crociate e, quindi, per quei suoi predecessori che incitavano i liberatori
del Santo Sepolcro al massacro degli «infedeli saracini» assicurando
che «Dio lo vuole», che Dio li avrebbe ricolmati della sua
grazia, della sua indulgenza.
E allora? Umilmente, in forza dell’esperienza (si fa per dire naturalmente)
maturata in innumerevoli viaggi di lavoro-studio nel mondo musulmano durante
cinquant’anni di giornalismo, io oso pensare che, al punto in cui stanno,
ahimè, le cose, sarebbe meglio tacere. E agire. Chi scrive, di guerre
ne ha viste tante convincendosi che, alla fine, risultano tragicamente
inutili. Epperò esistono guerre ineludibili e perciò non
inutili: quella degli Alleati contro il nazifascismo, ad esempio. Si dirà
che la vinsero, gli Alleati, anche con la «parola giusta»:
parlandoci attraverso Radio Londra, sera dopo sera, spiegandoci chi veramente
fosse Hitler e che cos’era la democrazia e cosa potevamo attenderci da
essa, a guerra finita, quando la Malabestia sarebbe stata morta e sepolta.
Ma il colonnello Stevens parlava un linguaggio ch’era il nostro non soltanto
semanticamente ma soprattutto culturalmente. Mentre noi non sapremo mai
e poi mai, neanche l’amico Guillet che conosce l’arabo come un arabo (nel
senso pieno), parlare ai poveri e illusi seguaci di Osama bin Laden, ai
disgraziati terroristi suicidi di Hamas eccetera; intendo per «parlare»
un linguaggio che corrisponda alla loro mentalità, al loro modo
di vivere, di soffrire, di morire.
Un abisso ci separa anche dalle persone che con l’Occidente han dimestichezza
perché sono vissute da noi, perché han frequentato le nostre
università. Quando il giovine Principe Sultan d’Arabia Saudita volò
a bordo di una navicella spaziale americana, lo fece tenendo al polso sinistro
un cronografo svizzero, al polso destro un orologio in caratteri arabi
regolato sull’ora della Mecca. Perché, come mai?, gli fu domandato.
«Perché sono musulmano», rispose.
Nel 1973 in un aprile buono che rendeva quasi sopportabile la calura
del giorno, ero a Gedda per incontrare il grande Re Feisal, il creatore
dell’Arabia Saudita «moderna». («Ha guidato verso il
futuro elettronico il suo popolo con il capo rivolto all’indietro»:
cioè al passato splendido dell’islam dominatore illuminato, quello
della Scuola di Toledo, di Averroè, di Avicenna).
Com’era bella, allora, Gedda, com’era autentica: i mercatini notturni
delle spezie, le bottegucce illuminate dalle lampade ad acetilene, con
quell’odore legato alle fiere siciliane dell’infanzia. Le case basse ricche
di finestre ornate da musharabie (i graticciati di legno di sandalo):
disegnavano circuiti di vita, di pensiero che, in parte, ritroviamo in
Mirò, in Picasso, poiché esprimono (o esprimevano) mistero
e fantasia con geniale pudore.
Ma ecco ora, al tempo presente, per dar plasticità al ricordo,
quella mia esperienza: l’incontro con Re Feisal. (Fu il borghese Omar Saqqaf,
non dimenticato ministro degli Esteri saudita a darmi la opportunità
di esser ricevuto a corte).
«Feisal ibn Abdul Aziz, re dell’Arabia Saudita, emiro degli emiri,
custode dei Luoghi Santi, imam dei musulmani, nelle sue lunghe vesti di
seta bianca somiglia a una colonna alta e sottile. Maestosamente drappeggiato
nell’ampia abbaya nera (il mantello beduino) listata d’oro, corona di corda
dorata sul copricapo bianco degli arabi, ci guarda impassibile. Il volto
dal profilo d’aquila, allungato da una barbetta grigiastra, è inciso
di rughe profonde. La bocca, leggermente sbieca a un’estremità,
appare contratta da un rictus scettico. Gli occhi, malinconici e slavati,
fissano un punto lontano e indefinibile. Il re ti guarda senza vederti.
In piedi fra due consiglieri, Feisal ci porge una mano scarna ma forte,
asciutta. Mormora parole di saluto, si duole di non poterci dedicare, a
causa di impegni già fissati in precedenza, "tutto il tempo che
il giovine ospite meriterebbe". Ringraziamo il re per la sua gentilezza,
ricevendone in cambio un gesto a metà tra il saluto e la benedizione.
"Siate il benvenuto in questo paese. La mia casa è la vostra"».
Era il 17 di febbraio del 1973. Sulla via del ritorno, il mio accompagnatore,
un giovine saudiano che aveva studiato scenografia a Firenze sposando un’italiana,
mi confessò che ogni incontro col sovrano gli procurava «un’intensa
emozione». Ancora dieci anni fa, disse, l’Arabia Saudita sembrava
condannata a un eterno immobilismo. Re Saud, crapulone, volubile, amministrava
il paese come una proprietà privata, solo preoccupato di far costruire
mostruosi palazzi per sé e le sue concubine, di arricchire di Cadillac
con le maniglie d’oro il proprio parco di automobili. Gli mancavano l’intelligenza,
il senso politico e il coraggio fisico del padre Abdul Aziz ibn Abdul Rahman
al Feisal al Saud, il leggendario Ibn Saud che combattendo dal 1902 al
1925 edificò a colpi di spada e di astuzia il Regno dell’Arabia
Saudita proclamato nel 1932. Nel 1933 in cambio di 30 mila sovrane d’oro,
Ibn Saud diede una concessione per la ricerca del petrolio alla Socal ma
le royalties cominciano a far piovere dollari sulle desolate steppe dell’Arabia
verso la fine del suo regno (1953). Nel 1955, due anni dopo l’avvento al
trono di Saud, nelle casse del sovrano entrano 341 milioni di dollari,
tuttavia un anno dopo il paese è in piena crisi economica e nel
‘57 lo Stato è praticamente in fallimento, con un debito pubblico
di 1800 milioni di ryals. Se Ibn Saud aveva amministrato da buon padre
di famiglia, Saud dilapidava comportandosi come un «figlio di papà»
imprevidente e megalomane. Nel 1958 il regime di Saud è sull’orlo
della bancarotta quando scoppia lo scandalo: a Damasco Nasser rivela alla
folla che Re Saud ha tentato di farlo assassinare. In Arabia l’indignazione
è enorme, la famiglia reale mette sotto accusa il sovrano che, a
malincuore, confida tutti i poteri al fratello Feisal. L’ultimo atto si
recita il 30 di ottobre del 1954, a Ryad, nel palazzo di Nassirya, dove
il re, abbandonato dalla sua guardia, s’è barricato in compagnia
delle sue mogli, delle concubine, dei figli. Saud è deposto e Feisal
«inchinandosi alla volontà del popolo» accetta di salire
sul trono. Egli vive come un asceta, ostenta disprezzo per i beni materiali,
è monogamo. Non fuma, non beve. Riservato e solitario si macera
nella preghiera ma è anche intelligente e scaltro, calcolatore e
per nulla sentimentale. Ha una pessima salute di ferro. In meno di due
anni, con una politica di austerità, ribalta la situazione. I contratti
non vengono più sottoscritti tra il re e i petrolieri, ma fra lo
Stato e le compagnie concessionarie e vengono amministrati da un ministero
del petrolio. Gli appannaggi della famiglia reale, favolosi al tempo di
Saud, si riducono anno per anno mentre si ingigantiscono gli stanziamenti
destinati alla spesa pubblica, al Welfare State, alla diversificazione
della economia per non dipendere solo dal petrolio. Nei Sessanta l’Arabia
Saudita era un vasto e interminabile deserto - sette volte la superficie
dell’Italia -, scarsamente popolato di tribù nomadi, di pastori
che nella stragrande maggioranza non avevano mai visto in vita loro un’automobile,
una lampadina elettrica. Niente telefoni né radio. Oggi trionfa
l’high tech, elettronicamente l’Arabia Saudita è già a metà
del terzo millennio. Alla tv le annunciatrici hanno smesso il velo, una
rete telefonica automatica e 18 mila chilometri di bellissime autostrade
collegano le principali città, banche e ospedali, università
e scuole secondarie (l’insegnamento è obbligatorio e gratuito per
tutti) sorgono un po’ dappertutto. Ryad non è più un borgo
polveroso ma una vera capitale, con una università padrona della
più sosfisticata apparecchiatura elettronica che consente la consultazione
di testi sparsi un po’ in tutto il mondo. Gedda, porto principale e capitale
diplomatica, distrugge impietosamente i suoi suks, le belle case con i
graticciati di legno, per far posto a grandi arterie, a grattacieli, a
raffinerie, fabbriche, impianti di desalazione dell’acqua marina.
«Teocrate modernizzante», Feisal sembra tuttavia prigioniero
delle contraddizioni di un riformismo che se accetta il calcolo macroeconomico
rifiuta le teorie copernicane. Come imam dei musulmani egli è solo
«colui che guida alla preghiera», ma per il fatto di appartenere
al filone wahabita, cioè alla corrente musulmana più puritana
e dogmatica, rappresenta una indiscussa autorità religiosa in quanto
custode, appunto, dei Luoghi Sacri. Sicché egli immette i tecnocrati
nel governo, impone l’istruzione della donna, tollera la pillola ma non
vuole una Costituzione perché (mi ha detto), «la Costituzione
noi l’abbiamo già, una grande Costituzione: il Corano». Col
«petrolio di Allah» il re scomparso per mano omicida edificò
una società moderna e giusta, ancorché relativamente: «un
giorno non ci saranno più poveri nel nostro paese». Ma come
si concilia la volontà di fare dell’Arabia un paese aperto con la
chiusura totale a ogni aggiornamento istituzionale? Ancora oggi viene amputata
la mano sulla piazza del mercato al ladro, e il condannato a morte viene
decapitato in pubblico.
Lo sforzo di modernizzazione si scontra continuamente con la sharia,
ma si fa sempre più profondo, a tutti i livelli, il bisogno di aprirsi
al mondo partorito dalle conquiste spaziali. Occidentalizzarsi pretendendo
di confermare l’islam come una filosofia chiusa appare un’impresa impossibile.
L’immettere computers, università, scuole femminili, centri di ricerca
nel circuito chiuso del fondamentalismo religioso non può non comportare,
alla lunga, una crisi. «Sarà una crisi benefica», mi
disse allora il re. E probabilmente, osai dirgli, scatterà il giorno
in cui arabi ed israeliani faranno la pace. Un tempo, e nemmeno troppo
lontano, l’Arabia Saudita si rifiutava addirittura di ammettere l’esistenza
di Israele. Il 17 di febbraio del 1973, per il tramite del ministro Saqqaf,
il re Feisal affermò che la pace con lo Stato ebraico «è
possibile». Esiste lo strumento adatto, precisò, ed è
la risoluzione 242 del Consiglio di Sicurezza. «Occorre applicarla
integralmente poiché l’unica soluzione della crisi è il ritorno
di Israele sulle frontiere del ‘67». Ancora nel 1958 l’Arabia Saudita
«ignorava» Israele, nel 1973 accettava la convivenza con gli
israeliani.
Oggi è diverso. Re Fahd ha fatto la sua parte ma il potente
cugino principe Abdallah lo ha spedito a Ginevra per «motivi di salute»,
tanto è bastato perché come un fuoco d’artifizio s’accendesse
l’ipotesi di un contrasto insanabile, che addirittura potrebbe preludere
a un golpe interno alla casa reale. Una ipotesi di golpe ci sembra francamente
azzardata epperò sappiamo che Abdallah è più vicino
al mondo arabo dell’illustre cugino. Sarebbe Abdallah a imporre una linea
mediana meno filo-occidentale. Sotto la sabbia del grande impero cova certamente
lo scontento di quei «puri e duri» che già assalirono
la Mecca e che oggi perfino dal carcere lanciano segnali allo Sceicco del
Terrore. Questo spiegherebbe perché un Osama qualsiasi può
permettersi di accusare quei regnanti di fellonia, giurando di abbatterli.
Perché il punto è questo: Osama bin Laden ha colpito
New York facendone tuttavia quello che in artiglieria si chiama «falso
scopo»: si mira al campanile per colpire l’obiettivo a valle. A valle
c’è, per lo Sceicco del Terrore, la casa regnante saudita che Osama
accusa d’aver svenduto l’anima agli americani, consentendo ai GI (che occupano
una grande base militare per il momento non operativa), di calpestare,
appunto, la terra santa di Mecca e Medina.
L’Occidente dunque è soltanto un punto di partenza, così
come la difesa della causa palestinese è un ruffiano espediente
politico. Lui, lo Sceicco, vuole, fortissimamente vuole, arrivare alla
casa reale saudita: per punirla. Lui che è saudita, lui che ha fatto
a suo tempo fortuna miliardaria da intrepido palazzinaro senza scrupoli,
innalzando grattacieli in tutto il suo paese. Lui che al tempo dell’invasione
russa dell’Afghanistan si guadagnò l’apprezzamento della Cia per
il suo aiuto materiale alla «causa» dei poveri afghani, per
il suo «freddo coraggio in combattimento».
Sì, Osama bin Laden ce l’ha con i regnanti suoi perché
si sarebbero «venduti» al Grande Satana (l’America). Questa
è almeno la vulgata corrente. In realtà non sappiamo perché
e come mai: forse più banalmente qualcuno lo avrà offeso,
magari umiliato in Arabia Saudita e lui, oggi, sta semplicemente tentando
di vendicarsi. Chissà. Non lo sapremo (forse) mai, la verità
giace nel profondo del suo cuore terribile.
E non sarà certo con una autopsia - se e allorché metteranno
le mani sul suo corpo di guerrigliero ucciso -, che riusciremo a capire
«perché» Osama ha provocato una guerra che verosimilmente
sarà lunga ma certamente sarà senza misericordia