ARABIA SAUDITA
LA STAMPA 10/10
Igor Man

DIETRO LA STRATEGIA DEGLI ISLAMICI LA VENDETTA PER LA PROFANAZIONE DEI LUOGHI SACRI AI MUSULMANI NON è vero che Osama bin Laden abbia rivendicato alla tv l’attentato di New York: c’è stato un errore nella traduzione a braccio. Egli esprime «compiacimento» per quel colpo infame assestato agli Stati Uniti al prezzo di migliaia di innocenti; promette, anzi: annuncia, lo sterminio degli infedeli (americani per primi) la cui colpa è quella di opprimere gli islamici tutti («hanno infangato col sangue l’onore e la santità dell’islam»), assicura il castigo tremendo di Dio per chi consente agli infedeli di calpestare, inzozzandola, la terra più sacra, cioè l’Arabia Saudita che, giustappunto, custodisce i luoghi sacri dell’islam: Mecca e Medina. Non deve stupire il fatto che lo Sceicco del Terrore non rivendichi apertamente quell’«operazione terroristica senza precedenti»: fa parte della sua cultura lasciar dire agli altri. Un musulmano-doc comunica anche tacendo, di solito conferma indirettamente, non in modo esplicito. In verità, intende dire col suo linguaggio evasivo (nel merito) Osama bin Laden, è stato Dio a colpire. Questo conta: chi abbia materialmente effettuato il raid su New York ha scarsa importanza: siamo tutti strumenti del volere divino. Del resto, al punto in cui stanno le cose, prove schiaccianti o non, per gli Stati Uniti, per il loro presidente senz’altro umiliato e scosso nel suo orgoglio di Wasp, non conta tanto punire il colpevole materiale del delitto quanto il delitto stesso, magari dandogli connotazioni umane plausibili. Tutto intero come appare, Osama bin Laden è plausibile. Il suo fisico, il suo comunicare mediante una vidoecassetta (probabilmente girata in uno studio, al riparo da interferenze sonore), il tono in falsetto della sua voce, il crudele «messaggio» per certi versi mafioso ch’egli indirizza al mondo, corrispondono esattamente all’idea che di lui ci siamo fatti: noi che lo condanniamo, coloro che ne approvano le gesta sinistre, i ragazzi frustrati della suburra palestinese dove manca l’acqua, soprattutto la speranza in un futuro decente, ma non certo manca il verbalismo pseudoreligioso dell’islam radicale, così infuocato e persuasivo da cortocircuitare la ragione. Su questo giornale Barbara Spinelli ha scritto che al linguaggio senz’altro pericoloso dello Sceicco del Terrore bisognerà opporre «l’uso della parola giusta». Bisognerà opporre «argomenti stringenti, in modo da non lasciare a bin Laden il monopolio della serenità di coscienza e della rivolta contro le ingiustizie». Ben detto. Tuttavia. Tuttavia. Un discorso come quello che Barbara Spinelli suggerisce può esser recepito, metabolizzato da persone occidentali, giovani e non, persino, forse, dai pacifisti di strada, dai ragazzini che in tv battono le mani a neodemagoghi vanitosi, compiaciuti di se stessi, da chi in cuor suo dubita che la risposta giusta alla follia demolitrice di Osama sia il solito bombardamento aereo. Certamente un linguaggio concreto, rigoroso, direi cartesiano può funzionare: giustappunto se rivolto a quanti sommariamente ho più sopra accennato. Invece non può funzionare se indirizzato a coloro che mi sia consentito definire neoislamici, radicali o non. Dicono, persone di certo autorevoli, che sarebbe errore grave parlare in questo momento di guerra, o scontro, tra civiltà, peggio tra religioni. Dicono che l’islam non è Osama bin Laden. L’islam, quello vero, autentico, vale a dire la stragrande maggioranza di un miliardo e passa di individui, è altra e nobile cosa. D’accordo, ma rimane il fatto che la minoranza nichilista della quale si fa vessillifero Osama bin Laden ragiona esattamente come le SS: «Gott mit uns», Dio è con noi, afferma. In verità lo diciamo un po’ tutti, peccando così di oscena superbia, di presunzione blasfema. Tutti meno Giovanni Paolo II che Dio prega sino allo sfinimento sentendo il cilicio della sofferenza intima aggiungersi a quello della sofferenza fisica. Giovanni Paolo II, il pontefice di Santa Romana Chiesa, ha chiesto perdono per le Crociate e, quindi, per quei suoi predecessori che incitavano i liberatori del Santo Sepolcro al massacro degli «infedeli saracini» assicurando che «Dio lo vuole», che Dio li avrebbe ricolmati della sua grazia, della sua indulgenza.
E allora? Umilmente, in forza dell’esperienza (si fa per dire naturalmente) maturata in innumerevoli viaggi di lavoro-studio nel mondo musulmano durante cinquant’anni di giornalismo, io oso pensare che, al punto in cui stanno, ahimè, le cose, sarebbe meglio tacere. E agire. Chi scrive, di guerre ne ha viste tante convincendosi che, alla fine, risultano tragicamente inutili. Epperò esistono guerre ineludibili e perciò non inutili: quella degli Alleati contro il nazifascismo, ad esempio. Si dirà che la vinsero, gli Alleati, anche con la «parola giusta»: parlandoci attraverso Radio Londra, sera dopo sera, spiegandoci chi veramente fosse Hitler e che cos’era la democrazia e cosa potevamo attenderci da essa, a guerra finita, quando la Malabestia sarebbe stata morta e sepolta. Ma il colonnello Stevens parlava un linguaggio ch’era il nostro non soltanto semanticamente ma soprattutto culturalmente. Mentre noi non sapremo mai e poi mai, neanche l’amico Guillet che conosce l’arabo come un arabo (nel senso pieno), parlare ai poveri e illusi seguaci di Osama bin Laden, ai disgraziati terroristi suicidi di Hamas eccetera; intendo per «parlare» un linguaggio che corrisponda alla loro mentalità, al loro modo di vivere, di soffrire, di morire.
Un abisso ci separa anche dalle persone che con l’Occidente han dimestichezza perché sono vissute da noi, perché han frequentato le nostre università. Quando il giovine Principe Sultan d’Arabia Saudita volò a bordo di una navicella spaziale americana, lo fece tenendo al polso sinistro un cronografo svizzero, al polso destro un orologio in caratteri arabi regolato sull’ora della Mecca. Perché, come mai?, gli fu domandato. «Perché sono musulmano», rispose.
Nel 1973 in un aprile buono che rendeva quasi sopportabile la calura del giorno, ero a Gedda per incontrare il grande Re Feisal, il creatore dell’Arabia Saudita «moderna». («Ha guidato verso il futuro elettronico il suo popolo con il capo rivolto all’indietro»: cioè al passato splendido dell’islam dominatore illuminato, quello della Scuola di Toledo, di Averroè, di Avicenna).
Com’era bella, allora, Gedda, com’era autentica: i mercatini notturni delle spezie, le bottegucce illuminate dalle lampade ad acetilene, con quell’odore legato alle fiere siciliane dell’infanzia. Le case basse ricche di finestre ornate da musharabie (i graticciati di legno di sandalo): disegnavano circuiti di vita, di pensiero che, in parte, ritroviamo in Mirò, in Picasso, poiché esprimono (o esprimevano) mistero e fantasia con geniale pudore.
Ma ecco ora, al tempo presente, per dar plasticità al ricordo, quella mia esperienza: l’incontro con Re Feisal. (Fu il borghese Omar Saqqaf, non dimenticato ministro degli Esteri saudita a darmi la opportunità di esser ricevuto a corte).
«Feisal ibn Abdul Aziz, re dell’Arabia Saudita, emiro degli emiri, custode dei Luoghi Santi, imam dei musulmani, nelle sue lunghe vesti di seta bianca somiglia a una colonna alta e sottile. Maestosamente drappeggiato nell’ampia abbaya nera (il mantello beduino) listata d’oro, corona di corda dorata sul copricapo bianco degli arabi, ci guarda impassibile. Il volto dal profilo d’aquila, allungato da una barbetta grigiastra, è inciso di rughe profonde. La bocca, leggermente sbieca a un’estremità, appare contratta da un rictus scettico. Gli occhi, malinconici e slavati, fissano un punto lontano e indefinibile. Il re ti guarda senza vederti. In piedi fra due consiglieri, Feisal ci porge una mano scarna ma forte, asciutta. Mormora parole di saluto, si duole di non poterci dedicare, a causa di impegni già fissati in precedenza, "tutto il tempo che il giovine ospite meriterebbe". Ringraziamo il re per la sua gentilezza, ricevendone in cambio un gesto a metà tra il saluto e la benedizione. "Siate il benvenuto in questo paese. La mia casa è la vostra"».
Era il 17 di febbraio del 1973. Sulla via del ritorno, il mio accompagnatore, un giovine saudiano che aveva studiato scenografia a Firenze sposando un’italiana, mi confessò che ogni incontro col sovrano gli procurava «un’intensa emozione». Ancora dieci anni fa, disse, l’Arabia Saudita sembrava condannata a un eterno immobilismo. Re Saud, crapulone, volubile, amministrava il paese come una proprietà privata, solo preoccupato di far costruire mostruosi palazzi per sé e le sue concubine, di arricchire di Cadillac con le maniglie d’oro il proprio parco di automobili. Gli mancavano l’intelligenza, il senso politico e il coraggio fisico del padre Abdul Aziz ibn Abdul Rahman al Feisal al Saud, il leggendario Ibn Saud che combattendo dal 1902 al 1925 edificò a colpi di spada e di astuzia il Regno dell’Arabia Saudita proclamato nel 1932. Nel 1933 in cambio di 30 mila sovrane d’oro, Ibn Saud diede una concessione per la ricerca del petrolio alla Socal ma le royalties cominciano a far piovere dollari sulle desolate steppe dell’Arabia verso la fine del suo regno (1953). Nel 1955, due anni dopo l’avvento al trono di Saud, nelle casse del sovrano entrano 341 milioni di dollari, tuttavia un anno dopo il paese è in piena crisi economica e nel ‘57 lo Stato è praticamente in fallimento, con un debito pubblico di 1800 milioni di ryals. Se Ibn Saud aveva amministrato da buon padre di famiglia, Saud dilapidava comportandosi come un «figlio di papà» imprevidente e megalomane. Nel 1958 il regime di Saud è sull’orlo della bancarotta quando scoppia lo scandalo: a Damasco Nasser rivela alla folla che Re Saud ha tentato di farlo assassinare. In Arabia l’indignazione è enorme, la famiglia reale mette sotto accusa il sovrano che, a malincuore, confida tutti i poteri al fratello Feisal. L’ultimo atto si recita il 30 di ottobre del 1954, a Ryad, nel palazzo di Nassirya, dove il re, abbandonato dalla sua guardia, s’è barricato in compagnia delle sue mogli, delle concubine, dei figli. Saud è deposto e Feisal «inchinandosi alla volontà del popolo» accetta di salire sul trono. Egli vive come un asceta, ostenta disprezzo per i beni materiali, è monogamo. Non fuma, non beve. Riservato e solitario si macera nella preghiera ma è anche intelligente e scaltro, calcolatore e per nulla sentimentale. Ha una pessima salute di ferro. In meno di due anni, con una politica di austerità, ribalta la situazione. I contratti non vengono più sottoscritti tra il re e i petrolieri, ma fra lo Stato e le compagnie concessionarie e vengono amministrati da un ministero del petrolio. Gli appannaggi della famiglia reale, favolosi al tempo di Saud, si riducono anno per anno mentre si ingigantiscono gli stanziamenti destinati alla spesa pubblica, al Welfare State, alla diversificazione della economia per non dipendere solo dal petrolio. Nei Sessanta l’Arabia Saudita era un vasto e interminabile deserto - sette volte la superficie dell’Italia -, scarsamente popolato di tribù nomadi, di pastori che nella stragrande maggioranza non avevano mai visto in vita loro un’automobile, una lampadina elettrica. Niente telefoni né radio. Oggi trionfa l’high tech, elettronicamente l’Arabia Saudita è già a metà del terzo millennio. Alla tv le annunciatrici hanno smesso il velo, una rete telefonica automatica e 18 mila chilometri di bellissime autostrade collegano le principali città, banche e ospedali, università e scuole secondarie (l’insegnamento è obbligatorio e gratuito per tutti) sorgono un po’ dappertutto. Ryad non è più un borgo polveroso ma una vera capitale, con una università padrona della più sosfisticata apparecchiatura elettronica che consente la consultazione di testi sparsi un po’ in tutto il mondo. Gedda, porto principale e capitale diplomatica, distrugge impietosamente i suoi suks, le belle case con i graticciati di legno, per far posto a grandi arterie, a grattacieli, a raffinerie, fabbriche, impianti di desalazione dell’acqua marina.
«Teocrate modernizzante», Feisal sembra tuttavia prigioniero delle contraddizioni di un riformismo che se accetta il calcolo macroeconomico rifiuta le teorie copernicane. Come imam dei musulmani egli è solo «colui che guida alla preghiera», ma per il fatto di appartenere al filone wahabita, cioè alla corrente musulmana più puritana e dogmatica, rappresenta una indiscussa autorità religiosa in quanto custode, appunto, dei Luoghi Sacri. Sicché egli immette i tecnocrati nel governo, impone l’istruzione della donna, tollera la pillola ma non vuole una Costituzione perché (mi ha detto), «la Costituzione noi l’abbiamo già, una grande Costituzione: il Corano». Col «petrolio di Allah» il re scomparso per mano omicida edificò una società moderna e giusta, ancorché relativamente: «un giorno non ci saranno più poveri nel nostro paese». Ma come si concilia la volontà di fare dell’Arabia un paese aperto con la chiusura totale a ogni aggiornamento istituzionale? Ancora oggi viene amputata la mano sulla piazza del mercato al ladro, e il condannato a morte viene decapitato in pubblico.
Lo sforzo di modernizzazione si scontra continuamente con la sharia, ma si fa sempre più profondo, a tutti i livelli, il bisogno di aprirsi al mondo partorito dalle conquiste spaziali. Occidentalizzarsi pretendendo di confermare l’islam come una filosofia chiusa appare un’impresa impossibile. L’immettere computers, università, scuole femminili, centri di ricerca nel circuito chiuso del fondamentalismo religioso non può non comportare, alla lunga, una crisi. «Sarà una crisi benefica», mi disse allora il re. E probabilmente, osai dirgli, scatterà il giorno in cui arabi ed israeliani faranno la pace. Un tempo, e nemmeno troppo lontano, l’Arabia Saudita si rifiutava addirittura di ammettere l’esistenza di Israele. Il 17 di febbraio del 1973, per il tramite del ministro Saqqaf, il re Feisal affermò che la pace con lo Stato ebraico «è possibile». Esiste lo strumento adatto, precisò, ed è la risoluzione 242 del Consiglio di Sicurezza. «Occorre applicarla integralmente poiché l’unica soluzione della crisi è il ritorno di Israele sulle frontiere del ‘67». Ancora nel 1958 l’Arabia Saudita «ignorava» Israele, nel 1973 accettava la convivenza con gli israeliani.
Oggi è diverso. Re Fahd ha fatto la sua parte ma il potente cugino principe Abdallah lo ha spedito a Ginevra per «motivi di salute», tanto è bastato perché come un fuoco d’artifizio s’accendesse l’ipotesi di un contrasto insanabile, che addirittura potrebbe preludere a un golpe interno alla casa reale. Una ipotesi di golpe ci sembra francamente azzardata epperò sappiamo che Abdallah è più vicino al mondo arabo dell’illustre cugino. Sarebbe Abdallah a imporre una linea mediana meno filo-occidentale. Sotto la sabbia del grande impero cova certamente lo scontento di quei «puri e duri» che già assalirono la Mecca e che oggi perfino dal carcere lanciano segnali allo Sceicco del Terrore. Questo spiegherebbe perché un Osama qualsiasi può permettersi di accusare quei regnanti di fellonia, giurando di abbatterli.
Perché il punto è questo: Osama bin Laden ha colpito New York facendone tuttavia quello che in artiglieria si chiama «falso scopo»: si mira al campanile per colpire l’obiettivo a valle. A valle c’è, per lo Sceicco del Terrore, la casa regnante saudita che Osama accusa d’aver svenduto l’anima agli americani, consentendo ai GI (che occupano una grande base militare per il momento non operativa), di calpestare, appunto, la terra santa di Mecca e Medina.
L’Occidente dunque è soltanto un punto di partenza, così come la difesa della causa palestinese è un ruffiano espediente politico. Lui, lo Sceicco, vuole, fortissimamente vuole, arrivare alla casa reale saudita: per punirla. Lui che è saudita, lui che ha fatto a suo tempo fortuna miliardaria da intrepido palazzinaro senza scrupoli, innalzando grattacieli in tutto il suo paese. Lui che al tempo dell’invasione russa dell’Afghanistan si guadagnò l’apprezzamento della Cia per il suo aiuto materiale alla «causa» dei poveri afghani, per il suo «freddo coraggio in combattimento».
Sì, Osama bin Laden ce l’ha con i regnanti suoi perché si sarebbero «venduti» al Grande Satana (l’America). Questa è almeno la vulgata corrente. In realtà non sappiamo perché e come mai: forse più banalmente qualcuno lo avrà offeso, magari umiliato in Arabia Saudita e lui, oggi, sta semplicemente tentando di vendicarsi. Chissà. Non lo sapremo (forse) mai, la verità giace nel profondo del suo cuore terribile.
E non sarà certo con una autopsia - se e allorché metteranno le mani sul suo corpo di guerrigliero ucciso -, che riusciremo a capire «perché» Osama ha provocato una guerra che verosimilmente sarà lunga ma certamente sarà senza misericordia