Le mani sul petrolio MARIO DEAGLIO
IL PIANO POLITICO DIETRO IL TERRORISMO LA RINASCITA DI UN GRANDE E POTENTE
STATO ISLAMICO CON l’estensione alla Gran Bretagna di minacce specifiche
di attentati, è ancora più facile per l’Occidente rimanere
impigliato nella propria retorica che lo porta a contrastare Bin Laden
perché rappresenta «il male» e la sua organizzazione
Al Qaeda perché pratica «il terrorismo». Tali motivazioni
sono necessarie, ma non sufficienti. Offuscano l’indispensabile distinzione
tra il livello emotivo e il livello politico e rischiano di far considerare
Bin Laden alla stregua di un fuorilegge del Far West, da «prendere
vivo o morto» come ha detto appunto il Presidente americano usando
un’espressione tipica di quei tempi e di quei luoghi. In realtà,
la differenza tra Bin Laden e un fuorilegge del Far West è che al
secondo mancava qualsiasi progetto politico, al primo certamente questo
non fa difetto. Bin Laden potrà anche essere paragonato a Hitler
ma non è sicuramente un Jessie James. E’ quindi essenziale individuare
con chiarezza l’elemento politico sottostante all’azione e alle dichiarazioni
di quel sanguinario capo che si rifà, per quanto forse impropriamente,
alla dottrina dell’Islam e non abbandonarsi invece a una generica esecrazione
della sua ferocia. Bin Laden e il suo movimento Al Qaeda si propongono
esplicitamente di «ristabilire lo Stato islamico nel mondo»,
di fatto di realizzare la sistemazione politica unitaria di un’ampia zona
che comprende la principali aree petrolifere mondiali: non solo la Penisola
Arabica ma anche Iran e Iraq con una proiezione, attraverso Pakistan e
Afghanistan, verso i paesi dell’Asia ex sovietica, abitati prevalentemente
da musulmani, in cui sono state trovate, nuove, imponenti riserve di greggio.
Per cementare questi vastissimi spazi che racchiudono risorse essenziali
per la sopravvivenza e la crescita dell’economia mondiale, Bin Laden fa
chiaramente conto su tre fattori: la forza religiosa dell’Islam, la forza
economica rappresentata dalle riserve petrolifere e la forza militare del
Pakistan, paese che dispone dell’arma nucleare. Per conseguenza l’Islam,
caduto in uno stato di grande debolezza politica dopo la dissoluzione dell’impero
turco al termine della prima guerra mondiale, si presenterebbe sulla scena
politica con potenzialità ben superiori alle attuali: si scontrerebbe
direttamente con i russi a Nord (già lo sta facendo in Cecenia),
con gli indiani a Est (come già avviene nel Kashmir) e anche con
la Cina (nelle cui province occidentali, dove sono presenti popolazioni
musulmane, esiste una situazione di tensione e fermento). Nel primo caso,
gli uomini di al Qaeda sono sicuramente presenti, negli altri due è
probabile che lo siano. La riprova dell’esistenza di un simile progetto
si può ricavare, tra l’altro dalla lettura attenta del testo integrale
del recente proclama televisivo di Bin Laden (La Stampa del 9 ottobre)
nel quale uno spazio pressoché uguale a quello dedicato alle minacce
all’Occidente viene riservato alla condanna dei governanti arabi colpevoli
di aver «tradito» la causa musulmana con le loro divisioni
e il loro asservimento all’America. Una risposta a un progetto politico
di tale forza (e, si può ben dire, di tale, almeno sommaria, coerenza)
che si esaurisse nella semplicistica accusa di «terrorismo»
finirebbe per rivelarsi perdente. Così come lo fu, nella prima metà
dell’Ottocento, davanti alla sfida liberale, la risposta dei governi reazionari
europei, i quali avevano tra l’altro avviato, specie mediante la Santa
Alleanza, una cooperazione di polizie ed eserciti che presenta qualche
somiglianza con l’attuale cooperazione internazionale contro i taleban.
Anche allora, infatti, l’obiettivo di un semplice perpetuarsi dello status
quo non risultò, a lungo andare, vincente di fronte a un progetto
politico come l’unificazione italiana, portato avanti per decenni dai ricercatissimi
Mazzini e Garibaldi che i benpensanti di allora definivano «banditi»
e non «terroristi» solo perché questo secondo termine
non era ancora in uso. La necessità di una risposta politica a Bin
Laden è tanto maggiore in quanto già due volte negli ultimi
venticinque anni l’Occidente ha rifiutato ogni cambiamento in quest’area
e si è mosso pesantemente per conservare lo status quo. La prima
volta si impedì l’egemonia iraniana sul Golfo, perseguita prima
dallo Shah Reza Pahlevi e poi dai suoi successori sciiti con la terribile
guerra contro l’Iraq, il cui leader, Saddam Hussein, riuscì a resistere
solo grazie agli aiuti occidentali. La seconda volta si impedì allo
stesso Saddam Hussein un’analoga egemonia, e forse una più diretta
unificazione politica, da questi tentata con l’invasione del Kuwait. Anche
in questo caso non si volle toccar nulla, né il trono non democratico
dell’emiro di quel piccolo paese né il potere, assai più
dittatoriale e sanguinario, dello stesso Saddam. Un simile immobilismo
non può durare all’infinito di fronte al variare dei pesi demografici
e delle necessità energetiche del pianeta. Ed è qui che la
risposta americana mostra, accanto a una grande decisione militare, un’apparente
incomprensione delle motivazioni politiche ed economiche di fondo. Dovrebbe
essere chiaro che
non si potrà continuare per l’eternità a mantenere al
potere le famiglie degli emiri che privano donne e stranieri non islamici
dei loro diritti umani, praticano la caccia col falcone (quest’ultimo sovente
importato proprio dall’Afghanistan) e convertono le riserve petrolifere,
estratte dal sottosuolo dei loro deserti, in saldi bancari, di fatto in
gran parte adoperati dai loro banchieri americani ed europei. E non è
neppure pensabile di continuare per sempre con i rifornimenti giornalieri
dell’esercito israeliano a sparuti insediamenti di coloni estremisti, impiantatisi,
più o meno forzatamente, in territori interamente abitati da arabi.
La vera risposta politica dell’Occidente a Bin Laden deve partire dal presupposto
che le risorse petrolifere sono indispensabili a garantire la crescita
mondiale nei prossimi decenni; che il loro uso deve essere calibrato in
modo da salvaguardare gli equilibri ecologici del pianeta, e che le variazioni
del prezzo non devono essere tali da devastare le economie di paesi produttori
e consumatori, come è invece avvenuto negli ultimi tre anni, con
la fluttuazione dei prezzi di un barile di greggio tra meno di 10 e più
di 30 dollari al barile. Senza risposte di questo tono, il lodevole ma
generico pacifismo della marcia di Assisi è destinato a rimanere
sterile e retorico: un’istanza di pace anziché la costruzione di
una pace. La vera sconfitta di Bin Laden, o di chi, eventualmente dopo
di lui, rappresenterà le istanze politiche profonde dell’Islam,
al di là delle efferatezze con cui ora sono portate avanti, si può
ottenere contrapponendo alla sua visione di una supremazia islamica quella
di un patto mondiale per lo sviluppo. Tale patto dovrà essere incentrato
sulla disponibilità programmata delle risorse energetiche, in condizioni
di sicurezza e a prezzi che tengano conto degli interessi di lungo periodo
di un’economia globale. Non potrà realizzarsi se si continuerà
a puntellare con ogni mezzo il potere di monarchi che, in lande desertiche,
praticano la caccia col falcone e non tollerano la libertà di espressione.
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