Lunedì 15 Ottobre 2001

Le mani sul petrolio MARIO DEAGLIO

IL PIANO POLITICO DIETRO IL TERRORISMO LA RINASCITA DI UN GRANDE E POTENTE STATO ISLAMICO CON l’estensione alla Gran Bretagna di minacce specifiche di attentati, è ancora più facile per l’Occidente rimanere impigliato nella propria retorica che lo porta a contrastare Bin Laden perché rappresenta «il male» e la sua organizzazione Al Qaeda perché pratica «il terrorismo». Tali motivazioni sono necessarie, ma non sufficienti. Offuscano l’indispensabile distinzione tra il livello emotivo e il livello politico e rischiano di far considerare Bin Laden alla stregua di un fuorilegge del Far West, da «prendere vivo o morto» come ha detto appunto il Presidente americano usando un’espressione tipica di quei tempi e di quei luoghi. In realtà, la differenza tra Bin Laden e un fuorilegge del Far West è che al secondo mancava qualsiasi progetto politico, al primo certamente questo non fa difetto. Bin Laden potrà anche essere paragonato a Hitler ma non è sicuramente un Jessie James. E’ quindi essenziale individuare con chiarezza l’elemento politico sottostante all’azione e alle dichiarazioni di quel sanguinario capo che si rifà, per quanto forse impropriamente, alla dottrina dell’Islam e non abbandonarsi invece a una generica esecrazione della sua ferocia. Bin Laden e il suo movimento Al Qaeda si propongono esplicitamente di «ristabilire lo Stato islamico nel mondo», di fatto di realizzare la sistemazione politica unitaria di un’ampia zona che comprende la principali aree petrolifere mondiali: non solo la Penisola Arabica ma anche Iran e Iraq con una proiezione, attraverso Pakistan e Afghanistan, verso i paesi dell’Asia ex sovietica, abitati prevalentemente da musulmani, in cui sono state trovate, nuove, imponenti riserve di greggio. Per cementare questi vastissimi spazi che racchiudono risorse essenziali per la sopravvivenza e la crescita dell’economia mondiale, Bin Laden fa chiaramente conto su tre fattori: la forza religiosa dell’Islam, la forza economica rappresentata dalle riserve petrolifere e la forza militare del Pakistan, paese che dispone dell’arma nucleare. Per conseguenza l’Islam, caduto in uno stato di grande debolezza politica dopo la dissoluzione dell’impero turco al termine della prima guerra mondiale, si presenterebbe sulla scena politica con potenzialità ben superiori alle attuali: si scontrerebbe direttamente con i russi a Nord (già lo sta facendo in Cecenia), con gli indiani a Est (come già avviene nel Kashmir) e anche con la Cina (nelle cui province occidentali, dove sono presenti popolazioni musulmane, esiste una situazione di tensione e fermento). Nel primo caso, gli uomini di al Qaeda sono sicuramente presenti, negli altri due è probabile che lo siano. La riprova dell’esistenza di un simile progetto si può ricavare, tra l’altro dalla lettura attenta del testo integrale del recente proclama televisivo di Bin Laden (La Stampa del 9 ottobre) nel quale uno spazio pressoché uguale a quello dedicato alle minacce all’Occidente viene riservato alla condanna dei governanti arabi colpevoli di aver «tradito» la causa musulmana con le loro divisioni e il loro asservimento all’America. Una risposta a un progetto politico di tale forza (e, si può ben dire, di tale, almeno sommaria, coerenza) che si esaurisse nella semplicistica accusa di «terrorismo» finirebbe per rivelarsi perdente. Così come lo fu, nella prima metà dell’Ottocento, davanti alla sfida liberale, la risposta dei governi reazionari europei, i quali avevano tra l’altro avviato, specie mediante la Santa Alleanza, una cooperazione di polizie ed eserciti che presenta qualche somiglianza con l’attuale cooperazione internazionale contro i taleban. Anche allora, infatti, l’obiettivo di un semplice perpetuarsi dello status quo non risultò, a lungo andare, vincente di fronte a un progetto politico come l’unificazione italiana, portato avanti per decenni dai ricercatissimi Mazzini e Garibaldi che i benpensanti di allora definivano «banditi» e non «terroristi» solo perché questo secondo termine non era ancora in uso. La necessità di una risposta politica a Bin Laden è tanto maggiore in quanto già due volte negli ultimi venticinque anni l’Occidente ha rifiutato ogni cambiamento in quest’area e si è mosso pesantemente per conservare lo status quo. La prima volta si impedì l’egemonia iraniana sul Golfo, perseguita prima dallo Shah Reza Pahlevi e poi dai suoi successori sciiti con la terribile guerra contro l’Iraq, il cui leader, Saddam Hussein, riuscì a resistere solo grazie agli aiuti occidentali. La seconda volta si impedì allo stesso Saddam Hussein un’analoga egemonia, e forse una più diretta unificazione politica, da questi tentata con l’invasione del Kuwait. Anche in questo caso non si volle toccar nulla, né il trono non democratico dell’emiro di quel piccolo paese né il potere, assai più dittatoriale e sanguinario, dello stesso Saddam. Un simile immobilismo non può durare all’infinito di fronte al variare dei pesi demografici e delle necessità energetiche del pianeta. Ed è qui che la risposta americana mostra, accanto a una grande decisione militare, un’apparente incomprensione delle motivazioni politiche ed economiche di fondo. Dovrebbe essere chiaro che
non si potrà continuare per l’eternità a mantenere al potere le famiglie degli emiri che privano donne e stranieri non islamici dei loro diritti umani, praticano la caccia col falcone (quest’ultimo sovente importato proprio dall’Afghanistan) e convertono le riserve petrolifere, estratte dal sottosuolo dei loro deserti, in saldi bancari, di fatto in gran parte adoperati dai loro banchieri americani ed europei. E non è neppure pensabile di continuare per sempre con i rifornimenti giornalieri dell’esercito israeliano a sparuti insediamenti di coloni estremisti, impiantatisi, più o meno forzatamente, in territori interamente abitati da arabi. La vera risposta politica dell’Occidente a Bin Laden deve partire dal presupposto che le risorse petrolifere sono indispensabili a garantire la crescita mondiale nei prossimi decenni; che il loro uso deve essere calibrato in modo da salvaguardare gli equilibri ecologici del pianeta, e che le variazioni del prezzo non devono essere tali da devastare le economie di paesi produttori e consumatori, come è invece avvenuto negli ultimi tre anni, con la fluttuazione dei prezzi di un barile di greggio tra meno di 10 e più di 30 dollari al barile. Senza risposte di questo tono, il lodevole ma generico pacifismo della marcia di Assisi è destinato a rimanere sterile e retorico: un’istanza di pace anziché la costruzione di una pace. La vera sconfitta di Bin Laden, o di chi, eventualmente dopo di lui, rappresenterà le istanze politiche profonde dell’Islam, al di là delle efferatezze con cui ora sono portate avanti, si può ottenere contrapponendo alla sua visione di una supremazia islamica quella di un patto mondiale per lo sviluppo. Tale patto dovrà essere incentrato sulla disponibilità programmata delle risorse energetiche, in condizioni di sicurezza e a prezzi che tengano conto degli interessi di lungo periodo di un’economia globale. Non potrà realizzarsi se si continuerà a puntellare con ogni mezzo il potere di monarchi che, in lande desertiche, praticano la caccia col falcone e non tollerano la libertà di espressione. deaglio@econ.unito.it