di Adriano Sofri
Gli Usa non devono rinunciare a ribattere con la forza al terrorismo.
Ma devono farlo con intelligenza: la
potenza va messa a dieta. Come insegna la parabola dell'eremita che
digiunava davanti a una tazza di
fragole.
Cominciamo dall'eremita. C'è un eremita, macilento, selvatico
come un vero eremita. Raccoglie
pazientemente le fragoline di bosco attorno alla sua grotta. Le mette
in una tazza davanti a sé e le guarda
macerarsi, fino a che marciscono completamente, e allora le butta via.
Il suo digiuno sarebbe troppo vacuo
se gli bastasse non avere niente da mangiare.
Mi è tornato in mente questo apologo (devo averlo letto da qualche
parte in Thomas Mann) perché stavo
ripensando all'intelligenza a proposito della risposta al terrorismo
islamista ("islamista" dico: è l'unica
parola maldestramente usabile per distinguere da "islamico"). Alle
intelligenze, piuttosto: perché esistono
molti modi di essere intelligenti, forse un solo modo di essere cretini.
Ci sono perfino quelle accezioni
specializzate, l'intelligence dello spionaggio, o, prima, l'"intelligenza
col nemico", cioè la complicità e il
tradimento. Non riesco a sopportare quella cosa che si chiama "quoziente
di intelligenza": quale
intelligenza? Forse mi seccherebbe prendere un voto basso: non ho mai
imparato a giocare a scacchi, non
so decifrare un qualunque manuale di istruzioni e ho una quantità
di altre inettitudini. Ne parlo perché in
questi giorni si è ricominciato a discutere della "guerra" al
terrorismo ripescando l'antica analogia con la
strategia degli scacchi.
La geopolitica mondiale è "lo scacchiere", dall'America si teme
una partita giocata troppo per linee dirette
e si auspica piuttosto una capacità di previsione e di complicazione,
di obliquità. "La mossa del cavallo",
così Vittorio Foa volle intitolare una sua autobiografia. Peraltro,
nella fascetta del bel romanzo di Paolo
Maurensig, La variante di Lüneburg, che ho qui con me, ho letto
questa citazione di Garry Kasparov, il
grande campione russo: "Gli scacchi sono lo sport più violento
che esista".
Da piccolo giocavo a dama, naturalmente, e ora ogni tanto faccio una
partita: la galera è un luogo di
infantilizzazione forzata, si gioca a tutti i giochi, senza allegria.
Bene: non sopporto quella regola della
dama per cui si è obbligati a mangiare. Forse solo perché
è imbarazzante arrivare davanti all'avversario e
prepararsi a farne un solo boccone, per accorgersi di essere caduti
nella sua trappola, e che tu, ormai
senza scampo, gli mangi una pedina e lui ti divora mezza popolazione.
Ma a parte questo, quella regola
inibisce una delle supplenze decisive della felicità, che è
la rinuncia. Uno arriva fino lì, spalanca le fauci,
poi le richiude con cautela, si volta e va via. È la sapienza
dell'eremita e delle sue fragole. Non voglio fare
l'apologia della rinuncia in generale, al contrario: mi piacciono le
fragole di bosco, e tutto. Ma ci sono
circostanze in cui la rinuncia è una prova di forza e soprattutto
di intelligenza.
Io non penso che l'America (e gli altri, noi compresi) debba per saggezza
rinunciare a rispondere con la
forza all'assalto terrorista. Al contrario.
La questione è il modo della risposta. L'intelligenza. Vi segnalo
una coincidenza che mi sembra stimolante.
Ricordate il film di Michael Cimino, Il cacciatore? Un inviato del
Corriere della sera, Luigi Offeddu, è
andato a DuBois, la cittadina della Pennsylvania in cui era ambientata
la parte americana del film, l'altra
parte in Vietnam. C'è un sindaco italiano, è anche il
capo dei pompieri, si chiama Herm Suplizio, dice che
ora bisogna fermare la terza guerra mondiale. Il film di Cimino era
del '78, ed era un gran film, che
andrebbe rivisto.
Tre amici, operai di acciaieria, si arruolano per il Vietnam, sono
catturati dai vietcong e torturati, ma
sopravvivono: uno, Nick, restando in Indocina a giocarsi la vita alla
roulette russa; un altro, Steven,
amputato delle gambe e disperato dall'abbandono della sua donna; il
terzo, Michael (De Niro), dopo aver
riportato a casa il cadavere di Nick ritorna alla vita di prima. Nella
scena finale gli amici restati e i reduci
da una sconfitta devastante si ritrovano a cantare "God Bless America",
come ora. Ma la vera scena
culminante è un'altra. Prima di partire per la sporca guerra
i tre sono appassionati cacciatori sui monti
Allegheny. Tornato, Michael torna a caccia nel suo antico posto e avvista
un magnifico cervo reale. Lo
inquadra nel mirino, accarezza il grilletto col dito, e finalmente
sposta il dito, solleva il fucile e rinuncia al
colpo graziando il cervo, e se stesso. La parabola è trasparente:
la guerra, la parente feroce della caccia,
la caccia all'uomo, trasforma il reduce in un ex cacciatore.
È una parabola antica e proverbiale, del resto. L'avete vista
in tanti dipinti, letta in tanti libri. Un cervo sta
davanti al cacciatore, col suo palco sontuoso di corna, in mezzo al
quale appare un crocefisso, e il
cacciatore, Sant'Eustachio, Sant'Uberto, San Giuliano Ospitaliere,
lascia cadere la balestra, o l'arco, e si
converte. Figura esemplare della conversione, del pentimento: così
attuale nel nostro tempo, in cui ci siamo
spinti troppo oltre perché la rinuncia non appaia sempre più
spesso l'unica via saggia, la riparazione
indispensabile. Smettere qualcosa, piuttosto che intraprenderla: morale
demoralizzante, forse, ma
indispensabile. Intanto, morale della ritirata, della "de-escalation",
per tornare al linguaggio militare, che
mostra quale responsabilità decisiva abbia chi digiuna, o si
mette a dieta, e ha il frigorifero pieno, la
tazza con le fragoline, e non perché muore di fame e non ha
niente. La rinuncia ragionevole, non la
privazione che annichilisce.
Vale anche per la potenza, che va messa a dieta, e per la forza, che
quanto più è schiacciante, tanto più
dev'essere misurata e contenuta. Così io non so dare consigli
da giocatore di scacchi, ma da sporadico
giocatore di dama sì: con una piccola correzione regolamentare.
Non si è obbligati a mangiare.