ISLAM Dalla musica alla viltà del terrorismo
Lunedì 1 Ottobre 2001 - la Stampa
Igor Man

IL 22 di settembre del 1980, Saddam Hussein, l’«arma risolutiva» per abbattere Khomeini secondo Washington, invade l’Iran. Sarà una passeggiata, proclama il Raíss; finirà con entrambi i contendenti sulle ginocchia (giusta la previsione di Kissinger) dopo otto anni orrendi. Quel grande direttore che è stato Giorgio Fattori mi spedì laggiù dopo il primo flash. Fu un viaggio duro, in taxi, col treno, anche a piedi. Varcai la frontiera turco-iraniana a notte fonda, il buio allagava la piccola cittadina di confine, non c’era una locanda, mi rifugiai nella moschea. «Via, via, non c’è posto», gridò qualcuno, ma nell’oscurità una mano mi trattenne: «Ecco una coperta, ci stringeremo un po’», disse una voce in buon inglese. Apparteneva a un persiano, «gnomo» a Zurigo, che pur non amando Khomeini era corso «a difendere la patria»: right or wrong, my country, ridacchiò. Grazie, sussurrai e lo «gnomo»: «Non deve ringraziarmi, il suo Dio è il mio Dio sicchè siamo fratelli». All’alba, quando mi destai, lo «gnomo-voce» non c’era più ma sul marmo del pavimento della moschea, accanto alla sua coperta, ripiegata ben bene, un biglietto: «Buon viaggio, che Dio clemente e misericordioso l’assista». Più volte, parlando o scrivendo di «dialogo» con l’islam, mi sono sovvenuto di quell’incontro notturno. Misterioso, significativo come tutto ciò ch’è frutto d’una volontà superiore. Adesso che, sia pure in ritardo e non senza ipocrisia, si distingue fra islamici buoni e islamici carogna, e ci si riempie la bocca di «dialogo» dirò che, nel tempo presente, dubito assai che possa aversi. Certo, il dialogo esiste ma credo che oltre un certo limite i «fratelli islamici» non osino spingersi. Non sono poche le consonanze fra cristianesimo e islam. Di più: il Corano esalta la verginità feconda di Maria, la Madonna, riconosce in Issa (Gesù) il santo profeta figlio di Dio. Qui giunti cade la prima mannaia. Eccola nelle parole di Raimondo Lullo, evangelizzatore cristocentrico del XIII secolo (già da me citato nei giorni scorsi): «I saracini credono che il Signore nostro, Gesù Cristo, è figlio di Dio ma non credono ch’egli sia Dio». Pei «fratelli islamici» l’unica mediazione fra Dio e l’uomo è il Corano, dove in qualsiasi momento l’individuo può accostarsi ad Allah. Maometto è «solo» un profeta. Santo, ma solamente uomo, ancorchè Mohammed «implica la totalità». Non basta: nell’islam soltanto i puri, gli ortodossi possiedono la verità cioè la fede: el iman e, di conseguenza, la legge: el islam, la via, letteralmente la virtù. E qui cade la seconda mannaia: la sharia.
Se, infatti, nelle reciproche scritture cristiani e musulmani possono qualche volta trovare un punto di incontro che trasforma il dialogo in una sorta di «consanguineità spirituale», la sharia col suo assolutismo politico blocca ogni (eventuale) sistema di vasi comunicanti. La sharia è quell’insieme di regole e disposizioni di legge in forza delle quali i vari califfi venuti dopo Maometto hanno affermato e protetto il proprio potere, anche manipolando il Corano: è il caso dei taleban. Noi non confonderemo mai la sharia col Corano, con l’islam che predica tolleranza, condivisione e in primo luogo il rispetto della donna, alla quale Maometto raccomanda soltanto la modestia. Attribuire al Profeta che venerò e persino parafrasò Gesù, certe leggi, o costumi, crudeli, significherebbe, lo ripetiamo una volta ancora, addossare al Cristo i misfatti dell’inquisizione - epperò la sharia attribuisce all’islam valore di (unica) verità oggettiva.
Che fare, dunque? Il dialogo, ancorchè a strattoni, prosegue. Certamente la guerra non aiuta chi si adopera, come il Papa, affinchè si irrobustisca. Laicamente diremo che «in un viale senza uscita, l’unica uscita si trova nel viale stesso». «Se non c’è conoscenza non c’è sapienza» (Capitolo dei Padri III,21).

Venerdì 28 Settembre 2001
ISLAM Fede, politica, personaggi Un dizionario ragionato
 IGOR MAN
L’ISLÀM, secondo Braudel, è una lunga strada che, dall’Atlantico al Pacifico, passa attraverso la rigida massa possente del Vecchio Mondo. L’islàm è una religione (anche) ascetica ma dura, per uomini abituati al sole. L’islàm è le mille conseguenze dell’immenso vuoto umano chiamato deserto che un uomo (Mohammed) toccato dalla Grazia, colma col Verbo, al Qur’an, il Corano. La storia dei rapporti fra islàm e cristianesimo è una storia di malintesi, ma come scrive bene Louis Gardet, noi siamo disinvolti nello scordare i nostri errori passati, i nostri giudizi a priori sull’islàm, le nostre interpretazioni così poco esatte delle credenze, delle attitudini spirituali dei musulmani. In quale misura, però, abbiamo il diritto di aspettarci il medesimo sereno oblio da parte dei nostri interlocutori? Cerchiamo piuttosto di ricordare quanti esseri umani vi sono tuttora nel Medio Oriente, in Asia, in Africa che soffrono per le ferite che la Storia degli ultimi secoli ha inferto alla loro coscienza di credenti, alla loro dignità di popoli. Ma -si obietterà- i musulmani uccidono, massacrano: vedi l’Algeria, vedi lo stesso mite Egitto, vedi la Bosnia, vedi le stragi provocate dai kamikaze. Nel Corano è scritto che uccidere una persona è come uccidere tutta l’umanità, sicché colpevole dell’attentato, del massacro è chi lo compie, non l’islàm. E questo non è un dizionario, è soltanto il tentativo di aiutare chi legge il giornale, ascolta la radio, vede la tv e si imbatte in continuazione con parole arabe, con sigle spesso indecifrabili o,peggio, tradotte tanto ambiguamente da confondere le idee. Aiutare il grande pubblico che consuma informazione a districarsi meglio nel labirinto quotidiano della notizia; aiutarlo a farsi un’idea un po’ più precisa anche se (necessariamente) sommaria, dell’islàm giustappunto. Un tentativo onesto di mondare, per quanto possibile, dall’equivoco l’informazione quotidiana. Un tentativo che nasce da una carovana di persone e pensieri, incontrati, studiati durante cinquanta anni di reportages in terra d’islàm. Una sorta di sussidiario, ecco: per capire meglio fatti, misfatti, personaggi (di ieri, di oggi) direttamente o non legati a quell’assemblaggio poderoso (e pauroso per molti versi) che chiamiamo islàm. Un miliardo e duecentomila persone, dalla Bosnia all’Iran, all’Indonesia passando per il Nordafrica, il Sudan e il Bangladesh. Una poderosa armata di popoli: ricchi e poveri, in via di sviluppo o senza speranza ma tutti, proprio tutti, percossi dal cosiddetto Risveglio islamico. Una mistura di fede, violenza e spontaneismo, uno spasmodico Jihad (sforzo)di riappropriazione d’identità. Vastissima, immensa.
ABU Nidal. Una conchiglia vuota, via via riempita da orrendi attentati. Ne ricorderemo uno per i tanti, la strage di Fiumicino (1985). Fondatore e boss di questa anonima assassini senza anonimato è il palestinese Sabri al-Banna, espulso da Arafat e rifugiatosi a Damasco con tanto di targhetta d’ottone dell’ufficio nel cuore della città. Dopo Lockerbie, Assad lo prega di sgomberare il campo ed egli si rifugia in Iraq. Nel 1986, a Taurgia, nella tenda (vera) di Gheddafi domandai al Colonnello come giudicasse al-Banna (nome di battaglia Abu Nidal), e Gheddafi rispose: «E’ un combattente valoroso per la liberazione della Palestina». «Mi dispiace, Colonnello,-lo interruppi- ma io le dico che è uno sporco assassino». Gheddafi impallidì, fece allontanare Mustafa, l’interprete, parlammo in inglese. Due giorni dopo Abu Nidal scomparve da Tripoli. Dicono che sia «in sonno», altri vuole che sia malato di cancro.
ABU Sayyaf. E’ il più piccolo, ma anche il più radicale dei gruppi islamici che operano nel sud delle Filippine; il suo scopo è quello di creare uno Stato islamico in quelle province. E’ arrivato a sequestrare trenta turisti occidentali in un’isola della Malaysia, tenendoli in ostaggio per mesi, fino al rilascio, ottenuto grazie alla mediazione del leader libico Muammhar Gheddafi. Avrebbe il Vaticano tra i propri obiettivi e un suo membro ha attentato alla vita di Paolo VI durante lo storico viaggio nelle Filippine.
AL-GAMAA al-Islamiya. E’ il più grande dei gruppi estremisti islamici egiziani, nato nei Settanta; nel marzo 1999 ha proclamato un «cessate il fuoco» con esiti incerti. E’ considerato responsabile dell’attacco a Luxor, nel novembre del 1997, costato la vita a 58 turisti stranieri. Ha rivendicato anche il fallito attentato contro il presidente egiziano Hosni Mubarak ad Addis Abeba nel giugno del 1995. E’ la bestia nera della leadership egiziana.
ALLAH. Dio. Assoluto e unico: per i cristiani, per gli ebrei e per i musulmani. I cristiani pregano il Signore Iddio e si rimettono alla sua volontà. Gli ebrei onorano Dio, chiamandolo Yhwh, Yavé, i musulmani si arrendono all’incontestabile volere di Allah. Nel Corano, al Quran, la Parola, il Libro dei Musulmani dettato da Dio al Profeta Maometto per il tramite dell’Arcangelo Gabriele, nella settima Sura (o capitolo), il verso 180 dice: «Ad Allah appartengono i nomi più belli, invocatelo con quelli». E il Profeta Maometto afferma: «Allah ha novantanove nomi: cento meno uno; tutti coloro che li terranno a memoria entreranno in Paradiso». I nomi sempre ricorrenti sono: il Compassionevole e il Misericordioso. Ma Allah è soprattutto al Muhyi, al Mumit, Colui che dà la Vita, Colui che dà la Morte. E’ qui il «segreto» (forse) dell’accettazione paziente della morte da parte dei Musulmani. «Oh uomo che aneli al tuo Signore, ora lo incontrerai» (Corano, LXXXIV,6). Il Dio dell’islàm rivela la sua parola, non se stesso. Egli resta mistero inaccessibile. Non esiste iconografia: né di Dio, né di Maometto. La fede musulmana è testimonianza che viene resa, non è esperienza direttamente vissuta. Grande Padre, e insieme dolcissima Madre immensa dell’islàm, è Abul Quasim ibn Abdallah el Mohammed, vale a dire Maometto, il profeta, l’Inviato di Dio.
AL Qaeda. La Base è l’organizzazione creata da Osama bin Laden nei Novanta con l’obiettivo di «ristabilire lo Stato islamico nel mondo». Dalla costola della Base nasce la Rete. Gli Stati Uniti indicano in Osama bin Laden il mandante dell’inimmaginabile strage di New York dell’11 settembre 2001. E’ lui il «nemico numero uno», responsabile anche degli attentati del 7 agosto del 1998 contro le ambasciate americane in Kenya e Tanzania, costate la vita a 224 persone e il ferimento di oltre quattromila. ARMATA islamica di salvezza (AIS). Riconosce l’autorità dei capi storici del FIS (Fronte Islamico di Salvezza) e opera in Algeria.
Il FIS, forte della netta vittoria alle amministrative, si avviava a stravincere le elezioni politiche del 1991, ma l’esercito con un «golpe bianco» annullò la consultazione. I capi storici finirono in galera. Fu l’inizio della tremenda guerra civile tuttora in corso in Algeria.
CASO Rushdie. In tutto il Corano, a leggerlo senza prevenzione, non c’è una parola che consenta la condanna a morte per un «delitto d’opinione». Pochi mesi fa, invece, i conservatori iraniani hanno confermato la sentenza di morte (fatwa) emessa nel 1989 contro lo scrittore indiano Salman Rushdie. In un comunicato diffuso dall’agenzia di informazioni Irna, l’Organizzazione per la propaganda islamica (Ipo) ha chiesto ai musulmani di portare avanti «l’editto divino e mondare le parole di questo Satana mercenario». Lo scrittore indiano è ritenuto responsabile di aver fatto dichiarazioni blasfeme contro l’islàm nel suo libro «I versetti satanici». Da allora vive in Inghilterra sotto la stretta protezione dei servizi segreti britannici.
In realtà il Corano non c’entra con le regole inquisitorie introdotte nel mondo islamico nel corso dei secoli da questo o quel Califfo, così come Gesù non è certamente responsabile delle Crociate o dell’Inquisizione. Davanti alla fatwa emessa da Khomeini, assurda, aberrante per ogni spirito libero, volterriano (ma dal suo punto di vista non proprio campata per aria) è evidente che l’integralismo religioso nuoce all’islàm quanto l’Inquisizione che stabilì il «delitto d’opinione» nuoce al cristianesimo.
Non si può da parte dei musulmani imporre l’adesione all’islàm. In analogia a quanto postula il Nuovo Testamento, credere nel Vero Dio è il risultato di una scelta e di una decisione personale, equivalente alla conversione. Nel Corano v’è tolleranza verso le altre religioni. «Non si può pretendere di costringere gli uomini ad essere credenti a loro dispetto» (X,99). Durante l’Egira, cioè il cammino dalla Mecca a Medina e viceversa, più volte Maometto dirà agli idolatri: «Venite, discutiamo...».
L’integralismo islamico può essere sconfitto proprio in nome del Corano. CINQUE Pilastri. Sono i punti fondamentali dell’islàm, che è oggi in termini numerici la prima religione del pianeta (la praticano infatti un miliardo e 200 milioni di fedeli). I cosiddetti «Cinque Pilastri dell’islàm» sono la professione di fede, la preghiera (salat), l’elemosina (zakat), il digiuno, il pellegrinaggio (hagg). La professione di fede: testimoniare che non vi è altro Dio all’infuori di Allah e che Maometto è il suo inviato. La preghiera (salat, cioè la preghiera rituale) va recitata cinque volte in un giorno. Alba, mezzodì, metà del pomeriggio, tramonto e sera. Si prega con il capo rivolto verso la Mecca, dov’è la Kaaba, il santuario che custodisce la «pietra nera», probabilmente un meteorite. La tradizione vuole che sia stato Abramo a collocarla là e si vuole ancora che in origine la pietra fosse bianca e mutò colore per l’assommarsi dei peccati umani. L’elemosina o zakat, una tassa spontanea. Controllata non dal Fisco bensì da Dio. Serve per educare l’uomo ad essere guidato dalla propria coscienza. E’ lui stesso che dà l’offerta ai poveri. Il digiuno: durante il mese di Ramadan (il nono del calendario lunare) è d’obbligo digiunare, e non fare sesso, dall’alba al tramonto. Il pellegrinaggio, o hagg, va eseguito almeno una volta nella vita, beninteso per chi ne abbia la possibilità. Islàm e cristianesimo affermano entrambi l’Unicità di Dio. Tema, questo, che non figura nel Nuovo Testamento, nei Vangeli e ciò per una ragione molto semplice: Gesù e i suoi apostoli erano ebrei e rispettavano il dogma. Al contrario, nel Corano il monoteismo occupa uno spazio assai ampio.
CORANO. Nel Corano è scritto che uccidere una persona è come uccidere tutta l’umanità, sicché colpevole dell’attentato, del massacro è chi lo compie, non l’islàm. La Parola (in arabo Qur’an: lettura ad alta voce) fu enunciata da Maometto oralmente, in versetti che «avevano il ritmo maestoso e il suono della poesia». Il Corano è composto di 114 capitoli o Sure. Per i musulmani non va discusso o analizzato come si fa con la Bibbia, coi Vangeli, con la Torah giacché «è opera di Dio». Allah lo ha infatti dettato a Maometto affinché questi lo diffondesse sulla Terra. E’ immutabile e riassume tutte le regole della corretta condotta musulmana (persino il galateo). Per l’Islam gli inviati di Dio sono quattro: Abramo, «l’amico di Dio». Mosè, «l’interlocutore di Dio». Gesù «che procede dalla Parola e dallo Spirito di Dio» e infine Maometto «il sigillo, colui che ha perfezionato la religione». Col capo poggiato sul grembo della cara sposa Quadija (alla quale rimase sempre fedele), mentre lei gli accarezzava la fronte sudata, Maometto parlò per la prima volta della Rivelazione. La sua compagna gli consigliò di discuterne con gli altri della tribù «quando ti sentirai in pace col tuo cuore, con la mente pulita». Maometto sapeva che sarebbe stato difficile per gli «altri» credergli e infatti la sua predicazione trovò pochi (e perplessi) seguaci. Così la piccola comunità che s’era formata intorno a lui, emigrò dalla Mecca a Yathib (Medina) compiendo l’Egira(higra). Qui il Profeta fece disporre un muro a secco tutt’in giro a una palma, al fine di separare «da cio che è impuro» la gente venuta ad ascoltarlo e, quindi, a meditare, e infine a pregare con lui in quel recinto che, se vogliamo, fu la prima moschea dell’islàm. Maometto (che da giovane era stato «padrone del deserto» e «uomo di spada»), poggiato al tronco d’una palma, trasmetteva ai suoi seguaci la parola di Dio dettagli da Gabriele. Ha quarant’anni Maometto quando, allo scoccar del tramonto, vale a dire allorché il colore neutro delle dune diventa rame fuso, vede l’arcangelo che gli rivela il suo destino profetico. Aveva quarant’anni, dicono numerosi testi antichi, forse perché 40 è un numero altamente simbolico nella cultura semitica. Il diluvio dura 40 giorni, Mosè erra con gli ebrei 40 anni nel deserto prima di ascendere alla Terra Promessa e 40 sono i giorni ch’egli trascorre sul Monte Sinai. Infine 40 sono i giorni di Gesù solo nel deserto, con se stesso, di fronte al Padre suo.
FEDELI della parola. Sono confluiti nel febbraio 1992 nel Movimento Islamico Armato (MIA) e poi nell’Armata Islamica di Salvezza (AIS). L’organizzazione, fondata da Kemereddine Kherbane (poi rifugiato politico a Londra), è guidata attualmente dall’emiro Abderrahman Abu Djamil che ha combattuto in Bosnia. In concreto opera agli ordini del GIA, il Gruppo islamico armato algerino: una galassia di gruppi e gruppuscoli (tra i quali gli «afghani») che uccidono per il gusto di uccidere.
FRONTE per la Liberazione della Palestina(Flp). E’ il gruppo responsabile del sequestro della nave «Achille Lauro» nel 1985 e dell’uccisione dell’ebreo americano Leon Klinghoffer. E’una sigla nata alla metà degli anni Settanta da una scissione del Fronte popolare per la liberazione della Palestina-Comando Generale. Si è divisa successivamente in fazioni pro Olp, pro Siria e pro Libano. A capo Abu Abbas, una sorta di «miles gloriosus» in versione mediorientale.
FRONTE popolare per la liberazione della Palestina- Comando generale(FPLP-CG. Nato nel 1968 da una scissione del Fronte popolare per la liberazione della Palestina (FPLP) è guidato da Ahmad Jabril, agente del Deuxième Bureau (servizio informazioni), ha il suo quartier generale a Damasco e si oppone al processo di pace.
FRONTE Popolare per la Liberazione della Palestina(FPLP). E’ un gruppo marxista-leninista fondato nel 1967 da George Habbash, un pediatra cristiano, colui che nei Settanta «inventò» il dirottamento degli aerei di linea «per richiamare l’attenzione del mondo sulla tragedia palestinese». Faceva saltare gli aerei, curando che ne sbarcassero prima i passeggeri. Per questa sua pratica, culminata nella stage all’aeroporto di Lod, Arafat lo espulse dall’OLP. Esule in Siria è da poco andato in pensione. Ha ripreso i contatti con l’OLP, ma rifiuta gli accordi di Oslo. [ha collaborato Giacomo Galeazzi]
 
 

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Sabato 15 Settembre 2001
IL PREZZO DELLA DEMOCRAZIA
 IGOR MAN
 LA democrazia ha un prezzo: il rischio», mi disse Prezzolini. «Per non perderla bisogna esser preparati a pagare anche con la propria vita». Queste parole, ascoltate nel micro-alloggio di Prezzolini alla «Columbia» il 18 di luglio del 1950, a distanza di 51 anni precisi mi risultano infine splendidamente chiare. Il morso infame del terrorismo suicida alla Grande Mela, il massacro di persone e di simboli non sono riusciti a spengere il senso democratico degli Stati Uniti: i «sospetti» fermati dall’Fbi sono stati rilasciati. Niente prove a loro carico. (In un paese che non dico, i «sospetti» sarebbero ancora dentro e sotto pressione). Di più: poiché, in forza del discorso del presidente Bush, a partire dal «martedì nero» gli Stati Uniti si considerano in guerra, sono scattate norme di sicurezza ad hoc da applicare ovviamente con fermezza. Badando, tuttavia, a non violare il IV emendamento della Costituzione, al rispetto dell’habeas corpus, preoccupandosi di non rallentare il «motore» della macchina-paese. Tutto ciò comporta rischi tremendi (nelle maglie della sicurezza, profittando dei diritti inalienabili del cittadino, potrebbero infiltrarsi non già «sospetti» bensì terroristi, o loro fiancheggiatori), ma tutto ciò è la democrazia: un bene prezioso. Chi ha liberato i «sospetti» sapeva di correre un minimo di rischio, eppure lo ha fatto. Ecco: la grandezza della democrazia chiamata America risiede (anche) nel suo coraggio. Ancora: la democrazia non è soltanto un modo di vivere, è una fede. Che non trascura la filosofia del lavoro come promozione dell’individuo, della società. Business as usual, dunque, nonostante lo strazio e l’umiliazione. The show must go on: per dire che una democrazia non può fermarsi. Mai. Bush ha annunciato che sarà guerra senza quartiere contro il Mostro, una guerra «non breve e articolata». Osiamo credere che Bush abbia voluto dire che, al contrario del recente passato (una innocua fabbrica sudanese rasa al suolo, 17 missili sganciati, 15 civili morti), gli Stati Uniti colpiranno a colpo sicuro. (Forse addirittura nelle prossime ore). Chi? Il Principe del Terrore e con lui il paese e le strutture complici di Osama Bin Laden. Ma un «colpo» simile rischia di azzerare un paese, di ammazzare i soliti innocenti, lasciando incolume lo sceicco assassino (a dispetto di bombardamenti apocalittici, Saddam e Milosevic l’hanno sfangata), secondo copione. Qui non si tratta di flettere i muscoli, la politica delle cannoniere non funziona più, anzi rafforza l’orgoglio del tristo, alimenta l’odio dei diseredati, dà legna al fuoco dell’islamismo radicale. Entebbe: dice niente questo nome? Anziché far proclami e telefonate in giro, il governo di Israele armò una spedizione aerea che, raggiunta l’Uganda, liberò gli israeliani dirottati da terroristi palestinesi. Un solo morto, il fratello di Netanyahu. Se, però, gli Stati Uniti non sono attrezzati per simili operazioni, che si affidino ai loro amici israeliani ai quali han sempre dato, generosamente, e poco avuto, a parte i dispetti. Epperò, se guardiamo indietro nel tempo vediamo che la spedizione terra-cielo-terra che avrebbe dovuto liberare i 400 ostaggi americani di Teheran, fu un disastro: collisione di Phantom, rotte errate, tempeste di sabbia. E allora? La nostra modesta ma lunga esperienza di Terzo mondo, ci fa pensare che l’unico modo di far fuori Bin Laden sia quello di farlo liquidare da un Pisciotta della situazione. Non è un’impresa facile ma neanche impossibile. Ancorché umiliato, l’Fbi rimane un organismo di intelligence unico. Il solo in grado di reclutare un Pisciotta islamico.

Mercoledì 19 Settembre 2001
I MESSAGGI DEL FRONTE MODERATO ALLA CASA BIANCA analisi
 L’altra metà degli arabi che non detesta il «Grande Satana» IGOR MAN
GLI accadimenti atroci del Martedì Nero han fatto scoprire agli americani, dal Presidente all’ultimo homeless, come gli Stati Uniti abbiano in quella che chiameremo l’area musulmana, «ancora non pochi ammiratori», come scrive un profondo conoscitore di quel mondo: Thomas L. Friedman. Per quei tanti che maledicono l’America, altrettanti ne invidiano, ne ammirano i suoi figli. Basta del resto chattare in queste ore il più popolare Web arabo per realizzare che l’opinione pubblica risulti divisa in due: un 50 per cento vuole il Jihad, la guerra santa, e applaude il carnaio di New York - un 50 per cento condanna l’attentato e solidarizza con i parenti delle moltissime vittime innocenti. Il fatto (importante) è che in quella regione del mondo ricca di petrolio ma anche di cultura, dove la religione non è un optional se è vero che le varie leadership (tranne eccezioni) non amano i palestinesi, pur atteggiandosi a loro difensori, è anche vero che per le masse arabe, islamiche la malasorte dei palestinesi è una dura spina. Una ingiustizia che ogni regime arabo dovrebbe denunciare, con meno retorica e con più fattuale politica. Domenica scorsa Thomas L. Friedman ha intervistato il giovine re di Giordania, quel dinamico Abdallah (che ha sposato una bella e attiva palestinese) succeduto allo scespiriano re Hussein, del quale si diceva che avesse il cuore arabo e la mente inglese. Dall’intervista scaturiscono tre messaggi: «Noi (moderati) possiamo prendere il sopravvento (sugli estremisti) se voi americani non dimenticherete chi siete e cosa vi si chiede; se saprete riconoscere gli amici tra noi e con loro collaborare». «I terroristi vogliono distruggere quello che voi americani avete costruito ma soprattutto i terroristi vi vogliono provocare nella speranza che voi americani castighiate gli arabi, gli islamici degli Stati Uniti distruggendo così la vostra immagine fatta di comprensione e democratica tolleranza. Ancora: i terroristi vogliono provocarvi affinché l’America agisca stoltamente, in modo che loro possano dire ai vostri amici, e sono tanti, “eccoli i vostri cari americani, la democrazia americana è un mito bugiardo”». Il giovine re, consapevole che il suo linguaggio, diretto e sinceramente pragmatico, traduca i sentimenti di quegli «arabi moderati» (ne citeremo due: l’egiziano Mubarak, Muhammad VI, il giovine, colto, re del Marocco), che esortano alla prudenza, così conclude: «Per tutto questo insieme di ragioni penso che voi americani dobbiate essere attenti nel rispondere. Accertatevi che la vostra risposta punisca i veri responsabili, che porti giustizia non vendetta. In caso contrario voi finireste col tradire i vostri stessi ideali: ed è proprio quello che i terroristi vogliono». Gli ultimi gesti di Bush, in generale la condotta della composita leadership americana lasciano pensare che gli Stati Uniti abbiano deciso di muoversi a tempo e luogo, senza fretta, con coraggiosa prudenza, preferendo la «qualità» (operazioni chirurgiche, cattura di maestri cattivi e discepoli cattivi anch’essi) alla «quantità». Se le bombe, i missili dovranno prima o poi parlare, che puniscano i cattivi senza coinvolgere i buoni. Il guaio è, e qui si ritorna alla chiave di tutto: la Palestina. Osserva il giovine re che «the bad guys work togheter, but we don’t»: i cattivi ragazzi lavorano insieme, noi no. E tuttavia è possibile sconfiggerli, i «cattivi ragazzi», se impareremo (americani, europei, arabi e islamici) a cooperare globalmente come, in fatto, i terroristi fanno, e non da oggi. Il momento è grave, ci attendono sacrifici pesanti ma se ne può uscire tenendo a mente quel che scrive Thomas Paine (1737-1809): «Un paese per essere felice non ha bisogno di eroi ma semplicemente di uomini di buon senso». In ogni americano sonnecchia il bounty killer e il boy scout ma il loro diverso sentire sfocia nel consenso quando il Presidente chiama a raccolta. Così scriveva nel Cinquanta Giuseppe Prezzolini, per spiegare agli italiani il ralling degli americani allo scoppio della guerra di Corea. E, infatti, gli «americani in pantofole» (come dal titolo del fortunato libro del dolcissimo maledetto toscano) presero il fucile anche se quella guerra la capivano in pochi, e parecchi Babbit dissentivano. Oggi che Bush chiama alla guerra, i primi a raccogliere il suo appello dettato dalla strage di New York, sono i Forrest Gump, i mitici e miti uomini della strada. E’ scattato quello che il «Washinton Post» chiama il riflesso condizionato del «buon patriota» immortalato da Frank Capra. Facciamo, intanto, la guerra - dopo avremo tutto il tempo per discutere e magari criticare. Nel paese che, tra l’altro, ha inventato i sondaggi, quest’ultimi traboccano di «voglia di guerra», di «voglia di spedizione contro il Male». Tutti con Bush al Congresso, al Senato con l’eccezione solita di Barbara Lee e del senatore McCain, eroe di guerra, già avversario di Bush alle presidenziali. Spicca in questo paesaggio già visto l’analisi corretta di giornalisti-grandi firme che invitano il Presidente a non aver fretta, a riflettere prima di agire. La risposta va preparata bene, nessuna crociata, guai a ricadere negli errori del passato, anche recente. Per un motivo semplice: in prospettiva non c’è il bis della Guerra del Golfo, la vittoria senza trionfo di Bush padre, bensì una guerra da reinventare in quelli che saranno i suoi moduli necessariamente «nuovi». Non fosse altro perché esiste, ora come ora, un nemico, non il nemico; un presunto colpevole, non il colpevole vero.

ESTERI
Domenica 30 Settembre 2001
ISLAM Dall’Iran di Khatami alla preghiera rituale
 Igor Man
FRENERÀ il Papa?», si chiedevano in molti dopo lo stupro di New York, due volte terribile e oscenamente blasfemo perché «visto in diretta». Il Papa non ha «frenato», si è recato in Khazakstan e in Armenia, quasi a ridosso di quell’Afghanistan, disgraziato Paese, che ospiterebbe lo Sceicco della Morte, il miliardario saudita Osama bin Laden, pressoché da tutti indicato come il giovine «grande vecchio» dell’ortodossia musulmana, d’una sorta di neowahabismo in forza del quale gli islamici veri vengono chiamati alla liberazione della sacra terra. Sacra perché ospita i luoghi santi dell’Islam: Mecca, Medina. Giovanni Paolo II non soltanto non ha «frenato», ma ha in fatto esortato al dialogo interreligioso, mite strumento, forte nella sua spiritualità, da usarsi con fede e prudenza. Quasi in contemporanea il presidente americano Bush, ovviamente scalzo, visitava la grande moschea di Washington: un gesto inteso a distinguere fra islamici buoni e islamici canaglia, per usare un aggettivo caro al Dipartimento di Stato. Ma al punto in cui stanno le cose, è possibile distinguere fra musulmani buoni e musulmani cattivi? Fra terroristi islamici e islamici che il terrorismo subiscono? E, soprattutto, si può ancora sperare che il dialogo interreligioso non muoia, quando tutto si ostina a intralciarlo? Ancora: e se mai riprendesse il dialogo, servirebbe ad evitare la sciagura di una nuova guerra; magari «diversa» dalle precedenti ma guerra in ogni caso? Onestamente non me la sento di rispondere con un «sì» o un «no» a codeste incalzanti domande che mi vengono da tanti allarmati lettori. Quattordici anni fa, in Assisi, Giovanni Paolo II celebrò la prima preghiera interconfessionale: ebrei, islamici, cristiani, buddisti tutti insieme a pregare per la pace nel mondo. Nessun sincretismo bensì il tentativo di «spiegarsi», di «conoscersi» nel nome del Dio unico. Fu una manifestazione davvero edificante, quella di Assisi. Tanto che il Papa ne affidò la continuazione, anno dopo anno, alla Comunità (laica) di Sant’Egidio. E il dialogo interreligioso, grazie ai ragazzi (cresciuti) di Sant’Egidio, è andato avanti; quest’anno si è svolto a Barcellona in un clima, una volta ancora, edificante. Dopo quel che è accaduto io mi domando, però, se sia possibile ricorrere al dialogo per salvare la pace in pericolo certo; ad ostacolare il dialogo è una società neoislamica, maschilista, neonichilista, cui fa riscontro, per altro, una sorta di neolefebvrismo cattolico. Una società della quale sono «campioni», allarmanti, personaggi quali il Mullah Omar e il sedicente Emiro Osama bin Laden. Ingessati nel ricordo ossessivo di un passato splendido e tuttavia distante sette secoli dal presente (incerto) in cui tutti viviamo, musulmani e non. Ben vengano le preghiere interreligiose, chissà. Epperò lungo e urticante sarà il cammino verso quel porto di tolleranza, di condivisione invocato dal Papa dove i principi enunciati da Maometto, in un remoto passato, in seguito al messaggio di Issa (Gesù), possano armonizzarsi col tempo presente. Che in questo momento è il tempo fosco dell’odio, il tempo finale della guerra. Che massacra ma non punisce e nulla risolve.
 

GUERRE Io le ho viste sono tutte inutili
  Venerdì 14 Settembre 2001
Igor Man
 
«E’ un atto di guerra» - «Guerra ai terroristi e agli Stati che li ospitano» - «Risposta politica ma anche
militare» - guerra guerra guerra: i giornali gridano la fatale parola come comparse di un’opera lirica:
«Partiam-partiam-partiam». E tuttavia sono titoli di rigore poiché di altro non si parla, nel mondo, offeso
dall’orrore terroristico che ha sventrato l’invulnerabilità degli Stati Uniti d’America. Non è improbabile,
tuttavia, che questi titoli che traducono un senso di ineluttabilità, frutto del duro discorso di Bush,
vengano dettati da giornalisti che la guerra l’han vista solo al cinema. Un capo di Stato, preso in
contropiede da una edizione aggiornata di Pearl Harbor, che altro può fare se non dire al suo popolo quel
che il popolo si aspetta che dica dopo l’immenso dolore e l’umiliazione più grande sofferti, con stoicismo,
va detto, da milioni di americani affezionati orgogliosamente al ruolo di fruitori dei beni del miglior mondo
possibile: quello che coniuga il primato tecnologico-scientifico-finanziario-culturale con lo scudo stellare
garante d’una difesa imperforabile. Garante d’una supremazia che sfonda il futuro proiettandosi nel terzo
millennio alla conquista di una nuova frontiera senza indiani a tendere agguati. Ma a volte ritornano e ha
scarsa importanza che «gli indiani» siano attentatori suicidi verosimilmente plagiati da uno Sceicco
miliardario, ex playboy assiduo del Casino du Liban, famoso per il suo odio viscerale verso gli infedeli.
Sempre indiani sono poiché sparano alle spalle dei pionieri, per di più umiliandoli. Chi, come il vecchio
cronista, ha vissuto (per lavoro) negli Stati Uniti, viaggiandoli tutti, annodando amicizie grazie a un
fratello che non nascondeva (è morto, Mirko, il decano dell’Ansa) la soddisfazione che Sasha, suo figlio,
fosse stato marine ; chi in grazia del suo mestiere ha avuto la buona sorte d’incontrare personaggi come
JFK e suo fratello Bob, e inoltre Steinbeck, Sinatra (veniva a suonare il piano a casa di Renzo Nissim, in
Central Park South 13), Faulkner, Scotty Reston eccetera, conserva dell’America un ricordo amoroso e
prova rispetto per quella sobrietà fatta di alto pudore, così come di spavalderia sana e qualche volta di
improvvisa violenza sfogata a cazzotti in un bar, che oggi, dopo la tragedia, gli americani tutti, in primo
luogo gli abitanti della Grande Mela, manifestano.
Ma veramente questi americani nel loro intimo rimasti pionieri, vogliono la guerra? Quando, invece, sino al
martedì nero, almeno, non volevano neanche sentirne parlare al punto da forzare le distanze
(psicologicamente) tra gli Stati Uniti prosperi e belli (quelli di Clinton sono stati otto anni di vacche
grasse) e il Vicino Levante, i Balcani, la stessa Europa? E sono sicuri che una guerra, la guerra che
sembrano pretendere da Bush, risolverà? Sono sicuri, credono veramente che una guerra «laggiù» punirà
i malvagi, una volta per tutte, restituendo all’America tutte le sue care libertà, innanzitutto quella dalla
paura? In forza dell’articolo 5 la Comunità Europea dovrà schierarsi con gli Usa per combattere quella che
in buona sostanza viene prefigurata alla stregua di una nuova crociata. Contro i barbari terroristi suicidi.
Per il vecchio cronista che nel suo organigramma astrale (quello degli oroscopi) ha una collezione di
guerre, viste, raccontate, la guerra è inutile. Certo esistono guerra ineludibili, quella contro i nazifascisti,
vinta dagli Alleati a caro prezzo, d’accordo, ma in generale la guerra non risolve nulla. E’ lurida perché
costringe il fratello a uccidere il fratello, perché annulla la pietà che ci portiamo dentro dalla nascita, e
rende crudeli. Odio la guerra che Marinetti definiva la mestruazione dei popoli, perché, appunto stranisce
l’uomo. Epperò il destino ha voluto che per il mio lavoro io dovessi inciampare continuamente nella guerra.
Ho fatto, da cronista, tutte le guerre mediorientali, la incivile guerra civile del Libano, la guerra
prolongata (dal Salvador alla Colombia), quella tra Iran e Irak. Ho fatto il Vietnam, come si dice. Una
guerra inutile quant’altra mai (l’ambasciatore degli Usa ad Hanoi fu pilota e sganciò bombe sul Vietnam),
una guerra che mi ha segnato profondamente. (Per me i giornalisti si dividono in due categorie: quelli che
han fatto il Vietnam, e gli altri). Quando, cinquant’anni fa, ho cominciato a viaggiare mi sono prefisso di
andare alla ricerca dell’uomo. Lo temevo, poi ho cominciato a conoscerlo, infine ho imparato ad amarlo.
(Andando per guerre ho sempre sentito salire dallo sterminato popolo degli innocenti una immensa
domanda di pace).
Ho imparato a «cercare l’uomo» il 10 di giugno del 1940. Filavo, allora, con una ragazzina di nome Angelica
e mi sentivo una sorta di Orlando. Concluso dal Duce il suo discorso con quella frase scandita senza
convinzione: «La consegna è una sola (...) vincere e io vi dico che vinceremo», vidi Angelica scoppiare in
lacrime. Affidatala a una sua piccola amica, corsi a casa. Mio padre aveva gli occhi cupi, il viso pallido
bistrato da improvvise occhiaie di disperazione. «E’ la fine», disse. «E’ una pugnalata alla schiena»,
aggiunse: «Povera Francia e poveri noi». In quel preciso momento il ragazzo che ero divenne uomo. Le
parole di mio padre furono la spinta ad entrare nella Resistenza. Così, senza scelte ideologiche, entrai
nella resistenza militare, grazie al tenente A., un palermitano biondo bloccato a Roma. Poi, attraversando
Giustizia e Libertà, approdai ai Vespri Siciliani, la formazione socialista guidata da Peppino Sapienza e da
Maria Giudice (che dopo la Liberazione mi fece intervistare Angelica Balabanoff); distribuivo la stampa
clandestina, aiutavo gli ebrei tunisini a varcare le linee «passandoli» ai partigiani adulti e coraggiosi di
Sezze.
Dopo la Liberazione entrai al Tempo ed ero, con Egisto Corradi, a Vienna quando i russi invasero
l’Ungheria. Passavamo ogni mattina la frontiera, a Nichelsdorf, parlavamo coi patrioti giorno dopo giorno
sempre più in difficoltà, la sera rientravamo in Austria per dettare il servizio. Ma era scoppiata la Crisi di
Suez (siamo nel novembre del 1956) e il direttore mi spedì al Cairo. Quell’aeroporto era chiuso, così
raggiunsi in aereo Khartoum, presi il treno bianco del deserto e poi il battello che risaliva il Nilo e infine
un vagone letto che mi portò al Cairo. Mezz’ora dopo partivo per il Delta, con i colleghi della stampa
sovietica, canadese, cinese, francese e svizzera. Noleggiammo un motoscafo e dopo una notte di
navigazione sotto le stelle arrivammo a Porto Said. I commandos del generale Stockwell avevano pagato un
pesante prezzo in uomini, sicché quei soldatini erano nervosi. Mentre allungavamo fuoribordo il «mezzo
marinaio» al quale avevamo legato una camicia bianca, quelli ci spararono. Avevamo dato un passaggio a una
signora egiziana che, con la sua piccola figlia, voleva ad ogni costo raggiungere il marito. La donna fu
colpita in piena fronte e il suo sangue spicciò come vino da una botte troppo piena. Morì stringendo la mano
piccina della figlioletta; non fu facile staccare quella presa: anche la bambina era morta, come succede ai
gattini cui non regge più il cuore.
Già, i bambini. Dopo la disfatta egiziana nella Guerra dei Sei Giorni, bivaccavano alle porte del Cairo, in
attesa dei congiunti scampati alla grande sciagura: il padre, i fratelli. Pochi erano i sopravvissuti al
disastro provocato dalla richiesta, un rischio (mal)calcolato di Nasser: il ritiro dei Caschi Blu messi sul
Canale e nel Sinai dalle Nazioni Unite, dopo la crisi di Suez. Nasser era convinto, come ci avrebbe detto in
seguito, che U Thant avrebbe respinto la sua richiesta, invece quello l’accettò. E fu la catastrofe. Durante
la Guerra del Golfo, il 16 di febbraio del 1991, scrissi: «Quel ch’è accaduto a Baghdad la notte scorsa ne
rievoca un’altra. Cairo, 9 di giugno del 1967: alle 7 della sera compare sul televisore il volto smunto di
Nasser, inchiostrato da due occhiaie bituminose. Dice che di tutto quel ch’è successo (la disfatta) lui e
soltanto lui è il responsabile. Pertanto, conclude, me ne vado. E d’improvviso piomba sul Cairo la mannaia del
blackout, il televisore annega nel buio mentre il cielo s’accende dei fuochi della contraerea, rimasta muta
durante tutta la breve guerra. Quando la contraerea si tace, s’ode poderosa e inquietante la voce del
popolo. Sale dalle viscere del Cairo autentico, antico: quello dei morti di fame. "Nasser, Nasser", grida il
sottoproletariato egiziano, plebiscitando il suo raîss. Che importa ch’egli sia stato sconfitto, Nasser è
comunque il vincitore poiché è buono, gli altri sono i cattivi. Il ricordo di quella notte, invero storica, mi
suggerisce alcune considerazioni. Se ce ne fosse stato bisogno, a Baghdad s’è avuta la conferma che
Saddam non è Nasser. Lui, il "ladro di Baghdad", non s’è visto. Saddam non ha parlato al suo popolo. Non ha
avuto il coraggio terribile ch’ebbe Nasser.
Ora l’Iraq è nell’elenco degli «Stati canaglia» e potrebbe subire un attacco americano, ovviamente
«supportato» dalla Nato, italiani compresi. Temo che si ripeterebbe la tragedia della Guerra del Golfo: il
dittatore in salvo, mercati pieni di roba destinata agli intrallazzatori, 100 mila bambini che inesorabilmente
muoiono ogni anno perché l’embargo vieta l’importazione di medicinali di base, di pappette. «15-2-1991: alla
tv di Amman lo speaker piange. Scorrono le immagini sobriamente tragiche di quella «strage del bunker»
che ha sfranto di colpo il giovine ma robusto mito della «guerra chirurgica», pulita, addirittura indolore.
La guerra pressoché senza immagini ha ora una immagine antica: la morte degli innocenti. Certo, la
propaganda irachena inzuppa il microfono del sangue dei poveri morti ammazzati ma c’è chi,
rabbiosamente, negli Stati Uniti, non fa che ripetere: "Quel bunker era un obiettivo militare". Un giorno
sapremo la verità perché in democrazia la menzogna non paga. In Italia non compariranno le sequenze più
atroci di questo film dell’orrore autentico. Il tronco d’un ragazzo pietrificato dalla morte subitanea, il capo
riverso, la bocca spalancata dall’urlo dello spasimo finale (ancora una volta, come in ogni guerra, ritorna l’
Urlo di Munch a far da logo), le mani a cercare le gambe incenerite. Due mani di donna, due mani soltanto a
galleggiare, incrociate, sul grembo sostituito da un grumo di carbone». Non sappiamo quanti morti ci sono
esattamente stati nella Guerra del Golfo, tra la popolazione civile. E ci chiediamo quanti morti si
porterebbe appresso la guerra del riscatto americano di cui tutti parlano, dandola per sicura. Quelli della
strage delle Due Torri potrebbero superare i morti in Indocina. Il Vietnam, già. Ce lo porteremo sotto la
pelle sino all’ultimo giorno. Chi c’è stato è tornato, ogni volta, a casa con un bagaglio pesante. I bonzi che si
danno fuoco in piazza e muoiono senza lamento, solo digrignando i denti. I bambini che frugano nei rifiuti
del Royal, come gatti randagi. Il massacro fatto dal plastico, esploso dinnanzi l’ambasciata americana. I
contadini spellati dal napalm. I bar della via Tu Do gonfi di miagolanti piccole venditrici d’amore, bellissime
e crudeli. I marines perdutamente ubriachi in quegli stessi bar protetti da pesanti griglie di ferro. Il
profumo struggente dell’assenzio nei bicchieri mal lavati, l’acido fetore del vomito dei GI squassati dalla
sbornia, l’odore dolciastro dell’oppio, il dilagante puzzo di fogna e carogna. L’odore di Saigon, l’odore del
Vietnam.
Fu una guerra giusta o non lo fu? Lo ignoro né mi interessa stabilire chi fossero i buoni e i cattivi, laggiù.
Il vecchio cronista sa che c’è stato qualcuno che ha creduto in quel che faceva. Tra i musi gialli e gli
americani. Ci ha creduto pagando con la vita il suo atto di fede. E’ questa la testimonianza che posso dare.
Il Vietnam non era Saigon, una città di mandarini putridi, di ruffiani, di collaborazionisti. Il paese
autentico erano i 10 milioni di contadini dignitosamente miserabili che non sapevano chi fosse Marx né
tantomeno Lenin e tuttavia vedevano nell’uomo bianco il portatore della sciagura. I vietcong che contai
tutt’intorno al perimetro devastato di Camp Kannack erano morti di guerra. Durante tre giorni avevano
attaccato quel campo di berretti verdi. Saltavano i reticolati adoperando a mo’ di aste lunghi tronchi di
bambù e poiché portavano ghirlande di bombe a mano, una volta a terra esplodevano. La radio s’era
bloccata, i VC s’inerpicavano oramai alla conquista dell’ultimo girone. Di colpo la radio s’aggiustò, venne
chiamata l’aviazione e presto bombe a mezz’altezza uccisero i vietcong colpendoli alla tempia. Col cuore
che mi rompeva le tempie, ne contai 140. Morti. Sparsi sulla mota verde i lunghi capelli neri, i volti color
della giada aureolati da un sorriso intimo. Morti poveri, col tascapane di foglie di bambù intrecciate, ai
piedi cioce ricavate da copertoni Made in Urss, ragazzi bruciati verdi dalla violenza del comunismo giallo.
Comprai da un sergente sudvietnamita il taccuino che aveva cavato dalla tasca di un vietcong. Nguyen Hung
Cam, guerrigliero venuto dal Nord dopo due mesi di marcia giù per la pista di Ho Chi Minh. Idealmente
accanto alle sue note trascrissi qualche passo delle lettere del capitano James Polk Spruill, nato a Salem il
10 di febbraio del 1931, morto a Vinh Long saltando su di una mina il 21 di aprile del 1964, sposato, due
figli, giunto nel Vietnam il 18 di novembre del 1963. Sono gli scritti di due uomini diversi (all’apparenza):
uno credente, l’altro ateo. Un capitano uscito da West Point e un veterano della guerriglia.
Eppure questi due nemici si somigliano. S’identificano (forse) nell’amore per la sposa e i figli lontani,
perché certamente credevano in quel che facevano. L’ultima lettera del vietnamita: «Sono fiero di quel che
faccio, ma forse farei meglio se tu, dolcissima mia compagna, fossi con me. Non disperare mia amata, e
canta ai figli la canzone della donna che attende lo sposo: "Anche mille leghe lontano, certo, amico, tu senti
/ nel sole, nella pioggia, nel vento, nella notte / questo cuore che palpita dentro questa pietra costante".
Aspettami mia diletta, tornerò».
La notizia dell’assassinio di Kennedy raggiunse il capitano Spruill a Vinh Long: «Come dice il poeta: "La
morte dell’uomo mi diminuisce". Mio Dio, benedicilo». Natale del 1963: «La notte di Natale sono sceso in
paese per la messa in una chiesetta cattolica. Vidi un piccolo bimbo che me ne ha ricordato un altro che
ben conosco, così ho avuto la forza di sorridere. Ma la madre deve aver letto nei miei occhi poiché
protese il bambino posandomelo sulle braccia. Il mio cuore straripava di tenerezza e di gratitudine. Ho
realizzato la felicità di avervi, voi tre, voi che mi avete dato il più grande dei doni: l’amore. E’ stato il più
bel Natale della mia vita». L’ultima lettera: «Ho medicato una bambina colpita da una mina al fosforo
bianco, badando che non perdesse le budella. Aveva due anni. Mi sento come se fossi morto un poco».
«Molto sudore e, ahimé, molto sangue, rimane ancora da versare, ma su con la vita. A presto». Un
Personaggio che conta in Europa, in America, mi ha raccontato che quand’era ufficiale in Russia vide, in
prima linea, soldati tedeschi che con lo zaino carico di munizioni affrontavano allo scoperto una passerella
per rifornire commilitoni finiti in una sacca. I russi li ammazzavano, uno per uno, come centrassero birilli.
«Ma sono degli eroi» esclamò il Personaggio. «No», rispose l’ufficiale tedesco di collegamento: «Sono
prigionieri russi ai quali abbiamo messo la divisa nostra».
 

ISLAM E OCCIDENTE, L'ETERNO CONFLITTO
di Massimo Fini  il Giornale
Sul Corriere della Sera il professor Angelo Panebianco scrive che «il principale alleato di Bin Laden in Occidente è... il relativismo culturale». Poiché, per una volta, non fotocopia i testi di Adam Smith (il concetto di «relativismo culturale» non esisteva ai tempi di questo grande pensatore liberale), il professore in questa occasione non si limita a sciorinare le solite ovvietà ma dice delle autentiche sciocchezze. Afferma infatti che il «relativismo culturale» si basa su un errore logico: credere che la pari dignità di ogni individuo, riconosciuta, almeno in Occidente, a partire dall'Illuminismo, si estenda anche alle varie culture che popolano il mondo.

Culture diverse. Il «relativismo culturale», il cui principale divulgatore è l'antropologo e strutturalista francese Lévi-Strauss, non è affatto questo. Esso sostiene innanzitutto che ogni cultura è un «insieme» e che non può essere valutata enucleando questo e quell'elemento, magari aberrante agli occhi di una cultura diversa, senza collegarlo a tutti gli altri che lo compensano e lo giustificano. Su questa base Lévi-Strauss afferma che è un assurdo fare scale gerarchiche fra le culture, perché ognuna trova le proprie compensazioni al suo interno, e che quindi tutte hanno pari validità. Il «relativismo culturale» non discende quindi affatto dal concetto illuminista delle pari dignità degli individui come scrive il professore Panebianco, tanto che riconosce la validità anche di culture dove questa pari dignità non esiste, come, tanto per fare un esempio, quella castale indiana.

Questo è il «relativismo culturale», uno dei migliori frutti del pensiero europeo. Ma altre culture, come la buddista o quelle animiste dell'Africa nera non hanno avuto bisogno di un Lévi-Strauss per essere «relativiste», lo sono antropologicamente, lo sono «in sé» senza doverci stare a pensare troppo su. La concezione del «relativismo culturale» nasce in Occidente (comprendendo in questo concetto anche il bacino del Mediterraneo) proprio per cercare di limitarne la straordinaria aggressività dovuta alla convinzione di essere portatore di una «cultura superiore». Quando una cultura crede di essere «superiore» siamo infatti già nell'ambito del razzismo. Ma questo è il meno, se uno il razzismo lo agisce solo a casa sua e nella propria testa. Il problema è che nessuna cultura che si ritenga «superiore» resiste all'impulso di esportarla, di portare la «buona novella» anche agli altri, spesso anche con intenzioni generose che però sono come quei favori non richiesti che ti cadono in testa come una tegola. Perché è un dato storico che quasi tutti i più atroci e sanguinari conflitti dell'umanità sono venuti da queste culture che si ritengono «superiori» e spesso «uniche» e che non concepiscono che ne possano esistere anche altre con pari dignità. Cristianesimo, musulmanesimo, ebraismo, le religioni del «dio unico» hanno avuto e hanno una lunga storia di sangue per le guerre che hanno combattuto fra di loro (guerre feroci, guerre ideologiche, molto più spietate delle oneste guerre di conquista territoriale) o contro culture «altre».

I Monoteismi. Ma ben presto al monoteismo religioso se n'è affiancato uno laico che ha partorito l'eurocentrismo, il colonialismo (bisognava portare la civiltà al «buon selvaggio»), l'internazionalismo comunista (bisognava liberare il mondo intero, la «rivoluzione permanente» di Trotzki), il nazismo e adesso il modello di sviluppo occidentale che è il più pervasivo di tutti, che è il totalitarismo che, a differenza di quello cristiano o musulmano o nazista o comunista, si è più compiutamente realizzato e che è tanto più pericoloso perché non sa di essere tale e si crede liberale e democratico. Ed è questa aggressitività, basata sulla convinzione di essere una cultura «superiore», che evoca e eccita quella altrui, in particolare di una cultura,come l'islamica, anch'essa convinta della propria «unicità» e «superiorità». Quello in atto è lo scontro fra due integralismi che si specchiano l'un l'altro senza vedersi.