Siamo
entrati in una guerra che si fa in nome della lotta al terrorismo internazionale.
Tra gli alleati in questa guerra ci sono tre paesi che hanno riconosciuto
ufficialmente (unici al mondo) il regime dei taliban: Pakistan, Arabia
Saudita, Emirati Arabi. Non solo: almeno due di essi (Pakistan e Arabia
Saudita) hanno organizzato, finanziato, istruito e armato il movimento
dei taleban e lo hanno portato al potere. E ce lo hanno tenuto dal 1996
al 2001, ben sapendo che ospitava tutti i terrorismi islamici del mondo.
Ma non bombardiamo quei paesi.
Si doveva catturare o uccidere Osama bin Laden. Che è vivo e
vegeto ed è divenuto nel frattempo la bandiera di tutto l'islamismo
fondamentalista del mondo. Non un solo ministro del governo dei taliban
risulta arrestato o ucciso, né lo è il mullah Omar.
Si dirà che è ancora presto: pazientare. Ma i responsabili
americani (quelli che prendono le decisioni) ci fanno sapere (per la verità
alternando valutazioni diverse e perfino opposte l'una all'altra) che questa
guerra "durerà anni" (Rumsfeld), durerà mesi (Rumsfeld),
durerà tanto "che questa generazione non ne vedrà la fine"
(Cheney). Per quale di queste varianti ha votato la stragrande maggioranza
del parlamento italiano?
E di quale guerra si tratta? E' la guerra contro l'Afghanistan? Oppure
e una carta bianca dove i dirigenti di Washington scriveranno, volta a
volta, gli obiettivi che avranno individuato, in ogni parte del mondo?
Cosa, del resto, certa, poiché essi hanno già annunciato
che si colpirà dovunque. E poiché non sarebbe credibile ritenere
che il terrorismo è solo Afghanistan e solo bin Laden, ne consegue
che si pianificano bombardamenti su tutti gli altri "stati carogna" di
religione islamica: Irak, Sudan, Yemen del Sud, Iran, Indonesia e via via
individuando.
Mentre i deputati italiani votavano per la guerra, il Pentagono si accingeva
e rivedere le sue strategie. Poiché è evidente anche a loro
che quella iniziale si è rivelata sbagliata, approssimativa, superficiale.
La guerra continuerà, ma su coordinate che ancora non conosciamo.
Al Pentagono non hanno ancora deciso se scendere sul terreno, in quanti
scendere, dove e come. Adesso - dopo i primi loro morti (che non sapremo
mai quanti sono) - si rendono conto che forse non hanno abbastanza "intelligence".
L'Afghanistan è una bestia difficile. Si poteva chiedere informazioni
ai russi.
Siamo entrati in una guerra dove non esistono limitazioni di armi e
di criteri di condotta. E se non si riuscisse a trovare e uccidere Osama
bin Laden con tutto l'armamentario bellico fin'ora dispiegato, siamo pronti
ad accettare l'impiego di bombe atomiche? La domanda non è peregrina
o teorica perché il problema sta sul tappeto. E sta sul tappeto
perché non si è stabilito su quali confini fermarsi. Immagino
che i nostri deputati faranno fatica ad accettare quella svolta, quando
divenisse parte dell'ordine del giorno, ma finiranno per accettarla. Infatti
hanno già accettato il criterio che, per colpire il criminale, si
può abbattere il palazzo in cui vive, anche se centinaia di altri
inquilini innocenti vi perderanno la vita.
Siamo entrati in guerra illudendoci (e illudendo le nostre opinioni
pubbliche) sull'esistenza di una "Grande Alleanza", che comprenderebbe
perfino la Russia e la Cina. Ma a Shanghai nel documento finale non c'è
stato il minimo cenno a questa "Alleanza". La Cina sta a guardare, esprimendo
solidarietà mentre la fine annunciata dei taliban taglia l'ossigeno
ai terroristi della minoranza islamica degli uiguri. La Russia di Putin
si dichiara amica e solidale, ma esclude di partecipare con i suoi uomini,
non concede spazi aerei per azioni militari, invita a non pensare che la
lotta al terrorismo possa essere risolta solo con metodi militari, infine
raccoglie il silenzio definitivo dell'occidente sulla Cecenia.
Siamo entrati in guerra con l'implicita idea che la vinceremo. E invece
nessuno si è preoccupato di valutare l'ipotesi che si possa perderla.
Con questa scelta della guerra per combattere il terrorismo, noi stiamo
mobilitando un esercito di kamikaze che diverrà massa critica molto
più velocemente di quanto immaginiamo, se è vero che, dieci
giorni fa, a Peshawar, Pakistan, in un solo giorno, 500 giovani (non afghani
ma pakistani) hanno messo la loro vita a disposizione della jihad. Così
diventeremo tutti, senza volerlo, dei kamikaze, perché la guerra
arriverà nelle nostre case, nei nostri autobus, nei nostri parchi.
E non sarà possibile vincerla, paradossalmente, proprio perché
noi siamo attrezzati a combattere per il successo, per il denaro, per il
benessere. Lo abbiamo ormai nei nostri cromosomi; ci hanno imbottito la
testa con l'idea di essere belli, vivi e vincenti. Per questo non possiamo
nemmeno tentare di capire chi non ha mai vinto, ed è così
certo della sua inesorabile sconfitta da avere maturato abbastanza odio
da dedicare la sua esistenza alla morte. A uccidersi per annientare coloro
che ritiene nemici e responsabili della sua condizione.
Non c'è difesa contro questo esercito di perdenti. O, meglio,
ne avremmo una sola: cominciare a mostrare loro che noi siamo capaci di
costruire un mondo migliore di quello che conoscono. Ma questa è
l'unica cosa che l'Occidente non ha detto e non si accinge a fare. Dicono,
quelli che sono entrati in guerra, che non c'era alternativa. Cosa potevamo
fare? Potevamo lasciare impuniti i criminali? Ma è una bugia. Così
non si combatte il terrorismo e non si puniscono i responsabili. Così
si moltiplicano i nemici dell'occidente lasciando intatti i santuari del
terrorismo, che sono molto più vicini alle nostre capitali di quanto
non lo siano le grotte afghane.
Siamo entrati in guerra senza riflettere che una guerra come quella
che ci veniva proposta, anzi imposta, implica che noi dovremo rinunciare
a tutti i valori (libertà, diritti, informazione, prosperità
ecc) in nome dei quali proclamiamo la nostra come civiltà e ne vantiamo
la superiorità. C'è già chi invoca il ritorno alla
tortura, ed è passato solo un mese! Con il risultato che, anche
in caso di vittoria, saremmo tutti sconfitti. E' il trionfo della irrealpolitik.
Tony Blair e George Bush hanno promesso al generale-presidente Musharraf
che, in cambio delle basi per i loro aerei, garantiranno al Pakistan voce
in capitolo nel futuro governo dell'Afghanistan. Cioè hanno garantito
che qualcuno dei taliban più "presentabili" troverà posto
nel futuro governo di Kabul.
All'inizio dei bombardamenti sull'Afghanistan il problema (è
stato detto per motivarli) era l'Afghanistan. A un mese distanza, 2500
missioni di bombardamento dopo, il problema si è ingigantito. Ora
comprende anche il Pakistan: 140 milioni di persone, una guerra endemica
con l'India, un miliardo di abitanti, bombe atomiche nell'arsenale. Ai
confini tra Pakistan e Afghanistan almeno diecimila uomini armati sono
pronti a entrare in guerra a fianco dei taliban. E i loro kalashnikov possono,
da un momento all'altro, rivolgersi sia contro le truppe della "Grande
Alleanza", sia contro il generale Musharraf. Il pericolo è tale
che gli Stati Uniti hanno già messo in stato di allerta una brigata
speciale che dovrebbe controllare (dovrebbe, ma ce la farebbe?) i depositi
nucleari pakistani.
Ci si aspettava un crollo del regime dei taliban. Non c'è stato.
Ci si aspettava una rivolta delle popolazioni contro il regime dei taliban:
non c'è stata.
Dunque siamo entrati in una guerra contro un gruppo di stati senza
averne l'elenco. Siamo entrati in una guerra che non soltanto non si sa
quanto potrà durare, ma senza neppure un criterio per definire la
vittoria.