8/12/2001 La Stampa
IL RE DELLA SPY-STORY GIUDICA UN ERRORE AVER VOLUTO TRASFORMARE L´OPERAZIONE DI POLIZIA INTERNAZIONALE IN APERTO CONFLITTO
«Se non è una Crociata, le somiglia»
Le Carré: questa guerra affonda le sue radici nel Cristianesimo

Inviato a COURMAYEUR QUESTA guerra non sarà una crociata, eppure si ha la chiara sensazione che le sue radici affondino in convinzioni fondamentalmente cristiane. Bush è sostenuto da cristiani bianchi, puritani ed evangelici. Lo stesso si può dire per Blair. Consapevolmente o no, la guerra non sarà ispirata dal Cristianesimo, ma riflette posizioni cristiane. Cerchiamo, come cristiani, di dividere i musulmani fra buoni e cattivi: ebbene, non è così semplice». Se le parole di John Le Carré vogliono avere a loro volta il sapore della crociata, sembrano riuscirci contro l´Occidente nel suo insieme che, dice, «pecca di avidità e nutre l´insana nozione che un mondo sempre più piccolo possa sopportare un´espansione senza limiti». E´ il tema, per intenderci, che il re della spy-story ha fatto esplodere nel suo ultimo romanzo - «Il giardiniere tenace», edito in Italia da Mondadori - dove i cattivi non sono più gli agenti del Kgb ma le multinazionali farmaceutiche che negano all´Africa farmaci a basso prezzo per affrontare le spaventose epidemie di quel continente; ed è il tema che lo scrittore inglese ha portato al «Noir in Festival» di Courmayeur, la rassegna cinematografica del thriller che lo ha insignito del «Raymond Chandler Award». Fa le pulci, insomma, a un mondo che non ha saputo darsi una regolata e trasformarsi dopo la caduta del Muro. Perché, insiste, «dopo avere fatto i conti con i mali del comunismo dobbiamo ora combattere quelli del capitalismo»

Signor Le Carré, l´11 settembre non ha cambiato niente? «Sarebbe orribile se non lo avesse fatto. Quella cartina di tornasole che siamo noi scrittori, in quanto testimoni del tempo, è diventata di color rosso vivo. Fino al 10 settembre avevo lavorato attorno al radicalismo di ieri e di oggi. Il mattino avevo visto vecchi filmati di Rudi Dutschke, il pomeriggio sono stato costretto a quello di Osama. L´indomani ho annullato tutti i miei appuntamenti e a quel libro non penso più. E sono nel deserto, alla ricerca di un tema: tempo prezioso, per me settantenne e con al massimo il tempo per scrivere ancora un paio di romanzi» Ma allora approva questa guerra. «Obtorto collo; ma sull´altro versante, quello palestinese, devo dire che nessuno, neppure il più filo-israeliano degli osservatori, può negare che Sharon si è preso un ingiusto vantaggio dalla situazione. Arafat non è Osama. E poi, quando Bin Laden fa sua la causa della Palestina e sostiene che gli americani devono lasciare l´Arabia Saudita, quelli sono due punti in fondo negoziabili. Per Sharon nulla è negoziabile; né per Bush, e Dio non voglia che la guerra vada avanti fino alla prossima campagna elettorale. Forse il mio è un punto di vista cinico, ma ci sono precedenti. Il tema palestinese è al centro di un suo romanzo di grande successo, «La tamburina». «Il più brutto film tratto dai miei libri, e infatti ora Hollywood intende rifarlo. Comunque pochissimo è cambiato in meglio da allora. In quella regione si è più lontani che mai dalla pace. E il fondamentalismo, allora, era solo un optional: né armato né con profonde motivazioni». Tornando all´Afghanistan, è una campagna forse vicina alla fine. «Ho detto che, sia pure con mille riserve, l´approvo. Ma sostengo che è stata una guerra sbagliata. Anzitutto perché si è voluto trasformare in aperto conflitto quella che poteva essere una massiccia operazione di polizia. E poi perché è stata combattuta secondo moduli del passato: tanto da ricordare l´ultima fase del Vietnam, con massicci bombardamenti e chissà quale perdita di vite umane. Chissà quanti Mi-Lay ci sono stati, in Afghanistan, di cui non sapremo mai nulla. Peggio, è stata una guerra non prevista, e che non finirà con abbracci fra nemici e campane che suonano. Forse per questo si vive alla giornata e non si sa esattamente che cosa si voglia. E il dopo? Yemen, Somalia, Saddam: chissà. Bush ha avuto una licenza aperta: forse, a questo punto, sarebbe opportuno concentrarsi non su quello che accade in Afghanistan, ma su quello che si dice a Washington e in Texas. Anche i fatti, in questo frangente, possono essere un enigma». La guerra servirà a qualcosa? «Dipenderà moltissimo da quale America ne emergerà. Il 10 settembre quello non era un Paese con cui mi sentissi a mio agio, anche se due dei miei figli vivono negli Stati Uniti e ho nove nipotini americani. Tutto quello che è accaduto ha sollevato una forma di patriottismo che non è necessariamente delle migliori. Per fortuna c´è una democrazia molto robusta, altrimenti non sopravviverebbe alle misure che tentano di minarla, come i nuovi poteri d´arresto o i tribunali militari. L´America ha meccanismi che le consentono di raddrizzarsi da sola, coma una barca a vela, altrimenti quella attuale sarebbe una situazione pericolosa». Da questa guerra può uscire qualcosa di buono? «Io ho svolto un ruolo personale, quando fra gli Anni 50 e 60 lavoravo per l´Intelligence britannica. Ho messo una parte di me nella fine del comunismo e della Guerra Fredda. Ma quando cadde l´Unione Sovietica l´Occidente, e in particolare gli Stati Uniti, non capirono che occorrevano un piano Marshall e assistenza umanitaria, che bisognava riscrivere il mondo, che il divario fra ricchi e poveri creava un crescente senso di rabbia. Nulla è stato fatto, con i risultati che sappiamo: il cinismo, l´avidità e l´indifferenza verso i nostri simili; il trionfo del potere corporativo delle multinazionali sugli Stati più deboli. E tutto questo può anche avere contribuito ad alimentare il terrorismo. Non sono un ottimista, non credo che dopo un temporale si veda necessariamente un arcobaleno; ma chissà che la guerra contro il terrorismo non apra gli occhi, dando alle democrazie industriali dell´Occidente l´occasione di rimediare ai propri errori. Certo, il nuovo schema di alleanze che si vede nascere, con la Russia e la Cina sullo stesso fronte degli Stati Uniti, è interessante; purché non sia una cosa strumentale, temporanea». Perché una parte del mondo odia l´America? «Chiunque eserciti il potere è impopolare. Persino uno di noi che cammini in un villaggio indiano o in un campo palestinese viene visto come espressione dell´imperialismo. Ed è odiato». Il suo George Smiley che avrebbe detto del fallimento dei servizi segreti americani, che non hanno saputo impedire l´11 settembre? «Che sono il diretto risultato di una negligenza durata troppo tempo, da quando è caduta la minaccia sovietica. Detto questo, è anche vero che penetrare le cellule del terrorismo non è facile. Si può riuscire con alcune, ma ne restano altre». Non le sta scomodo il ruolo di grillo parlante? «Anche nei miei libri di spionaggio il tema centrale era la ricerca della moralità. Smiley ed io non siamo in ottimi rapporti. Il suo passato è fosco. Esprime dubbi in privato, ma è conformista in pubblico. E´ troppo vecchio. E´ un pessimo amante. Devo scrivere di gente giovane, dinamica. Di onestà. Perché in un momento di crisi abbandoniamo le nostre conoscenze pragmatiche e ci affidiamo alla nostra stupidità di fondo. Per questo ho scritto un libro - "Il giardiniere tenace" - per denunciare un´industria - quella farmaceutica - allo stesso modo in cui avrei potuto denunciare quella del tabacco o del petrolio». Il protagonista di questo suo ultimo libro, un diplomatico britannico di basso rango, alla fine si ribella contro la sopraffazione. Vorrebbe dire che la disobbedienza può essere una risposta ai mali del mondo? «E´ uno che fa quello che Smiley non ha mai fatto. Ma non so se sia questa la risposta, sebbene stenti a vedere metodi democratici capaci di agire con altrettanta efficacia contro il potere corporativo»