Quando i morti non contano
MARC W. HEROLD

23 Dicembre 2001 il Manifesto
 

L' attacco aereo sull'Afghanistan è cominciato il 7 ottobre alle 20:57, ora locale. Il giorno seguente, la Reuters ha riportato un'intervista con un venditore di gelati di 16 anni proveniente da Jalalabad, il quale raccontava di aver perso una gamba in seguito al lancio di un missile Cruise su un campo d'atterraggio vicino casa sua: "C'è stato solo un boato, e poi ho aperto gli occhi e mi sono trovato in ospedale" ha detto Assadullah, che è stato trasportato oltre la frontiera fino a Peshawar per l'assistenza medica. "Ho perso una gamba e due dita. C'erano altri feriti. Dappertutto c'era gente che scappava".
Moltiplicate questa scena per duecento o trecento e comincerete ad approssimarvi alla realtà sul terreno in Afghanistan. Una realtà sconsideratamente liquidata dal Pentagono e dai grandi media statunitensi compiacenti con l'affermazione che "non è stata possibile una verifica indipendente delle denunce".
Il 24 novembre 2001, dopo sette settimane di guerra, il reporter del Los Angeles Times M. H. Paul Richter poteva scrivere senza vergogna: "Sebbene le stime siano ancora in larga parte supposizioni, alcuni esperti ritengono che più di 1.000 persone tra Taliban e truppe di opposizione siano probabilmente morte nel combattimento insieme a non meno di dozzine di civili". Dozzine? Centinaia? Migliaia, come documenteremo. In realtà, una attenta analisi degli articoli pubblicati dimostra che l'Afghanistan ha subìto un barbaro bombardamento aereo, che dal 7 ottobre ha ucciso una media di 60-65 civili al giorno. Il 23 novembre, al tramonto del sole, sotto i bombardamenti Usa erano morti almeno 3.006 civili afghani.
Per conteggiarli mi sono basato su quotidiani indiani (specialmente The Times of India, considerato l'equivalente del New York Times), tre quotidiani pakistani, The Singapore News, giornali britannici, canadesi e australiani (Sydney Morning Press e Herald Sun), l'Afghan Islamic Press (Aip) con sede a Peshawar, la France Press (Afp), Pakistan News Service (Pns), Reuters, Bbc News Online, al Jazeera, e varie altre fonti credibili. A quanto pare, le sole notizie di morte considerate "reali" dalla grande stampa Usa sono o quelle diffuse da un'organizzazione o impresa occidentale, o quelle "verificate in modo indipendente" da persone e/o organizzazioni occidentali. In altre parole, l'alto numero di morti tra i civili riportato altrove (per esempio nei reportage di Robert Fisk, Justin Huggler e Richard Lloyd Parry dell'Independent e Tayseer Allouni di al Jazeera) sono trattati come "propaganda nemica" e ignorati.
Come tipico esempio di minimizzazione si veda l'articolo "Truth and Lies About Taliban Death Claims", apparso in un importante quotidiano inglese (The Sunday Telegraph, 4 novembre 2001). Gli autori Macer Hall e David Wastell dichiarano solennemente che "i civili afghani uccisi dalle bombe americane sono molti meno di quanto sostiene la propaganda Taleban". Citando "un rapporto di intelligence ottenuto dal Sunday Telegraph" che presumibilmente ha utilizzato dati raccolti dai satelliti e dai velivoli da ricognizione privi di equipaggio, essi sostengono che le cifre indicate dai Taleban sono quasi tutte falsità e propaganda. Poi presentano una lista delle vittime indicate dai Taleban e ad essa contrappongono "la Verità" come risulta dal rapporto di intelligence, non la loro ricerca indipendente! Come esempio, nella tabella in questa pagina ci sono le cifre fornite dai Taleban, la "verità" come risulta dal rapporto di intelligence e la mia ricostruzione nell'ultima colonna.
Per far apparire "giusta" la guerra in Afghanistan, diventa imperativo bloccare completamente l'accesso all'informazione sui veri costi umani, e le azioni di Bush-Rumsfeld-Rice rispondono eloquentemente a questo sforzo. Per esempio, chiamare tutte le principali reti di informazione statunitensi per dare loro il ruolino di marcia, acquistare tutte le immagini commerciali satellitari a disposizione del pubblico, colpire l'ufficio di al Jazeera a Kabul con un missile. In grandissima parte, i maggiori media statunitensi sembrano aver obbedito alle direttive del Pentagono e aver dato scarsa copertura al tema delle vittime civili. Quando il team di Bush è stato messo di fronte al "fatto" incontrovertibile di un civile colpito, la risposta standard è stata che il vero obiettivo era una struttura militare vicina. Per esempio, nell'episodio in cui quattro guardiani notturni sono stati uccisi presso l'ufficio di Kabul di una agenzia Onu per la rimozione delle mine, il Pentagono ha sostenuto che esso era vicino a una torre-radio militare. Alcuni funzionari Onu, comunque, dicono che la torre era una stazione radio a onde medie e corte ormai dismessa, situata a circa 270 metri dall'edificio bombardato, e che non era funzionante da oltre dieci anni.
Il 19 ottobre, alle prime ore della sera, alcuni aerei Usa hanno volato in circolo su Tarin Kot in Uruzgan, poi ci sono tornati dopo che tutti erano andati a dormire e hanno bombardato una zona abitata, a due miglia di distanza dalla base Taleban più vicina. Le case di fango sono state rase al suolo e le famiglie distrutte. Il primo round di bombardamenti ha ucciso 20 persone, e mentre alcuni degli abitanti tiravano fuori dalle macerie i loro vicini, sono state lanciate altre bombe che hanno ucciso ancora 10 persone. Uno degli abitanti ricorda: "Abbiamo tirato fuori un bambino, gli altri erano sepolti sotto le macerie. Alcuni bambini sono stati decapitati. C'erano corpi senza gambe. Noi non potevamo fare niente. Siamo scappati" (Richard Lloyd Parry, "Families Blown Apart, Infants Dying. The Terrible Truth of This 'Just War'", The Independent, 25/10/2001).
Il 21 ottobre alcuni aerei che apparentemente avevano come obiettivo una base militare Taleban - abbandonata da tempo - hanno lanciato il loro carico mortale sulla zona residenziale di Khair Khana a Kabul, uccidendo 8 membri di una famiglia che si era appena seduta per fare colazione (Sayed Salahuddin, "Eight Die From One Family in Kabul Raid" a Xtrams, 22/10/2001).
Il giorno successivo, alcuni aerei hanno lanciato cluster bombs BLU-97 (fabbricate da Aerojet/Honeywell) sul villaggio di Shakar Qala vicino a Herat, mancando completamente gli accampamenti Taleban situati da 600 a 800 metri di distanza e distruggendo o danneggiando gravemente 20 delle 45 case del villaggio. ("Cluster Bombs are New Danger to Mine Clearers", The Times, 26 ottobre 2001). Quattordici persone sono rimaste uccise subito e una quindicesima è morta dopo aver raccolto il paracadute attaccato a una delle 202 piccole bombe sganciate dal BLU-97.
I funzionari Onu addetti alla rimozione delle mine nella regione hanno rilevato che dal 10% al 30% dei missili e delle bombe lanciate sull'Afghanistan non sono esplosi e costituiscono un pericolo permanente. (Pakistan News Service, 20 ottobre 2001 e Amy Waldman, "Bomb Remnants Increase War Toll", New York Times, 23 novembre 2001). Ci sono resoconti secondo cui il 26 novembre, dopo giorni di intensi bombardamenti sul villaggio di Shamshad nella provincia di Nangarhar, almeno tre bambini afghani sarebbero saltati in aria e sette sarebbero rimasti feriti da una cluster bomb mentre raccoglievano legna da ardere e frammenti ("Afghan Children Killed Amassing Scrap of American Bombs", Pakistan News Service, 26 novembre 2001 e "One dies, six injured as cluster bomb explodes", The Frontier Post, 27 novembre 2001).
Ci sono molti esempi di bombardamenti avvenuti su aree insignificanti dal punto di vista militare. Il 25 ottobre una bomba ha colpito un autobus urbano pieno di gente a Kabul Gate, Kandahar, e ha incenerito da 10 a 20 passeggeri. (Owen Brown, "'Bus Hit' Claim as War of Words Hots Up", The Guardian, 26 ottobre 2001). Poi, il 18 e il 19 novembre, aerei Usa hanno bombardato il villaggio di montagna di Gluco - situato sul Khyber Pass e distante da qualunque struttura militare - uccidendo 7 abitanti del villaggio (Phillip Smucker, "Village of Death Casts Doubts over U.S. Intelligence", The Telegraph, 21 novembre 2001). Un reporter del Telegraph che ha visitato Gluco ha osservato: "Le case di legno sembravano pile di fiammiferi carbonizzati. I muli feriti giacevano a terra ragliando sulla strada lungo il passo di montagna che puzzava di zolfo e carcasse...".
Noor Mohamed, un commerciante di grano che per affari viaggia sulla strada che va da Charman a Ghazni, ricorda di aver visto i resti bombardati, contorti e ancora fumanti di un convoglio di 15 furgoni che trasportava carburante subito a nord di Kandahar durante la settimana del 29 novembre. Egli racconta di essersi sentito male alla vista dei resti carbonizzati dei conducenti e di tutte le dozzine di sventurati che avevano pattuito il viaggio fino a Charman (Paul Harris, "Warlords Bring New Terror", The Observer, 2 dicembre 2001).
Abdul Nabi ha riferito alla France Press di aver visto, al suo arrivo in un campo profughi sul confine pakistano il 24 ottobre, due gruppi di cadaveri - di 13 e 15 corpi - di civili vicino a furgoni bombardati sulla strada tra Herat e Kandahar ("UN Says Bombs Struck Mosques, Village as Civilian Casualties Mount", Agence France Presse a Kabul, 24 ottobre, citato in The Singapore News, 24 ottobre 2001). I dati in nostro possesso rivelano che questo attacco è stato sferrato il 22 ottobre, contro quattro furgoni che trasportavano carburante.
L'uso di armi con enormi potenzialità distruttive da parte dell'Air Force statunitense -tra cui fuel air bombs, carpet bombs B-52, Blu-82, e cluster bombs Cbu-87 (delle quali è stata dimostrata la capacità di uccidere e menomare i civili che incappano nelle piccole bombe inesplose) - rivela l'inconsistenza della sua presa di posizione secondo cui gli Usa starebbero cercando di evitare che ci siano vittime tra i civili afghani. "Anche se le morti tra i civili non sono l'obiettivo deliberato degli attuali bombardamenti - come lo erano per gli attaccanti dell'11 settembre - il risultato finale è stato una distinzione senza una differenza. Un morto è un morto, e quando le azioni di qualcuno hanno conseguenze interamente prevedibili, ribattere che quelle conseguenze sono state meramente accidentali è poco più che una preziosa e vuota banalità (Tim Wise, "Consistently Inconsistent: Rhetoric Meets Reality in the War on Terrorism" su Znet, 15 novembre 2001).
La campagna Usa di bombardamenti ha anche preso direttamente di mira certe strutture civili giudicate ostili per il successo della guerra. Il 13 ottobre, il principale centralino telefonico di Kabul è stato distrutto dalle bombe (non risultano vittime civili). Il 15 ottobre, la centrale elettrica di Kabul è stata distrutta dalle bombe: 12 i morti (citato da Bbc News Online, 23 ottobre 2001). Alla fine di ottobre, i jet americani hanno bombardato la rete elettrica a Kandahar, togliendo completamente l'energia elettrica. I Taleban sono riusciti a far arrivare un po' di elettricità alla città da un impianto della provincia di Helmand, ma anche quello in seguito è stato bombardato ("Bombing Alters Afghans Views of U.S.", Pakistan News Service, 7 novembre 2001).
Il 31 ottobre, gli Usa hanno lanciato 7 attacchi aerei contro la più grande centrale idroelettrica, adiacente alla grande diga di Kajakai, 90 chilometri a nord-ovest di Kandahar, sollevando il timore che la diga potesse cedere (Richard L. Parry, "U.N Fears 'Disaster' Over Strikes Near Hydro Dam", The Independent, 8 novembre 2001). Il 12 novembre una bomba teleguidata ha centrato l'ufficio di Kabul di al Jazeera, che inviava notizie dall'Afghanistan in modo giudicato ostile da Washington (vedi "U.S. Targeting Journalists Not Portraying Her Viewpoint", The Frontier Post, 20 novembre 2001). Il 18 novembre, gli aerei hanno bombardato delle scuole religiose a Khost e Shamshad.
Strutture, media, istituzioni scolastiche - in questa guerra tutto sembra essere un "giusto" obiettivo. I civili afghani che vivono in prossimità di quelle che sono ritenute installazioni militari moriranno - devono morire - e fanno parte del "danno collaterale" nell'ambito degli sforzi statunitensi di condurre operazioni militari in cielo e in terra senza che ci siano vittime militari Usa. Dal punto di vista dei policy-makers americani e dei loro servitori, i grandi media, il "costo" di un civile afghano morto è zero ma i "vantaggi" del preservare le vite dei soldati Usa sono enormi, data l'avversione del pubblico americano al rientro dei corpi nelle bare (...).
E' chiaro che gli strateghi militari dirigono i missili e lanciano le bombe intenzionalmente su zone dell'Afghanistan densamente popolate. Un'eredità di dieci anni di guerra civile in Afghanistan negli anni '80 è che molte strutture militari sono situate in zone urbane dove il governo appoggiato dai sovietici le aveva messe per una migliore protezione dagli attacchi da parte dei mujaheddin, quasi tutti rurali. I successivi governi afghani hanno ereditato queste installazioni. Suggerire che i Taleban abbiano usato "scudi umani" è più rivelatore del razzismo e dell'amnesia storica di coloro che muovono tali accuse, che delle azioni dei Taleban.
Qualunque pesante bombardamento di queste installazioni militari non può che determinare necessariamente molte vittime tra i civili, una realtà esacerbata dagli occasionali errori umani - che sono stati ammessi -, dagli errori nella scelta degli obiettivi, dal cattivo funzionamento dell'equipaggiamento e dall'uso irresponsabile di mappe sovietiche obsolete. Qui l'elemento più significativo, comunque, è il valore molto basso attribuito alla vita dei civili afghani da parte degli strateghi militari e dell'élite politica. Perché? Credo che la razza abbia a che fare con questo discorso.
Gli afghani non sono "bianchi", mentre lo sono la stragrande maggioranza dei piloti e delle truppe di terra scelte. Questo "fatto" serve ad amplificare la logica costi-benefici che sacrifica oggi gli afghani, più scuri di pelle (come gli indocinesi e gli iracheni delle guerre precedenti), in modo che i soldati americani "bianchi" possano essere salvati domani. In altre parole, quando il "nemico" è non-bianco, le proporzioni della violenza esercitata dal governo americano per raggiungere i suoi interessi nazionali al minimo prezzo non conoscono limiti.
Si potrebbe obiettare che i bombardamenti di massa sulla Serbia avvenuti un paio di anni fa contraddicono questo punto di vista. Ma i serbi, lo si noti, erano macchiati (leggi "scuriti") dal loro passato comunista - almeno, nella visione dei policy-makers americani e dei grandi media - e dunque gli americani hanno avuto gioco facile. Altrimenti, non c'è alcun esempio (tranne che durante la seconda guerra mondiale) di uno stato straniero caucasico che sia stato preso di mira dal governo Usa.
La guerra all'Afghanistan è tutto tranne che una "guerra giusta", come James Carroll ha puntualizzato acutamente in un saggio apparso su The Boston Globe (27 novembre 2001). Prima di tutto, la natura sproporzionata di una risposta che costringe un'intera altra nazione e un altro popolo a "pagare" per i crimini di pochi è evidente a chiunque si interroghi sui "costi" fatti pagare al popolo afghano. In secondo luogo, questa guerra fa poco per fermare la spirale di violenza di cui gli attacchi al World Trade Center sono solo una manifestazione. La massiccia potenza di fuoco scatenata dagli americani incentiverà senza dubbio simili carneficine indiscriminate per il futuro. L'ingiustizia prospererà. In terzo luogo, definire gli attacchi Usa una guerra, piuttosto che un'azione di polizia, rende ingiusta l'azione. Come scrive Carroll, "...i criminali, non una nazione impoverita, dovrebbero essere i destinatari della punizione".
E' semplicemente inaccettabile per i civili essere massacrati come effetto collaterale di un attacco intenzionale contro un obiettivo specifico. Non c'è differenza tra gli attacchi al Wto, il cui obiettivo principale era la distruzione di un simbolo, e i bombardamenti di obiettivi militari in popolate aree urbane, attuati per vendetta dalla coalizione Usa-Regno unito: entrambi sono criminali. Un massacro è un massacro. Uccidere dei civili, anche se non intenzionalmente, è criminale.
 

Marc W. Herold, Departments of
Economics and Women's Studies, University
of New Hampshire Durham.
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Traduzione di Marina Impallomeni