Pagina 131 ott. 2001

Lettera alle donne invisibili

ADRIANO SOFRI


Gentili donne, avevo l'impressione, e ce l'ho ancora, che non si sentisse abbastanza la vostra voce rispetto alla guerra corrente e alla libertà delle donne. Non delle donne afgane, ma della vostra.
I capi di stato e i primi e i secondi ministri, quando si incontrano, si fanno la foto. Nella foto di Gand, per esempio, ci sono ben due donne, su venticinque. Una è Tarja Halonen, è finlandese, dunque non vale. L'altra è Nicole Fontaine. A volte c'è una donna anche nella foto degli incontri più ristretti: è l'interprete. Nella foto di Shanghai si riconosce la signora Megawati Sukarnoputri, in mezzo a una folla di uomini. Del resto è capitato più spesso di vedere arrivare donne in cima allo Stato là, che da noi: da Indira Gandhi a Benazir Bhutto, o Hasina Wajed del Bangladesh, o la spericolata Tansu Ciller in Turchia. Anche lì, quando ci si felicita con una donna, se ne loda la virilità, come con la signora Thatcher. La giornalista Yvonne Ridley si è conquistata le congratulazioni dei carcerieri taliban: «Lei è un vero uomo».

È il riconoscimento che da sempre, fra ammirazione e spavento, si riserva a Oriana Fallaci: una che ha le palle. E' un fatto che la sfuriata di Fallaci non avrebbe seminato tanto panico se non fosse venuta da una donna, e non fosse stata così intrisa di umori e liquori forti: una che ti dà un calcio nelle palle.
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Anche se si rinunci al luogo comune sull'estraneità femminile alla guerra, la rarità di donne nelle fotografie di gruppo è di per sé una misura di scarsa correità. Guerra, caccia, sono affari maschili. Le pose rivali scelgono con cura la propria scenografia – lo studio con finestra sul traffico stradale per Bush, un presepio grottesco per Bin Laden e i suoi ma si somigliano in questa esclusività maschile, attenuata all'ovest, tassativa all'est. Si capisce che le donne si persuadano più puntualmente di quella specularità che per parte loro certi uomini proclamano – «Né Bush né Bin Laden» per fervore ideologico. Maschio l'uno e l'altro, spiegato e smascherato l'uno dall'altro. Questa idea della specularità dei capi di stato angloamericani e dei capi di banda di Al Qaida, è straordinariamente diffusa nelle (rare) prese di posizione di donne. Anche le più interessanti per me, dall'appello di femministe pubblicato dal Manifesto col titolo (poi sconfessato) "Ma noi non siamo americane", all'articolo della preziosa scrittrice indiana Arundhati Roy. (Ha scritto che Osama Bin Laden «è il segreto di famiglia dell'America. E' la faccia nascosta del suo presidente. Il gemello selvaggio di tutto ciò che si vanta di essere bellezza e civiltà... I gemelli diventano a poco a poco intercambiabili»: frasi belle e assurde). Una sconcertante logica addita l'affinità nella prevalenza maschile, al punto di ignorare la differenza nella condizione femminile.
Differenza enorme, come quella che separa una donna americana o europea da una donna afghana o saudita: donne prigioniere, che non possono decidere di sé, della propria stessa visibilità, e donne libere di disporre di sé, cioè del proprio corpo e della propria gonna. Questa differenza tramuta le donne libere insieme in posta dello scontro fra terrorismo islamista e democrazia capitalista, e in attrici possibili e attuali dello scontro. Le donne libere possono essere la preda sognata del terrorismo nell'eventualità della sconfitta dei "loro" uomini – alla rinfusa, di Bush e Blair, di Schroeder e Berlusconi o le corresponsabili, in un loro modo, della lotta contro gli uomini del fanatismo islamista. La loro "neutralità" da questo conflitto fra maschi è impensabile, perché un fronte del conflitto mira a loro. Direttamente a loro. La loro libertà – ancora così recente e parziale non è assicurata una volta per tutte, neanche per la loro parte di mondo. E' revocabile. Perfino le donne afghane, le iraniane, le algerine, non vivono in una prigionia tradizionale: ebbero una libertà, e l'hanno perduta. Erano evase, e sono state ricatturate.
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Lo scontro viene interpretato in due chiavi del tutto complementari, e invece contrapposte per capriccio. Per qualcuno è guerra di religione, per altri guerra del petrolio (e dell'oppio: economicamente inteso, benché l'oppio sia anche intimo della religione). La predilezione per la spiegazione economica delle cose è tenace e fondata. Questa volta è specialmente complicata. Non deve solo spiegare il successo di un ricco come Bin Laden agli occhi dei diseredati e dei senza scarpe: deve considerarlo come un freddo stratega petrolifero, piuttosto che un ispirato e invasato assassino. E deve riparlare dei poveri come di quelli che non hanno niente da perdere. A parte tutto il resto, i poveri hanno da perdere le loro donne. Cioè la più decisiva delle proprietà materiali, e insieme la più simbolica e "idealista". Fra religione e petrolio, preferisco pensare che sia una guerra per le donne. Il modo di vita occidentale – chiamiamolo così, piuttosto che civiltà, o cultura ha un suo cuore segreto, reso via via manifesto, nella libertà delle donne. Essa trascina il resto, democrazia elettiva compresa, libertà di culto compresa. E compresa la vita dei bambini. E' la libertà delle donne a misurare il destino dei bambini. Dei bambini maschi, altrimenti spinti a diventare apprendisti fanatici, preti guerrieri e picchiatori. Delle bambine, altrimenti addestrate a esser cancellate dall'esistenza civile. La storia della nostra parte di mondo – che si intreccia peraltro da sempre alla storia delle altre parti non riesce più a meritarsi il nome di progresso se non per questo lentissimo e tormentato sprigionarsi della libertà delle donne.
Le donne sono la posta di mutue aggressioni, naturalmente. Gli stupri di massa, malamente detti etnici, nella exJugoslavia ebbero per principali autori miliziani serbi (dunque cristiani ortodossi) e per vittime donne bosniache di nazionalità musulmana.
E' tuttavia innegabile una posizione sottomessa e oscurata della donna nei paesi di tradizione islamica, salve le differenze ingenti fra loro. La constatazione è rafforzata dall'argomento che si invoca per smentirla: cioè il carattere non coranico di costumi e prescrizioni misogine, che sono viceversa preesistenti all'Islam. E' l'argomento addotto a proposito delle mutilazioni genitali femminili, o dell'abbigliamento che occulta la vista della donna. Ma appunto: l'Islam ha spesso incorporato e fissato, quando non indurito, certi costumi tradizionali evidentemente ginofobi, indipendentemente dal Corano, e perfino in contrasto con esso. E' anzi diventato il pretesto per una vera "Riconquista" delle donne: più spettacolosamente nell'Iran della modernizzazione e dell'americanizzazione spinta dei Pahlavi, in cui la "rivoluzione" khomeinista ha ricondotto in cattività le donne iraniane. Altrove la modernità ha trovato e trova ancora nelle religioni organizzate una ostinata resistenza – nella chiesa cattolica specialmente ma è stata più forte. Non mi chiederò qui se una maggiore libertà civica delle donne abbia contribuito al vertiginoso sviluppo scientifico e tecnico dell'Occidente, o se ne sia stata trascinata come una conseguenza inevitabile. Si è scavato da allora l'abisso che oppone nel nuovo millennio le donne prigioniere del burqa e le donne liberate dalla nostra moda.
Alla quale moda verrò subito. Subito dopo aver risposto alla domanda sul discrimine fra ciò che è un imprescindibile diritto di ciascuna persona, dunque irriducibile a qualunque relatività culturale o morale, e ciò che viceversa compete alla bella varietà delle culture. Il discrimine è nell'habeas corpus. Ogni persona, in qualunque latitudine, dev'essere libera di disporre del proprio corpo. In una ingente parte del mondo (non solo islamica) una mera deroga all'uniforme prescritta è oggi una minaccia incombente all'incolumità fisica. Non fu abbastanza apprezzata, due anni fa, la prima concessione dell'asilo politico, negli Stati Uniti, a una donna africana fuggita alla mutilazione genitale.
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L'accostamento fra il burqa e la moda sarebbe stato comunque irresistibile, e per giunta le operazioni militari in Afghanistan sono cominciate insieme alle sfilate. Benedetta Barzini, che è intelligente, ha 58 anni, è bella e ha sfilato per Hermès, si è appena concessa una sciocchezza: «Non c'è differenza tra le occidentali e le afghane. Siamo comunque schiave dell'immagine che l'uomo ha di noi». Ecco, per amore del paradosso, liquidato l'habeas corpus in una battuta. (Oltretutto, l'uomo talebano non ha un'immagine della donna: gli basta cancellarne l'immagine). I sontuosi supplementi femminili di questi giorni hanno fotografie sinottiche a piena pagina, di qua la modella, di là la sepolta nel burqa: specularità. Trasferita dagli uomini – «né Bush né Bin Laden» alle donne delle due parti, che fine fa la specularità? Cestinati i paradossi, il punto di vista femminile mostra i due mondi come antipodi: l'uno vela l'altro svela. La stessa obiezione sulla dipendenza femminile dal giudizio del maschio è irrilevante a questo proposito: perché l'oscuramento delle donne afghane non è, come nell'idea maschile dell'harem, teso a riservare al privato proprietario il godimento delle loro grazie. Esso mortifica semplicemente il corpo della donna, la donna come corpo: lo sopprime. Vuole che se ne vergognino. Dunque l'ovvia ma ingannevole equazione che uno sguardo femminile fa delle parti in guerra – Bush o Bin Laden, è un affare fra maschi <\-> si mostra impensabile quando lo sguardo si volga alle donne delle due parti: a meno che non si voglia insistere su una comunanza di condizione fra donne afghane e americane (e italiane), che è un oltraggio al pudore.
@AR Tondo:Messi via i giochi di specchi che insultano il dolore, si può dare un altro colpetto al caleidoscopio e cambiare ancora visuale. Le telecamere in Pakistan e in Afghanistan hanno nei giorni scorsi mostrato come si vede attraverso la grata del burqa. Bisogna procedere con l'espediente, e immaginare che cosa si vede da lì sotto. Avete visto che ricorso si fa, buffo e drammatico insieme, al travestitismo da burqa per andare in cerca di scoop in Afghanistan: anche da parte di inviati maschi e aitanti. Anche nella nostra parte di mondo noi, giornalisti e no, dovremmo infilarci un burqa e così conciati fare un giro, o anche soltanto leggere i giornali. Chi volesse riscrivere le "Lettere persiane" nella Parigi di oggi, dovrebbe raccontarla da sotto il burqa. Ma non perché un punto di vista valga l'altro.
@AR Tondo:Uomini di chiesa cattolici del periodo che si chiama Controriforma o Riforma cattolica si meritarono una fama di santità battendosi contro la corruzione dei costumi. Santità e sessuofobia vanno assieme: dunque si cominciò dai monasteri femminili, che contenevano molte donne monacate per forza. L'ispirazione riformatrice dei pii vescovi si traduceva, per quelle donne, in una minuziosa persecuzione corporale: capelli rasati (la ciocca di Gertrude, ve la ricordate?), infagottamento rigoroso, divieto di liuti e gatti e galline, silenzio più stretto, grate più fitte, clausura più rigida. Regole di controllo del corpo femminile dettate da uomini maschi –da cui impararono molto le tecniche penitenziarie, che ne avrebbero ereditato le stesse celle. La scienza della prigionia (e della tortura) deve tutto alle donne. La mortificazione della vanità dei corpi femminili trapassava poi nel barocchismo delle esaltazioni religiose: Cosmesi dell'anima, si intitolava un manuale secentesco di direzione spirituale.
Titolo che la dice lunga. C'è quella bella espressione: il pane e le rose. Nelle città assediate ho visto esattamente che non di solo pane vive l'uomo, e soprattutto la donna. Di pane e rossetto: a Sarajevo era il bene più cercato, su guance smunte e bocche sdentate. Nelle vie di Teheran bande di pasdaran – maschi vanesiamente brutti, di una sporcizia e una irsutezza accurate <\-> assaltavano donne per perquisire unghie smaltate e labbra colorite sotto il chador, e bastonarle. Ho letto dei filmati clandestini di donne afghane dell'associazione Rawa: riprendono gesti e luoghi cruciali, le scuole segrete, le esecuzioni con pubblico obbligatorio allo stadio, e le donne che al chiuso dei loro rifugi si pettinano e truccano, si mettono il rossetto. L'altra sera in televisione una signora musulmana protestava contro interlocutori ostili al burqa: «Le donne afghane stanno sotto le bombe non sotto il burqa. Hanno bisogno di pane, non di rossetto...». Tristi frasi, e usurpatrici. Del pane, e del rossetto.
@AR Tondo:I capi politici e militari dell'Occidente sembrano particolarmente prudenti quando si tratta di sollevare presso gli interlocutori afghani o pakistani la questione della libertà delle donne. Hanno capito, o fanno come se avessero capito, che qui è il punto più gelosamente inviolabile della suscettibilità di quelli. Le donne sono proprietà loro. Il risoluto Blair ha pubblicato una lunga lettera aperta, proprio per chiedere ai musulmani se è al modo di Kabul che vorrebbero vivere («Musulmani, vi piace Kabul?») Il testo osserva una singolare discrezione a proposito di donne: un unico inciso finale in cui, in coda a una sequela di altri argomenti, si menziona «un regime che tratta in maniera abominevole le donne, e che denuncia come traditori i musulmani che lavorano all'estero», tutto qui. Nei manifestini lanciati dagli americani sul cielo afghano non uno nomina la condizione di donne e bambine. Si dice bensì: «Capiamo che la vostra tradizione e la vostra cultura sono importanti e desideriamo disturbarvi il meno possibile». Tattica. Temo di non apprezzarla del tutto. Mi pare che l'Occidente dovrebbe far propria la voce delle afghane che si sforzano nei loro esilii di organizzare una resistenza. Nessun negoziato prevede la loro presenza.
@AR Tondo:Fra gli eccessi di zelo dei riconoscimenti alla nobiltà dell'Islam che si moltiplicano con uno spiacevole effetto retorico (surclassati dagli eccessi di zelo opposto) c'è una sottolineatura del rango in cui le donne sono tenute in paesi di tradizione musulmana, e specialmente nell'Iran "riformatore" di Khatami, nelle professioni, nella scuola –iscrizioni universitarie superiori a quelle maschili<\-> ecc. Ma l'Iran è davvero il banco di prova del rapporto fra Islam e modernità. Il regime degli ayatollah ha riportato il paese indietro di secoli, ha rinnegato la sua storia – le statue abbattute furono già un suo vanto <\-> e ha rimesso sotto chiave le donne: donne libere di cultura, viaggi, abiti metropolitani, come a Teheran, o di tradizione popolare, come fra i qashqai e altre genti di villaggi che non avevano mai conosciuto l'impaccio del chador. L'Iran di Khomeini fu la più colossale impresa di riconquista di donne evase che la storia abbia conosciuto. (L'Afghanistan ne è stato un epigono rivale, e l'Algeria uno di aberrante ferocia). Naturalmente, la geopolitica rilutta a riconoscervi l'essenza di quella controrivoluzione: la geopolitica (e l'islamologia) è anch'essa parecchio maschile. La virulenza della rivalità fra sciiti e sunniti (soprattutto l'infinita guerra con l'Iraq: paese arabo, a differenza dell'Iran, e con una leggera maggioranza sciita, esclusa dal potere) fiaccarono l'ambizione khomeinista a capeggiare un'Internazionale islamista. Il regime alleato di mullah e bazari si volse presto in un sistema di parassitismo e corruzione politica. Il "riformismo" crebbe dentro questa rovina, e chiuso nei ceppi di una lotta intestina alla gerarchia "clericale". La riscossa delle donne è cresciuta fuori, nella società civile, e ha dovuto a sua volta accettare pregiudizialmente l'esclusione dall'universo maschile. Donne iraniane hanno trasformato via via la separatezza loro imposta in separatismo coltivato e orgoglioso. Nel loro mondo a parte, si sono guadagnate l'istruzione, giornali fatti da loro per loro, responsabilità politiche delegate, partite di calcio giocate da donne per un pubblico di sole donne: e intanto rosicchiavano lo spazio dei bastonatori, e si conquistavano il loro invisibile rossetto, e una variazione di colore del fazzoletto islamico. Questo Iran in bilico, la sua marea di ragazze e persone giovani, dovrebbe diventare l'alleato strategico dell'Occidente, e del Satana americano per primo: una volta che si ammetta che la politica mondiale (non la chiameremo più "estera", ormai) non dev'essere guidata né dalla fede religiosa né dal culto del petrolio, ma dai diritti e dal loro cuore, la libertà delle donne.
@AR Tondo:Chissà quali sentimenti e pensieri attraversano da noi le donne e le ragazze di cui non si leggono articoli e non si ascolta la voce in televisione. Anche fra le altre un "silenzio" si è fatto notare. Beninteso, molte cose giuste sono state dette, e fatte anche, come un viaggio di Emma Bonino, che usò bene della carica di commissaria europea, e si meritò un arresto dai virtuosi taleban; e promosse poi una manifestazione dal bel titolo "Un fiore per le donne afghane" – a proposito di pane e rossetto. Ho letto un articolo molto bello di Marina Terragni sul Foglio, dopo aver scritto queste note: per un'ultima volta, dice, dobbiamo parlare "a nome delle donne". C'è una decisiva differenza fra chi, per esempio Chiara Saraceno, avverte che questa guerra non venga fatta «solo per autodifesa dell'Occidente, ma per difesa delle donne afghane, perché possano riacquistare volto e voce», e chi, come le firmatarie dell'appello "Non in nostro nome", dichiara che «nel corso della storia, l'uso della forza non ha mai risolto alcun problema, ma solo alterato degli equilibri di potere»: vale, questo, come un giudizio sulla Seconda guerra mondiale? In questo appello – che dichiara di unire donne «con un sofferto mal d'America» e altre «più inclini a leggere nei terribili fatti di Washington e di New York City una sorta di punizione per le tante malefatte dei governi Usa» <\-> si denuncia «lo stesso meccanismo che ha reso possibile la costruzione di un mondo in cui l'unico soggetto riconosciuto e che si pone come universale – attraverso l'esclusione delle donne in quanto "altre" o la loro cancellazione o inglobamento <\-> è quello maschile». Denuncia fondata: ma fino a quando basterà a motivare l'estraneità delle donne, le autrici della denuncia e le altre che a loro modo si sottraggono a quel meccanismo? Ed è secondaria la differenza fra il modo in cui quel meccanismo agisce sulle donne italiane o americane e il modo sulle donne afghane o somale o algerine?
Non ho visto il film Kandahar: i prigionieri non vanno al cinema. Ho visto il bel viso della Niloufar sua protagonista, e ho sentito anche lei abbinare Bush e Bin Laden, «ambedue fascisti». Mi ha colpito che si racconti una storia di sorelle: Antigone che sempre ritorna. Fra le sue mille letture, Antigone può confermare l'idea della contesa fra uomini, e della pietosa estraneità femminile. Ma qui non è questione di fratelli fratricidi e insepolti. Qui c'è un'Antigone scampata in Canada e un'Ismene prigioniera a Kabul. No?
@AR Tondo:Che cosa vede, "in ultima istanza", nell'Occidente, un pakistano, una ragazza del Bangladesh, un ragazzo maghrebino arrivato a Milano, un kamikaze saudita di buona famiglia a Chicago? Le donne, la libertà delle donne. Nelle strade della città, nei programmi televisivi. L'Occidente ambito e disprezzato da tanti suoi stranieri, è la donna. Neanche quella vera: quella delle vetrine. L'Occidente fa molto per rafforzare questi risentimenti, e comunque non fa niente per attenuarli. Dà scandalo, senza porsi problemi. Di tutte le spiegazioni dell'odio inspiegabile che tanta parte di mondo ha covato contro l'America, quella cui richiamerei, tra cospirazioni della Cia e bombardamenti protervi d'alta quota, è il lungo spettacolo del processo a Clinton. Ora Dan Rather dice: «Abbiamo grosse colpe. Abbiamo passato anni a dibattere solo delle macchie sul vestito di una stagista della Casa Bianca». Si vergogna per l'America. Non so se abbia pensato abbastanza a come il terzo e il quarto e quinto mondo hanno mandato per anni i bambini di là, hanno guardato le cento puntate del film delle macchie sul vestito, hanno sghignazzato dell'uomo più potente della terra e hanno disprezzato la sua democrazia. Quando, dopo gli attentati di Dar es Salaam e di Nairobi, Clinton fece bombardare Sudan e Afghanistan, si era nel pieno dell'affare di Monica: il mondo fece presto a interpretare la storia. Il vecchio Bin Laden deve essersi divertito parecchio.