Libertà duratura: guerra in Afghanistan

Il soldato di ventura e il medico afghano

di TIZIANO TERZANI

PESHAWAR - Sono venuto in questa citta' di frontiera per essere piu' vicino alla guerra, per cercare di
vederla coi miei occhi, di farmene una ragione; ma, come fossi saltato nella minestra per sapere se e'
salata o meno, ora ho l'impressione di affogarci dentro. Mi sento andare a fondo nel mare di follia umana
che, con questa guerra, sembra non avere piu' limiti.
Passano i giorni, ma non mi scrollo di dosso l'angoscia: l'angoscia di prevedere quel che succedera' e di
non poterlo evitare, l'angoscia di essere un rappresentante della piu' moderna, piu' ricca, piu' sofisticata
civilta' del mondo ora impegnata a bombardare il Paese piu' primitivo e piu' povero della Terra; l'angoscia
di appartenere alla razza piu' grassa e piu' sazia ora impegnata ad aggiungere nuovo dolore e miseria al
gia' stracarico fardello di disperazione della gente piu' magra e piu' affamata del pianeta. C'e' qualcosa di
immorale, di sacrilego, ma anche di stupido - mi pare - in tutto questo. A tre settimane dall'inizio dei
bombardamenti anglo-americani dell'Afghanistan la situazione mondiale e' molto piu' tesa ed esplosiva di
quanto lo fosse prima. I rapporti fra israeliani e palestinesi sono in fiamme, quelli fra Pakistan e India
sono sul punto di rottura; l'intero mondo islamico e' in agitazione e ogni regime moderato di quel mondo,
dall'Egitto all'Uzbekistan, al Pakistan stesso, subisce la montante pressione dei gruppi fondamentalisti.
Nonostante tutti i missili, le bombe e le operazioni segretissime dei commandos, mostrateci in piccoli
spezzoni del Pentagono, come per farci credere che la guerra e' solo un videogame, i talebani sono ancora
saldamente al potere, la simpatia nei loro confronti cresce all'interno dell'Afghanistan, mentre diminuisce
invece in ogni angolo del mondo il senso della nostra sicurezza.
"Sei musulmano?", mi chiede un giovane quando mi fermo al bazar a mangiare una focaccia di pane azzimo.
"No".
"Allora che ci fai qui? Presto vi ammazzeremo tutti".
Attorno tutti ridono. Sorrido anch'io.
Lo chiamano Kissa Qani, il "bazar dei raccontastorie". Ancora una ventina d'anni fa, era uno degli ultimi,
romantici crocevia dell'Asia pieno delle piu' varie mercanzie e varie genti. Ora e' una sorta di camera a
gas con l'aria irrespirabile per le esalazioni e le folle sempre piu' in mal arnese a causa dei tantissimi
rifugiati e mendicanti. Fra le vecchie storie che ci si raccontavano c'era quella di Avitabile, un napoletano
soldato di ventura arrivato qui a meta' dell'Ottocento con un amico di Modena e diventato governatore di
questa citta'. Per tenerla in pugno, ogni mattina all'ora di colazione faceva impiccare un paio di ladri dal
minareto piu' alto della moschea e per decenni ai bambini di Peshawar e' stato detto:
"Se non sei buono, ti do ad Avitabile".
Oggi le storie che si raccontano al bazar sono tutte sulla guerra americana.
Alcune, come quella secondo cui l'attacco a New York e Washington e' stato opera dei servizi segreti di
Tel Aviv - per questo nessun israeliano sarebbe andato a lavorare nelle Torri Gemelle l'11 settembre -, e
quella secondo cui l'antrace per posta e' una operazione della Cia per preparare psicologicamente gli
americani a bombardare Saddam Hussein, sono gia' vecchie, ma continuano a circolare e soprattutto a
essere credute. L'ultima e' che gli americani si sarebbero resi conto che con le bombe non riescono a
piegare l'Afghanistan e hanno ora deciso di lanciare sacchi pieni di dollari sulla gente. "Ogni missile costa
due milioni di dollari. Ne hanno gia' tirati piu' di cento. Pensa: se avessero dato a noi tutti quei soldi, i
talebani non sarebbero piu' al potere", dice un vecchio rifugiato afghano, ex comandante di un gruppo di
mujaheddin anti-sovietici, venuto a sedersi accanto a me.
L'idea che gli americani son pieni di soldi e disposti a essere generosi con chi sia disposto a schierarsi
dalla loro parte e'
diffusissima. Giorni fa alcune centinaia di capi religiosi e tribali della comunita' afghana in esilio si sono
riuniti in un grande
anfiteatro nel centro di Peshawar per discutere del futuro dell'Afghanistan "dopo i talebani". Per ore e
ore dei bei, barbutissimi signori - ottimi per i primi piani delle televisioni occidentali - si sono avvicendati
al microfono a parlare di "pace e
unita", ma nei loro discorsi non c'era alcuna passione, non c'era alcuna convinzione. "Son qui solo per
registrare il loro nome e cercare di raccogliere fondi americani", diceva un vecchio amico, un intellettuale
pakistano, di origine pashtun come quella gente.
"Ognuno guarda l'altro chiedendosi "e tu quanto hai gia' avuto?".
Quel che gli americani dimenticano e' un nostro vecchio proverbio: un afghano si affitta, ma non si
compra".
Per gli americani la riunione di Peshawar era il primo importante passo per quella che, sulla carta, pareva
loro la ideale soluzione politica del problema afghano: far tornare il re Zahir Shah, installare a Kabul un
governo in cui tutti fossero rappresentati - compresi alcuni capi talebani moderati - e mandare l'esercito
del nuovo regime a caccia degli uomini di Al Qaeda, risparmiando cosi' il lavoro e i rischi ai soldati della
coalizione.
Ma le soluzioni sulla carta non sempre funzionano sul terreno, specie quando questo terreno e'
l'Afghanistan.
Gia' l'idea che il vecchio re del passato, in esilio a Roma da trent'anni, possa ora giocare un ruolo nel
futuro del paese e' una
illusione di chi crede di poter rifare il mondo a tavolino, e' una pretesa di quei diplomatici che non escono
dalle loro stanze ad aria condizionata. Basta andare fra la gente per rendersi conto che il vecchio sovrano
non gode di quel prestigio che le cancellerie occidentali - specie quella italiana - gli attribuiscono e che il
suo non essersi mai fatto vedere, il suo non aver mai visitato un campo di rifugiati viene preso come una
indicazione di indifferenza per la sofferenza del suo popolo. "Bastava che al tempo dell'invasione
sovietica si fosse fatto fotografare con un fucile in mano ed avesse sparato un colpo in aria. Oggi lo
rispetterebbero - dice l'amico -... e poi, poteva almeno l'anno scorso essere andato in pellegrinaggio alla
Mecca, il che, coi tempi che corrono, gli avrebbe dato un po' di rilievo anche dal punto di vista religioso".
A parte il re, l'altro uomo su cui gli americani contavano per il loro gioco era Abdul Haq, uno dei piu'
prestigiosi comandanti della resistenza anti-sovietica, tenutosi poi fuori dalla guerra civile che segui'.
"Non e' qui. E' andato in Afghanistan" si diceva durante la conferenza di Peshawar, alludendo ad una
"missione" che sarebbe stata decisiva per il futuro. L'idea ovvia era che Abdul Haq, col suo prestigio e il
suo grande ascendente sui tanti vecchi mujaheddin alleatisi coi talebani, avrebbe staccato dal regime del
Mullah Omar alcuni comandanti regionali e avrebbe potuto marciare su Kabul alla testa di gruppi pashtun
quando la capitale fosse stata presa dalla Alleanza del Nord, che i pashtun ed i pakistani non vogliono
assolutamente vedere al potere.
La "missione" di Abdul Haq non e' durata a lungo. I talebani lo hanno seguito appena quello e' entrato in
Afghanistan, dopo alcuni giorni lo hanno catturato e nel giro di poche ore lo hanno giustiziato come un
"traditore" assieme a due suoi seguaci. Gli americani con tutta la loro attrezzatura elettronica ed i loro
super-elicotteri non sono riusciti a salvarlo.
Il presupposto di tutta questa manovra americana per una soluzione politica era comunque che il regime
dei talebani si sfaldasse, che sotto la pressione delle bombe cominciassero le defezioni e che nel paese si
creasse un vuoto di potere. Ma tutto questo non e' successo.
Anzi. Ogni indicazione e' che i talebani sono ancora fermamente in carica. Catturano giornalisti occidentali
che siavventurano oltre la frontiera e fanno sapere, per scoraggiare altri tentativi, di non avere piu'
spazio, ne' cibo per detenerne altri. "Le varie inchieste sono in corso. Verranno tutti giudicati secondo la
sharia, la legge coranica", dicono, come farebbe un qualsiasi stato sovrano. I talebani passano decreti,
fanno comunicati per smentire notizie false e continuano a sfidare la strapotenza americana non cedendo
terreno e promettendo morte agli afghani che si schierano con il nemico.
Non solo. Il fatto che i talebani siano ora attaccati da degli stranieri, fa si' che anche chi aveva poca o
nessuna simpatia per il loro regime, ora si schiera dalla loro parte. "Quando un melone vede un altro
melone, ne prende il colore", dicono i pashtun. Dinanzi agli stranieri, visti di nuovo come invasori, gli
afghani diventano sempre piu' dello stesso colore.
Per gli americani, gia' sotto enorme pressione internazionale per la stupidita' delle loro bombe intelligenti
che continuano a cadere su gente inerme e di nuovo sui magazzini della Croce Rossa, la guerra aerea s'e'
rivelata un completo fallimento, quella politica uno smacco.
Avevano cominciato la campagna afghana dicendo di volere Osama Bin Laden, "vivo o morto", e hanno
presto ripiegato sul voler catturare o uccidere il Mullah Omar, capo dei talebani, sperando che questo
avrebbe fatto vacillare il regime, ma finora quel che son riusciti a fare, oltre a qualche centinaio di vittime
civili, e' terrorizzare la popolazione delle citta' gia' ridotte a macerie. Le Nazioni Unite calcolano che le
bombe hanno fatto fuggire da Kandahar, Kabul e Jalalabad il 75% degli abitanti.
Questo vuol dire che almeno un milione e mezzo di persone sono ora senza tetto, si aggirano nelle
montagne del paese e si aggiungono ai sei milioni che, sempre secondo le Nazioni Unite, erano gia' "a
rischio" per mancanza di cibo e protezione prima dell'11 settembre.
"Quelli sono gli innocenti di cui dobbiamo occuparci - dice un funzionario internazionale -. Quelli che non
hanno nulla a che fare col terrorismo, quelli che non leggono i giornali, che non guardano la Cnn. Molti di
loro non sanno neppure che cosa e' successo alle Torri Gemelle".
Quel che tutti sanno invece e' che bombe, le bombe che giorno e notte distruggono, uccidono e scuotono
la terra come in un costante terremoto, le bombe sganciate dagli aerei d'argento che piroettano nel cielo
di lapislazzulo dell'Afghanistan, sono bombe inglesi e americane e questo coagula l'odio dei pashtun, degli
afghani e piu' in generale dei musulmani contro gli stranieri. Ogni giorno di piu' l'ostilita' e' ovvia sulla
faccia della gente.
Ero andato al bazar perche' volevo vedere quanti avrebbero partecipato alla manifestazione pro-talebani
che si tiene di routine nella vecchia Peshawar dopo la preghiera di mezzo giorno, ma l'amico pashtun mi
aveva avvertito che il numero dei dimostranti non vuol dire ormai nulla. "I duri non marciano piu', si
arruolano. Vai nei villaggi", m'aveva detto.
L'ho fatto e per un giorno e una notte, in compagnia di due studenti universitari che in quella regione
sembrava conoscessero tutti e tutto, ho gettato uno sguardo su un mondo la cui distanza dal nostro non e'
misurabile in chilometri, ma in secoli: un mondo che dobbiamo capire a fondo se vogliamo evitare la
catastrofe che ci sta davanti.
La regione in cui sono stato e' a due ore di macchina da Peshawar, a mezza strada dal confine
afghano-pakistano. Per le popolazioni di qui la frontiera - anche quella stabilita a tavolino oltre cento anni
fa da un funzionario inglese - non esiste.
Dall'una e dall'altra parte di quella innaturale divisione politica fra identiche montagne vive un'identica
gente: i pashtun (detti anche pathan) che in Afghanistan sono la maggioranza, in Pakistan una minoranza. I
pashtun, prima che afghani o pakistani, si sentono pashtun e il sogno di un Pashtunstan, uno stato che
aggreghi tutti i pashtun non e' mai completamente tramontato. I pashtun sono i temuti guerrieri
dell'Afghanistan; sono loro che gli inglesi non riuscirono mai a sconfiggere. "Un pashtun ama il suo fucile
piu' di suo figlio - dicevano dei loro nemici gli ufficiali di Sua Maesta' -.
Coraggiosi come leoni, selvaggi come gatti, ingenui come bambini". I talebani sono pashtun e quasi
esclusivamente pashtun sono le zone in cui ora cadono le bombe americane.
"Mio padre e' sempre stato un liberale e un moderato, ma dopo i bombardamenti anche lui parla come un
talebano e sostiene che non c'e' alternativa alla jihad", diceva uno dei miei studenti, mentre lasciavamo
Peshawar.
La strada correva fra piantagioni di canna da zucchero. In lontananza le prime montagne. Sui muri bianchi
che dividono i campi, spiccavano grandi slogan dipinti di fresco. "La jihad e' il dovere della nazione", "Un
amico degli americani e' untraditore", "La jihad durera' fino al giorno del giudizio". Il piu' strano era: "Il
profeta ha ordinato la jihad contro l'India e l'America".Nessuno qui si chiede se al tempo del Profeta,
mille e quattrocento anni fa, l'India e l'America esistessero gia'. Ma e' appunto questa accecante mistura
di ignoranza e di fede a essere esplosiva ed a creare, attraverso la piu'semplicistica e fondamentalista
versione dell'Islam, quella devozione alla guerra e alla morte con cui abbiamo deciso, forse un po' troppo
avventatamente, di venirci a confrontare.
"Quando uno dei nostri salta su una mina o viene dilaniato da una bomba, prendiamo i pezzi che restano, i
brandelli di carne, le ossa rotte, mettiamo tutto nella stoffa di un turbante e seppelliamo quel fagotto li',
nella terra. Noi sappiamo morire, ma gli americani? Gli inglesi? Sanno morire cosi'?". Dal fondo della
stanza un altro uomo barbuto, ricordandosi da dove,presentandomi, ho detto di venire, apre un giornale in
Urdu e ad alta voce legge una breve notizia in cui si dice che anche l'Italia si e' offerta di mandare navi e
soldati e il mio interlocutore personalizza la sua sfida: "...e voi italiani allora? Siete pronti a morire cosi'?
Perche' anche voi venite qui a uccidere la nostra gente, a distruggere le nostre moschee? Che direste se
noi venissimo a distruggere le vostre chiese, se venissimo a radere al suolo il vostro Vaticano?". Siamo in
una
sorta di rudimentalissimo ambulatorio in un villaggio a qualche decina di chilometri dal confine afghano.
Negli scaffali polverosi ci sono delle polverose medicine; al muro una bandiera verde e nera con al centro
un sole in cui e' scritto "Jihad". Attorno al "dottore" che mi parla si sono riuniti una decina di giovani:
alcuni sono veterani della guerra, altri ci stanno per andare. Uno e' appena tornato dal fronte e racconta
dei bombardamenti.
Dice che gli americani sono codardi perche' sparano dal cielo, scappano e non osano combattere faccia a
faccia. Dice che il Pakistan impedisce ai profughi di entrare nel paese e che tanti civili, feriti nei
bombardamenti di Jalalabad, muoiono ora dall'altra parte del confine per mancanza delle piu' semplici
cure.
L'atmosfera e' tesa. Qui, ancora piu' che al bazar, tutti sono assolutamente convinti che quella in corso e'
una grande congiura-crociata dell'Occidente per distruggere l'Islam, che l'Afghanistan e' solo il primo
obbiettivo e che l'unico modo di
resistere e' per tutto il mondo islamico di rispondere all'appello per la guerra santa. "Vengano pure gli
americani, cosi' ci potremo procurare delle buone scarpe, togliendole ai cadaveri - dice uno dei giovani - a
voi la guerra costa tantissimo. A noi nulla. Non sconfiggerete mai l'Islam".
Cerco di spiegare che la guerra in corso e' contro il terrorismo, non l'Islam, cerco di dire che
l'obbiettivo della coalizione internazionale guidata dagli americani non sono gli afghani, ma Osama Bin
Laden ed i talebani che lo proteggono.
Non convinco nessuno. "Io non so chi sia Osama - dice il "dottore" - non l'ho mai incontrato, ma se Osama
e' nato a causa delle ingiustizie commesse in Palestina ed in Iraq, sappiate che le ingiustizie ora commesse
in Afghanistan faranno nascere tanti, tanti altri Osama".
Di questo sono convinto e la prova e' dinanzi ai miei occhi: l'ambulatorio e' un centro di reclutamento per
la jihad, il "dottore" e' il capo di un gruppo di venti giovani che domani partira' per l'Afghanistan. Ognuno
portera' con se' un'arma, del cibo e del danaro. In ogni villaggio ci sono gruppi cosi'. Il "dottore" parla di
alcune migliaia di mujaheddin che da questa regione, formalmente in Pakistan, stanno per andare a
combattere a fianco dei Talebani.
L'addestramento? Tutti, dice il "dottore", han fatto due mesi per imparare l'uso delle armi e delle
tecniche di guerriglia.
Ma quel che conta e' l'istruzione religiosa ricevuta nella tante piccole scuole coraniche, le madrasse,
sparse nella campagna. Mi han portato a visitarne una. Disperante.Seduti per terra, davanti a dei
tavolinetti di legno, una cinquantina di bambini - c'erano anche alcune bambine - dai tre ai dieci anni, tutti
pallidi, magri e consunti, cantilenavano senza interruzione i versetti del Corano. Nella loro lingua? No, in
arabo che nessuno sa.
"Sanno pero' che chi riesce a imparare tutto il Corano a memoria lui e tutta la sua famiglia andranno in
paradiso per sette generazioni!", mi ha spiegato il giovane barbuto che faceva da istruttore.Trentacinque
anni, sposato con cinque figli, ammalato di cuore, fratello del capo della locale moschea, diceva che
nonostante le sue condizioni di salute, anche lui sarebbe andato a combattere.
Aspettava solo che gli americani scendessero dai loro aerei e si facessero vedere al suolo. "Se non
smettono di bombardare costituiremo piccole squadre di uomini che andranno a mettere bombe e a
piantare la bandiera dell'Islam in America. Se verranno presi dall'Fbi si suicideranno", diceva con un
sorriso invasato.
A parte la memorizzazione del Corano le madrasse insegnano poco o nulla, ma per le famiglie povere della
regione quella, pur miserissima, e' l'unica educazione possibile. Il risultato sono i giovani che oggi vanno
alla jihad e il crescente potere che i mullah, ugualmente ignoranti e ottusi, hanno sulla popolazione delle
campagne grazie al loro monopolio sulla religione e sui fondi dei paesi musulmani come l'Arabia Saudita.
Dovunque ci siamo fermati in quelle ore non ho sentito che discorsi carichi di fanatismo, di superstizione,
di certezze fondate sull'ignoranza. Eppure sentendo parlare questa gente, mi chiedevo quanto anche noi,
pur colti e rimpinzati di conoscenze, siamo pieni di preteso sapere, quanto anche noi finiamo per credere
alle bugie che ci raccontiamo.
A sette settimane degli attacchi in America le prove che ci erano state promesse sulla colpevolezza di
Osama Bin Laden, e di riflesso dei talebani, non ci sono state ancora date, eppure quella colpevolezza e'
ormai data per scontata. Anche noi ci facciamo illudere dalle parole e abbiamo davvero creduto che la
prima operazione delle forze speciali americane in Afghanistan era intesa a trovare il centro di comando
dei talebani, senza pensare che, come dice il mio amico pashtun "quel centro non esiste o e' al massimo una
capanna di fango con un tappeto da preghiera e qualche piccione viaggiatore, ora che i talebani non
possono piu' usare le loro radioline facilmente intercettabili dagli americani".
E non e' il fanatismo di questi fondamentalisti, simile al nostro arrogante credere che abbiamo una
soluzione per tutto? Non e' la loro cieca fede in Allah, pari alla nostra fede nella scienza, nella tecnica,
nella abilita' di mettere la natura al nostro servizio? E' con queste certezze che andiamo oggi a
combattere in Afghanistan con i mezzi piu' sofisticati, gli aerei piu' invisibili, i missili piu' lungimiranti e
le bombe piu' "ammazzauomo" per rifarci di un atto di guerra commesso da qualcuno armato solo di
tagliacarte e di una ferma determinazione a morire.
Come non rendersi conto che per combattere il terrorismo siamo venuti a uccidere innanzitutto degli
innocenti e con cio' ad aizzare ancor piu' un cane che giaceva? Come non vedere che abbiamo fatto un
passo nella direzione sbagliata, che siamo entrati in una palude di sabbie mobili e che con ogni altro passo
finiremo solo per allontanarci sempre di piu' dalla via di uscita? Dopo la conversazione con i fanatici della
jihad, quella fra me e me e' continuata per il resto della notte, passata insonne a tenermi lontano le
zanzare. Certo che non e' invidiabile una societa' come quella che produce dei ragazzi cosi' ottusi e
disposti a morire. Ma lo e' forse la nostra? Lo e' quella americana? Che accanto agli eroici pompieri di
Manhattan, produce anche gente come il bombarolo di Oklahoma City, gli attentatori alle cliniche abortiste
e forse anche quelli che - il sospetto cresce - mettono l'antrace nelle buste spedite a mezzo mondo?
Quella su cui avevo appena gettato uno sguardo era una societa' carica d'odio. Ma e' da meno la nostra
che ora, per vendetta o magari davvero per mettere le mani sulle riserve naturali dell'Asia Centrale,
bombarda un paese che vent'anni di guerra han gia' ridotto ad una immensa rovina? Possibile che per
proteggere il nostro modo di vivere, si debbano fare milioni di rifugiati, si debbano far morire donne e
bambini? Per favore, vuole spiegarmi qualcuno esperto in definizioni, che differenza c'e' fra l'innocenza
di un bambino morto nel World Trade Center e quella di uno morto sotto le bombe a Kabul?
La verita' e' che quelli di New York, sono i "nostri" bambini, quelli di Kabul invece, come gli altri centomila
bambini afgani che, secondo l'Unicef, moriranno quest'inverno se non arrivano subito dei rifornimenti,
sono i bambini "loro". E quei bambini loro non ci interessano piu'. Non si puo' ogni sera, all'ora di cena,
vedere sullo schermo della tv di casa un piccolo moccioso afghano che aspetta di avere una pagnotta. Lo si
e' gia' visto tante volte; non fa piu' spettacolo. Anche a questa guerra ci siamo gia' abituati. Non fa piu'
notizia e i giornali richiamano i loro corrispondenti, le televisioni riducono i loro staff, tagliano sui
collegamenti via satellite dai tetti degli alberghi a cinque stelle di Islamabad. Il circo va altrove, cerca
altre storie, l'attenzione e' gia' stata anche troppa.
Eppure l'Afghanistan ci perseguitera' perche' e' la cartina di tornasole della nostra immoralita', delle
nostre pretese di civilta', della nostra incapacita' di capire che la violenza genera solo violenza e che solo
una forza di pace e non la forza delle armi puo' risolvere il problema che ci sta dinanzi.

"Le guerre cominciano nella mente degli uomini ed e' nella mente degli uomini che bisogna costruire la
difesa della pace", dice il preambolo della costituzione dell'Unesco.
Perche' non provare a cercare nelle nostre menti una soluzione che non sia quella brutale e banale di altre
bombe e di altri morti?
Abbiamo sviluppato una grande conoscenza, ma non appunto quella della nostra mente, e ancor meno quella
della nostra coscienza, mi dicevo insonne tentando sempre di scacciare le zanzare.
La notte e' fortunatamente breve. Alle quattro la voce metallica di un altoparlante comincia a salmodiare
dall'alto di un minareto vicino; altre rispondono in lontananza.
Partiamo.
Nella hall dell'albergo dove arrivo a fare colazione e' gia' accesa la televisione. La prima notizia, all'alba,
non e' piu' la guerra in Afghanistan, ma l'annuncio fatto a Washington del "piu' grande contratto di
forniture belliche nella storia del mondo".
Il Pentagono ha deciso di affidare alla Lockheed Martin la costruzione della nuova generazione di
sofisticatissimi aerei da caccia: 3.000 pezzi per un valore iniziale di 200 miliardi di dollari. Gli aerei
entreranno in funzione nel 2012.
Per bombardare chi? Mi chiedo. Penso ai ragazzini della madrassa che nel 2012 avranno giusto vent'anni e
mi torna in mente una frase dell'invasato "dottore": "Se gli americani vogliono combatterci per quattro
anni, noi siamo pronti, se vogliono farlo per 40 anni siamo pronti. Per 400, siamo pronti".
E noi? Questo e' davvero il momento di capire che la storia si ripete e che ogni volta il prezzo sale.