QUEL GIORNO, TRA I SEGUACI DI BIN LADEN
Per loro quello delle armi non è
un mestiere ma una missione. La civiltà
musulmana, un tempo grande e temuta,
si sente ora sempre più
marginalizzata, umiliata e offesa dallo
strapotere dell' Occidente. L'
Islam è una grande e inquietante
religione con una sua tradizione di
atrocità e di delitti (come tante
altre fedi peraltro) ma è assurdo
pensare che si possa cancellarla dalla
faccia della Terra
Terzani Tiziano
QUEL GIORNO, TRA I SEGUACI DI BIN LADEN
Il mondo non è più quello che conoscevamo, le nostre vite
sono definitivamente cambiate. Forse questa è l'
occasione per pensare diversamente da come abbiamo fatto finora, l'
occasione
per reinventarci il futuro e non rifare il cammino che ci ha portato
all' oggi
e potrebbe domani portarci al nulla. Mai come ora la sopravvivenza
dell' umanità
è stata in gioco. Non c' è niente di più pericoloso
in una guerra - e noi ci
stiamo entrando - che sottovalutare il proprio avversario, ignorare
la sua
logica e, tanto per negargli ogni sua possibile ragione, definirlo
un «pazzo».
Ebbene, la Jihad islamica, quella rete clandestina e internazionale
che fa ora
capo allo sceicco Osama Bin Laden e che, con ogni probabilità,
ha avuto la mano
nell' allucinante attacco-sfida agli Stati Uniti, è tutt' altro
che un fenomeno
di «pazzia» e, se vogliamo trovare una via d' uscita dal
tunnel di sgomento in
cui ci sentiamo gettati, dobbiamo capire con chi abbiamo a che far
e e perché.
Nessun giornalista occidentale è riuscito a passare del tempo
con Bin Laden e a
osservarlo da vicino, ma alcuni hanno potuto avvicinare e ascoltare
la sua
gente. A me capitò, nel 1996, di passare una giornata in uno
dei campi di
addestramento che lui finanziava al confine fra il Pakistan e l' Afghanistan.
Ne uscii sgomento e impaurito. Per tutto il tempo in mezzo ai mullah,
duri e
sorridenti, e tanti giovani dagli sguardi freddi e sprezzanti, mi ero
sentito un
appestato, il portatore di un qualche morbo da cui non mi ero mai sentito
affetto. Ai loro occhi la mia malattia era semplicemente il mio essere
occidentale, rappresentante di una civiltà decadente, materialista,
sfruttatrice, insensibile ai valori universali dell' Islam. Ho visto
i seguaci
di Bin Laden Duri, sprezzanti, senza dubbi Dobbiamo capire con chi
abbiamo a che
fare per trovare una via d' uscita Avevo provato sulla pelle la conferma
che,
con la caduta del muro di Berlino e la fine del comunismo, la sola
ideologia
ancora determinata ad opporsi al Nuovo Ordine, che, con l' America
in testa,
prometteva pace e prosperità al mondo globalizzato, era quella
versione
fondamentalista e militante dell' Islam. L' avevo intuito per la prima
volta
viaggiando nelle re pubbliche musulmane dell' Asia Centrale ex sovietica
e l'
avevo sentito con la stessa precisione incontrando i guerriglieri anti-indiani
nel Kashmir e intervistando uno dei loro capi spirituali che mi salutò
dandomi
in regalo una copia del Corano - l a mia prima - perché ci «imparassi
qualcosa».
Vedendo e rivedendo, allibito come tutti, le immagini degli aerei che
si
schiantavano facendo una carneficina nel centro di New York, così
come nei
giorni prima leggendo le notizie degli uomini-bomba palestinesi che
si facevano
saltare in aria mietendo vittime per le strade di Israele, mi tornavano
in mente
quei giovani di varie nazionalità, ma di una unica, ferma fede,
che avevo visto
in quel campo di addestramento: erano gente di un altro pianeta, di
un altro
tempo, gente che «crede» come noi stessi abbiamo saputo
fare in passato, ma non
sappiamo più, gente che considera il sacrificio della propria
vita per una causa
«giusta» come una cosa «santa». Quei giovani
erano d' una pasta che noi abbia mo
difficoltà ad immaginare: indottrinati, abituati ad una vita
spartanissima,
ritmata da una stretta routine di esercizi, studio e preghiere, una
vita tutta
disciplina, senza donne prima del matrimonio, senza alcol, senza droghe.
Per Bin
Laden e la sua gente quello delle armi non è un mestiere, è
una missione che ha
radici nella fede acquisita nell' ottusità delle scuole coraniche,
ma
soprattutto nel profondo senso di scacco e di impotenza, nell' umiliazione
di
una civiltà - quella musulmana - un tempo grande e temuta, che
si vede ora
sempre più marginalizzata e offesa dallo strapotere e dall'
arroganza dell'
Occidente. E' un problema che varie altre civiltà hanno dovuto
affrontare nel
corso dei due secoli passati. Quell' umiliazione la provarono i cinesi
davanti
«alle barbe rosse» degli inglesi che imposero loro il commercio
dell' oppio, la
provarono i giapponesi davanti alle «navi nere» dell' ammiraglio
americano Perry
che voleva aprire il Giappone al commercio. La prima reazione fu di
smarrimento.
Come poteva la loro civiltà, di gran lunga superiore a quella
degli
stranieri-invasori, essere messa al muro e resa così impotente?
I cinesi
cercarono una soluzione innanzitutto con un ritorno alla tradizione
(la rivolta
dei Boxer), poi imboccando la via della modernizzazione di stile sovietico
e
ultimamente di stile occidentale. I giapponesi, già alla fine
dell' Ottocento,
fecero questo salto tutto in una volta, mettendosi a imitare ossessivamente
tutto ciò che era occidentale, copiando le uniformi degli eserciti
europei, l'
architettura delle nostre stazioni e imparando a ballare il valzer.
Occidente
diabolico Questo problema del come sopravvivere al confronto con l'
Occidente,
mantenendo una propria identità, si è posto ovviamente
nel Novecento anche per i
musulmani e anche nel loro caso le risposte hanno oscillato fra il
rifugio nel
tradizionale, come nel caso dello Yemen o dei Wahabi, e varie forme
di
occidentalizzazione: la più ardita e radicale è stata
quella attuata in Turchia
da Kemal Ataturk il quale negli anni Venti, riscrivendo la Costituzione,
togliendo il velo alle donne, sostituendo la legge islamica con una
copia del
codice civile svizzero e una di quello penale italiano, mise il suo
Paese sulla
strada che oggi sta portando Istanbul, pur con qualche sussulto, a
diventare
parte della Comunità Europea. Per i fondamentalisti questa occidentalizzazione
del mondo islamico è un anatema e mai come ora questo processo
minaccia ai loro
occhi la sua identità. Secondo loro, con la fine della Guerra
Fredda l'
Occidente ha scoperto le sue carte e sempre più chiaro appare
il progetto - per
loro «diabolico» - di incorporare l' intera umanità
in un unico sistema globale
che, grazie alla tecnologia in suo possesso, dia all' Occidente l'
accesso e il
controllo di tutte le risorse del mondo, comprese quelle che il Creatore
- non a
caso, secondo i fondamentalisti - ha messo nelle terre dove è
nato e si è esteso
l' Islam: dal petrolio del Medio Oriente a l legname delle foreste
indonesiane.
Guerra agli Usa E' solo negli ultimi dieci anni che questo fenomeno
della
globalizzazione, o meglio della americanizzazione, si è rivelato
nella sua
ampiezza. Ed è esattamente nel 1991 che Bin Laden, fino allora
un protegé degli
americani (il suo primo lavoro in Afghanistan fu quello di costruire
per la Cia
i grandi bunker sotterranei per lo stoccaggio delle armi destinate
ai
mujaheddin), si rivolta contro Washington. Lo stazionamento di truppe
americane
nel suo Paese, l' Arabia Saudita, durante e dopo la guerra del Golfo,
gli parve
un insopportabile affronto e una violazione della santità dei
luoghi sacri dell'
Islam. La posizione di Osama Bin Laden divenne chiara nel 1996 quando
lanciò la
sua prima dichiarazione di guerra contro gli Stati Uniti: «Le
pareti di
oppressione e umiliazione non possono essere abbattute che con una
grandine di
pallottole». Nessuno lo prese molto sul serio. Ancora più
esplicito fu il
manifesto della sua organizzazione, Al Qaeda, reso noto nel 1998 dopo
una
riunione dei vari gruppi associati a Bin Laden. «Da sette anni
gli Stati Uniti
occupano le terre dell' Islam nella penisola araba, saccheggiando le
nostre
ricchezze, imponendo la loro volontà ai nostri governanti, terrorizzando
i
nostri vicini e usando le loro basi militari nella penisola per combattere
i
popoli musulmani vicini». L' appello rivolto a tutti i musulmani
fu quello di
«confrontare, combattere e uccidere» gli americani. L'
obiettivo dichiarato di
Bin Laden è la liberazione del Medio Oriente. Quello sognato
in nome dell'
eroico passato è forse molto più vasto. I primi attacchi
della jihad sono
sferrati contro le ambasciate americane in Africa e provocano decine
e decine di
morti. Washington risponde bombardando le basi di Bin Laden in Afghanistan
e
una fabbrica di medicinali in Sudan provocando centinaia, altri dicono
migliaia
di vittime civili (il numero esatto non fu mai accertato perché
gli Stati Uniti
bloccarono un' inchiesta dell' Onu sull' incidente). La controrisposta
di Bin
Laden è venuta ora a New York e a Washington. Non potendo colpire
i piloti dei
B-52 che sganciano le loro bombe da altezze irraggiungibili, né
arrivare ai
marinai che lanciano i loro missili dalle navi al largo, la soluzione
è quella
terroristica di attaccare masse di civili indifesi. Le azioni di questi
uomini
sono atroci, ma non sono gratuite, sono atti di guerra, una guerra
che da tempo
non è più quella cavalleresca, una guerra in cui il bombardamento
di
popolazioni inermi è già stato un fenomeno comune a tutti
i belligeranti dell'
ultimo conflitto mondiale, da quello dei V2 tedeschi su Londra, al
bombardamento
atomico di Hiroshima e Nagasaki col suo bilancio di oltre duecentomila
morti:
tutti civili. Da tempo ormai si combattono con mezzi e metodi nuovi
guerre non
dichiarate, lontano dagli occhi del mondo che si illude oggi di vedere
e capire
tutto solo perché assiste in diretta al crollo delle Torri Gemelle.
Dal 1983 gli
Stati Uniti hanno bombardato a più riprese nel Medio Oriente
Paesi come il
Libano, la Libia, l' Iran e l' Irak. Dal 1991 l' embargo imposto dagli
Stati
Uniti all' Irak di Saddam Hussein dopo la guerra del Golfo ha fatto,
secondo
stime americane, circa mezzo milione di morti, molti dei quali bambini
a causa
della malnutrizione. Cinquantamila morti all' anno sono uno stillicidio
che
certo genera in Irak e in chi si identifica con l' Irak una rabbia
simile a
quella che l' ecatombe di New York ha generato nell' America e di conseguenza
anche in Europa. Importante è capire che fra queste due rabbie
esiste un legame.
Ciò non significa confondere le vittime coi boia, significa
solo rendersi conto
che, se vogliamo capire il mondo in cui siamo, lo dobbiamo vedere nel
suo
insieme e non solo dal nostro punto di vista. Non si può capire
quel che ci sta
succedendo solo a sentire le dichiarazioni dei politici, costretti
come sono a
ripetere formule retoriche, condizionati a reagire alla vecchia maniera
a una
situazione completamente nuova e incapaci di ricorrere alla fantasia
per
suggerire ad esempio che, invece di fare la guerra, questo è
il momento di fare
finalmente la pace, a cominciare da quella fra israeliani e palestinesi.
Invece
guerra sarà. In queste ore una strana coalizione si sta mettendo
in moto
attraverso gli automatismi di trattati nati per un fine e ora usati
per un altro
e attraverso l' adesione di Paesi come la Cina, la Russia e forse anche
l'
India, ognuno spinto dai propri interessi strettamente nazionalistici.
Per la
Cina la guerra mondiale contro il terrorismo è una buona occasione
per cercare
di risolvere i suoi vecchi problemi con le popolazioni islamiche nei
suoi
territori di confine. Per la Russia di Putin è un' occasione
p er risolvere
innanzitutto il problema della Cechnya e mettere a tacere tutte le
accuse per le
spaventose violazioni dei diritti umani da parte delle truppe di Mosca
laggiù.
Lo stesso è vero per l' India e il suo annoso conflitto per
il controllo del
Kashmir. Il problema è che sarà estremamente difficile
fare apparire questa
guerra solo come una campagna contro il terrorismo e non come una guerra
contro
l' Islam. Stranamente la coalizione che oggi si sta formando assomiglia
molto a
quella che sec oli fa l' Islam si trovò a combattere su due
fronti: a Occidente
i Crociati, a Oriente le tribù nomadi dell' Asia Centrale e
i mongoli. In quella
occasione i musulmani resistettero e finirono per convertire all' Islam
gran
parte dei loro avversari. Questa è la scommessa che Bin Laden
e i suoi possono
aver fatto sferrando il loro attacco al cuore dell' America. Forse
contano
proprio su una rappresaglia del mondo occidentale per coagulare una
massiccia
resistenza islamica e fare di quella che oggi è una minoranza,
pur determinata,
un fenomeno più esteso. L' Islam si presta bene, per la sua
semplicità e il suo
innato carattere di militanza, a essere l' ideologia dei dannati della
Terra, di
quelle masse di poveri che oggi affollano, disperate e discriminate,
il Terzo
Mondo occidentalizzato. Intreccio di interessi Più che rimuovere
i terroristi e
chi li ha appoggiati (forse ci sorprenderà sapere quanti personaggi,
alcuni
anche insospettabili, sono coinvolti), sarebbe più saggio rimuovere
le ragioni
che spingono tanta gente, soprattutto fra i giovani, nelle file della
jihad e
fanno loro apparire come una missione il compito di uccidersi e di
uccidere. Se
noi davvero crediamo nella santità della vita, dobbiamo accettare
la santità di
tut te le vite. O siamo invece pronti ad accettare le centinaia, le
migliaia di
morti - anche quelli civili e disarmati - che saranno vittime della
nostra
rappresaglia? Basterà alle nostre coscienze che quei morti ci
vengano
presentati, nel gergo da pubbliche relazioni dei militari americani,
come
«danni collaterali»? Dipende da quel che noi faremo, da
come reagiremo a questa
orribile provocazione, da come vedremo la nostra storia di ora nella
scala della
storia dell' umanità, il tipo di futuro che ci aspetta. Il problema
è che fino a
quando penseremo di avere il monopolio del «bene», fino
a che parleremo della
nostra come la civiltà, ignorando le altre, non saremo sulla
buona strada. L'
Islam è ovunque L' Islam è una grande e inquietante religione
con una sua
tradizione di atrocità e di delitti (come tante altre fedi peraltro),
ma è
assurdo pensare che un qualsiasi cowboy, pur armato di tutte le pistole
del
mondo, possa cancellare questa fede dalla faccia della Terra. Meglio
sarebbe
aiuta re i musulmani stessi a isolare, invece che renderle più
virulente, le
frange fondamentaliste e a riscoprire l' aspetto più spirituale
della loro fede.
L' Islam è ormai ovunque. Nell' America stessa ci sono ormai
tanti musulmani
quanto ebrei (sei milioni, la gran parte, non a caso, afro-americani,
attirati
dal fatto che l' Islam è stato fin dal suo inizio al di sopra
del concetto di
razza). Sul territorio americano ci sono già 1.400 moschee,
una persino nella
base navale di Norfolk. Non dobbiamo farci ora trascinare da visioni
parziali
della realtà, non dobbiamo diventare ostaggi della retorica
a cui oggi ricorre
chi è a corto di idee per riempire il silenzio di sbigottimento.
Il pericolo è
che, a causa di questi tragici, orribili dirottamenti, finiamo noi
stessi, come
esseri umani, per essere dirottati da quella che è la nostra
missione sulla
Terra. Gli americani l' hanno descritta nella loro costituzione come
«il
perseguimento della felicità». Bene: perseguiamo tutti
assieme questa felicità,
dopo averla magari ridefinita in termini non solo materiali e dopo
esserci
convinti che noi occidentali non possiamo perseguire una nostra felicità
a
scapito della felicità di altri e che, come la libertà,
anche la felicità è
indivisibile. L ' ecatombe di New York ci ha dato l' occasione di ripensare
a
tutto e ci ha messo dinanzi a nuove scelte. Quella più immediata
è di aggiungere
o togliere al fondamentalismo islamico le sue ragioni di essere, di
trasformare
i balli dei palestinesi, da macabre esultazioni per una tragedia altrui,
in
espressioni di gioia per una loro riguadagnata dignità. Altrimenti
ogni bomba o
missile che cadrà sulle popolazioni del mondo non-nostro non
farà che seminare
altri denti di drago, e dar vita a nuovi giovani disposti a urlare
«Allah
Akbar», Allah è grande, pilotando un altro aereo carico
di innocenti contro un
grattacielo o, domani, lasciando una bomba batteriologica o una atomica
tascabile in qualche nostro supermercato. Solo se riusciremo a vede
re l'
universo come un tutt' uno in cui ogni parte riflette la totalità
e in cui la
grande bellezza sta nella sua diversità, cominceremo a capire
chi siamo e dove
stiamo. Altrimenti saremo solo come la rana del proverbio cinese che,
dal fondo
di un pozzo, guarda in su e crede che quel che vede sia tutto il cielo.
Duemilacinquecento anni fa un indiano, chiamato poi «illuminato»,
spiegava una
cosa ovvia: che «l' odio genera solo odio» e che «l'
odio si combatte solo con
l' amore». Pochi l' hanno ascoltato. Forse è venuto il
momento.
TizianoTerzani, 62 anni, fiorentino, collaboratore del «Corriere
della Sera», vive dal
' 69 in Oriente, di cui ha seguito gli avvenimenti principali. E' autore
di
numerose pubblicazioni. Questa la sua analisi del la realtà
islamica. SULL' ORLO
DI UNA GUERRA Sun Tzu, Cina, l' arte della guerra, scritto oltre 2.500
anni fa
«Soltanto coloro che calcolano molto vinceranno; coloro che calcolano
poco non
vinceranno e tantomeno vinceranno coloro che non calcolano affatto»