Brunello Mantelli

 

CRISI SOCIALE E POLITICA NELL’ETÀ CONTEMPORANEA

 

"Nelle società tradizionali le crisi si producono e si producono unicamente quando dei problemi di controllo non possono esser risolti all’interno dell’ambito di possibilità circoscritto dal principio organizzativo, ingenerando delle minacce per l’integrazione sistemica che mettono in questione l’identità della società. Per contro nelle società liberalcapitalisticbe le crisi diventano endemicbe poiché i problemi di controllo temporaneamente insoluti che il processo di crescita economica ingenera a intervalli più o meno regolari, minacciano in quanto tali l’integrazione sociale. Insieme all’instabilità permanente di una trasformazione sociale accelerata, i problemi di controllo socialmente disintegranti che ricorrono periodicamente creano il fondamento obiettivo per una coscienza della crisi nella classe borghese e per le speranze rivoluzionarie degli operai salariati: fino ad allora nessuna formazione sociale aveva vissuto tanto nella paura e nell’attesa di un improvviso mutamento di sistema, sebbene l’idea del rivolgimento condensato nel tempo, ossia del salto rivoluzionario, contrasti singolarmente con la forma di movimento della crisi di sistema come crisi durevole" (Jürgen HABERMAS, La crisi della razionalità nel capitalismo maturo, Bari, Laterza, 1976, p. 30).

 

Senza dubbio la categoria della crisi rappresenta uno dei concetti centrali per una lettura complessiva dell’età contemporanea, caratterizzata specificamente da dinamiche di mutamento strutturale, sociale e politico profondamente diverse da quelle che hanno caratterizzato le epoche precedenti.

Il mutamento, con tempi a volte più lenti a volte più rapidi, sembra infatti essere il dato permanente di questa fase storica; e del mutamento la crisi rappresenta in un certo senso il momento più alto e significativo.

Tutto ciò implica da un lato la necessità di tener conto di questo carattere per così dire "epocale" della crisi, del suo essere "caratterizzante" dell’età contemporanea; dall’altro impone, nel contempo, di rendere ragione delle fasi storicamente determinate e cronologicamente circoscritte di crisi in un certo senso acuta e generalmente considerata propriamente come tale. Analogamente l’approccio generalizzante al tema della crisi, comporta la necessità di muoversi nello spazio non sempre agevole che intercorre tra modellistica ed analisi storica, nello sforzo sia di definire una tipologia della crisi che si misuri e tenga conto dei paradigmi interpretativi più comuni e delle stesse categorie generali che spesso risultano accomunarne diversi, sia di analizzare i concreti processi di crisi così come storicamente si sono dati, rinviando a testi specifici per un esame più dettagliato.

 

1. Il dibattito sulla crisi nell’età contemporanea.

 

1.1. Crisi e rivoluzione, genesi del termine.

 

Non credo sia possibile tentare un significativo approccio al concetto di crisi così come è stato utilizzato nell’età contemporanea senza tener conto della contraddittoria ambivalenza che il termine ha assunto in stretta coincidenza con l’esplodere e lo svilupparsi dell’evento costitutivo dell’età contemporanea stessa, la rivoluzione francese. Essa creò il concetto moderno di rivoluzione, con le sue connotazioni di violenza illegale ed il suo contenuto ideologico di libertà che lo rende un valore. E a questa idea della rivoluzione come valore, in quanto rottura violenta con un passato di illibertà e diseguaglianza, riconduciamo gli usi contemporanei del termine come idea programmatica dei movimenti rivoluzionari e come mezzo di legittimazione dei regimi cosiddetti postrivoluzionari.

In queste righe si compendia quello che viene generalmente considerato il punto più alto raggiungibile nel corso di una fase di "crisi sociale e politica", la rivoluzione appunto, intesa come rovesciamento di un ordine dato e ricostituzione, attraverso un processo più o meno rapido, di una nuova normalità a differenti principi ispirata e produttrice in tempi in genere assai brevi di una nuova normatività, di un mutamento più o meno profondo delle tavole dei valori socialmente date. Lasciando per ora da parte il problema di quanta parte della società, delle strutture, dei comportamenti quotidiani venga poi effettivamente "rivoluzionata" e di quanto invece sia destinato a permanere se non inalterato quantomeno scarsamente modificato, resta comunque il fatto che in genere concetti come rivoluzione e crisi sociale e politica vengono visti in stretta con, la seconda come indispensabile precondizione della prima (condizione necessaria ma non sufficiente, si potrebbe dire), la prima come sbocco almeno potenziale della seconda.

Risulta quindi importante tentare di sviluppare il nesso esistente fra questi due concetti perché da esso dipende in gran parte il tipo (o meglio i tipi) di analisi che del concetto di crisi si sono dati ed ì giudizi che in sede storiografica sono stati espressi sui momenti di crisi storicamente verificatisi.

 

Ci troviamo nella quasi totalità dei casi fronte ad un giudizio di tipo teleologico in cui la dinamica intrinseca della crisi riceve un senso a seconda del tipo di sbocco a cui va incontro; ciò non esclude evidentemente un’analisi spesso attenta di tipo causale, ma resta il fatto che in genere si tende a cogliere una sorta di carattere transeunte dei processi di crisi, i quali nel momento in cui si danno non fanno altro che sviluppare, sia pure a livello ed in modo parossistico, le contraddizioni insite nell’ordine preesistente e - parallelamente - pongono le basi di un ordine qualitativamente superiore (o quantomeno diverso).

In questo senso la stragrande maggioranza delle analisi sulle crisi tendono a risolverla nel concetto di passaggio da un livello di stabilità ad un altro, dal primo qualitativamente e quantitativamente differente, negandone o quasi il carattere produttivo di significative novità; tende a prevalere, cioè, una concezione della crisi come terremoto, dopo il quale si la luce una nuova stabilità, e, nel contempo, come emergenza dei rapporti sociali, economici, ideologici così come si erano strutturati nella precedente fase di normalità, ora pienamente dispiegati nelle loro "verità".

 

1.2. Sulle diverse letture della crisi: ex post ed ex ante

 

È noto come il problema costituito dal mutamento sociale nell’età contemporanea abbia costituito uno dei nodi centrali della riflessione storiografica – e, più in generale, filosofica. Non poteva di conseguenza mancare l’attenzione al fenomeno della crisi come momento di polarizzazione delle dinamiche di mutamento e come loro sbocco o involuzione. Nel dibattito assai serrato che si è svolto negli ultimi due secoli circa la valutazione del fenomeno risi, è possibile infatti individuare, sostanzialmente, due posizioni poste (pur con tutte le possibili mediazioni): quella di chi tendeva a conferire una valenza positiva alla crisi, come situazione foriera di mutamento, come esplosione di contraddizioni ormai insanabili nel tessuto sociale, come produttrice di un nuovo ordine in qualche misura migliore; e quella di fronte ad un giudizio di tipo teleologico di chi tendeva invece a leggerla come sintomo di decadenza, di malattia vuoi in un corpo sostanzialmente sano vuoi in una struttura irreparabilmente minata.

È ovvio che saranno i filoni di pensiero maggiormente orientati in senso critico-rivoluzionario a dare valutazioni del primo tipo concependo la "crisi" come momento di scatenamento delle energie a lungo represse delle classi subalterne e/o come verifica del carattere contraddittorio del sistema di dominio, dell’articolazione del potere, della stessa formazione economico-sociale basata su meccanismi in sé asimmetrici. Proprio queste analisi che appaiono portatrici di una concezione positiva, a volte quasi palingenetica, della crisi appaiono però assai preoccupate di definirne non solo le modalità e le forme ma i tempi, la durata, gli esiti. In tutto il pensiero rivoluzionario dell’Ottocento e del Novecento, nel marxismo in primo luogo, tende ad essere centrale il problema di definire quali siano le caratteristiche della "crisi rivoluzionaria", della crisi in sé positiva cioè, a cui vengono contrapposte eventualità assai meno desiderabili od addirittura negative quali la "crisi prolungata" o la stagnazione. Nel pensiero dei marxisti meno deterministi, in Rosa Luxemburg ad esempio, l’antinomia "rivoluzione-stagnazione tra le classi", o la più nota antitesi "socialismo o barbarie" diventa uno dei cardini analitici sulla base dei quali le dinamiche della crisi vengono verificate, pesate, analizzate.

Sul versante opposto pensatori orientati in senso conservatore o "reazionario" (da Ortega y Gasset a Spengler) e quindi portatori di una visione negativa della crisi hanno teso o a coglierla come disordine tout court o ad utilizzare definizioni come tramonto o decadenza. In questo caso viene ad essere maggiormente sottolineato il carattere di lunga durata del fenomeno stesso, in base ad una costante secondo la quale è il pensiero critico-rivoluzionario ad essere più attento ed a valorizzare maggiormente il momento di rottura, mentre concezioni opposte tendono a soffermarsi di più sulle permanenze e sui processi di lungo periodo. Il concetto di decadenza appare però in ultima analisi atemporale e metastorico; scarsamente utilizzabile allora per una ricerca degli elementi di novità che una fase di crisi porta, almeno potenzialmente, con sé.

Entrambi i punti di vista che abbiamo sommariamente cercato di prendere in esame e che hanno esiti antitetici e talvolta speculari hanno in qualche misura a che fare con un problema di tipo più filosofico che propriamente storiografico quale il problema del tempo, concepito dai pensatori della crisi come crisi "epocale" quale tempo lineare o circolare, dal pensiero critico-rivoluzionario quale tempo "ascensionale", in ultima istanza teleologicamente mosso, di cui è immagine volgarizzata l’idea di progresso.

In realtà però la contrapposizione che abbiamo preso in esame non appare fondata su differenti analisi del fenomeno crisi quanto piuttosto su diversi giudizi di valore sul "prima" e sul "dopo". Ciò che ha rilevanza sostanziale non è il periodo di babelico rimescolamento quanto piuttosto la stabilità precedente e il nuovo ordine che da quella è progressivamente scaturito. Il tempo della crisi si configura come un tempo transeunte, in fondo irrilevante se non per un esame delle crepe del "preesistente" e dei processi germinativi del "successivo". Schematizzando si potrebbe dire che ciò che divide questi due approcci è il loro osservatorio, il porsi dal punto di vista di ciò che è finito o di ciò che è nato o che avrebbe potuto nascere. Il momento della crisi come possibilità di nuove risposte a nuove o vecchie domande, come laboratorio sociale, come possibilità apparsa (magari solo apparente) di uscita dal determinismo dei condizionamenti materiali, come tentativo di far "implodere" la storia appare spesso quasi assente da molte delle analisi che ne sono state fatte.

 

1.3. Le analisi della crisi ed il concetto di "reductio ad unum".

 

In questo modo la crisi viene sostanzialmente concepita come passaggio, come crisi a cui si deve necessariamente seguire una lisi, una necessaria stabilizzazione. Si cerca cioè di forzare le caratteristiche aperte e caotiche della crisi dentro uno schema formale che la faccia diventare un momento ben definito del flusso temporale.

Un passo appena successivo e che viene intrapreso praticamente da quasi tutte le analisi è quello della ricerca del livello decisivo, del piano fondante al cui interno è avvenuta la dislocazione di quegli equilibri che permettevano la stabilità precedente e che hanno innescato il disequilibrio che si vuole prendere in esame. Poco importa, per ora, quale sia il livello di realtà che viene individuato come decisivo e basilare, strutturale, ciò che conta è che esso viene dato per presupposto.

Il concetto di "reductio ad unum", pur attraverso molteplici mediazioni, domina gran parte delle analisi sulla stabilità e sull’instabilità; non ci interessa per ora prendere in esame una simile ipotesi metodologica in quanto tale, quanto cercare di verificarne l’uso all’interno di differenti paradigmi interpretativi, su cui torneremo particolarmente in seguito.

Ciò che conta è che la realtà fenomenica viene comunque vista come un insieme di relazioni fra loro coerenti, legate e suscettibili di una spiegazione unitaria, relazioni riconducibili in ultima analisi ad un livello sottostante e sostanziale di realtà che se non pone quantomeno definisce il quadro generale in cui gli altri piani esistono ed interagiscono. Il concetto di modo di produzione per il pensiero marxista, quanto meno per quello meno legato alla dicotomia, che rischia di apparire oggi scolastica struttura-sovrastruttura, e il suo potere euristico nell’analisi delle dinamiche della crisi, costituisce forse l’esempio più noto di tale processo analitico. Sono gli squilibri che si manifestano in questo livello sostanziale a dare origine all’onda d’urto generatrice di crisi, le cui dimensioni poi sono più o meno vaste a seconda dell’articolarsi dei vari livelli della complessità sociale.

Al di là di questo primo, più noto livello di approccio, esistono modelli d’analisi che paiono aggirare e forse risolvere il problema della struttura fondante e sono tutte quelle ipotesi riconducibili alla teoria dei sistemi che, tanto nella versione funzionalista quanto in quella strutturalista (dall’antropologismo neomarxista di François Godelier, all’analisi strutturalfunzionalista di Nicos Poulantzas), tendono a porre come centrale il concetto di interrelazione, di feed-back. In questo caso non ci si trova a parlare di un livello profondo di realtà, a cui tutti gli altri possono essere in ultima analisi ricondotti, quanto di un sistema dato di interrelazioni il quale costituisce una sorta di reticolo fondante la realtà stessa. Resta però aperto a questo punto il problema della genesi dello. squilibrio, che viene affrontato dallo strutturalismo con l’ipotesi della contraddizione surdeterminata (Louis Althusser), in fondo esterna al sistema di relazioni dato.

Va precisato però che tutte le ipotesi paradigmatiche che abbiamo brevemente cercato di illustrare, al di là delle loro intrinseche differenze, hanno dato miglior prova della loro capacità di "spiegare i fenomeni" nel corso di fasi di stabilità che durante momenti di crisi; ciò vale sia per le ipotesi critico-rivoluzionarie che pure avevano fatto del mutamento il proprio fondamentale concetto euristico, sia per quelle strumentazioni teoriche che si ponevano come obiettivo il controllo delle dinamiche sociali (Talcott Parsons ed in generale il funzionalismo) al fine di una lenta e controllata gestione del mutamento stesso.

Finché gli eventi scorrono secondo la "norma" i rapporti tra struttura fondante(qualunque essa sia) e livelli secondari o all’interno del sistema strutturale di relazioni appaiono quasi avere aspetto di trasparenza; l’innescarsi invece di dinamiche di crisi appare rimescolare le carte: la crisi nell’assetto della realtà sociale sembra portare con sé il crollo o quantomeno la messa in discussione degli stessi paradigmi analitici, cosicché diventa impresa improba rintracciare il livello fondamentale della formazione storico-sociale in una fase in cui tutte le variabili del quadro risultano ridefinite e rimescolate.

Per la verità ciò appare tanto più vero per quanto riguarda quegli apparati teorici che tendono a porsi anche come supporto per un’azione pratica, sia essa di tipo rivoluzionario o di tipo riformista e/o conservatore, mentre le teorie che utilizzano i concetti di decadenza o tramonto appaiono meno scosse, proprio per il loro rifarsi, come già accennavamo, a categorie in fondo metastoriche.

 

  1. 4. Il problema dello scatenamento delle energie nella crisi.
  2.  

    Naturalmente non si deve ritenere che il pensiero del tardo Ottocento e del Novecento sia stato del tutto privo di attenzione verso il fenomeno crisi, in sé considerato e preso in esame come realtà in qualche misura autonoma e diversa dal contesto in cui veniva a situarsi; non foss’altro per la banale constatazione che - nell’età contemporanea - i periodi definibili a vario titolo come "di crisi" sono forse superiori per numero e durata alle fasi di stabilità od ordine od espansione, a seconda dei para metri su cui si preferisce misurarli.

    Ci troviamo di fronte ad approcci teorici anche molto diversi e divergenti fra loro che hanno cercato di prendere in esame la crisi (o le crisi) come momento di emergenza di nuove energie, come fase di accelerazione del processo storico, come momento di verità della specifica formazione storico-sociale oppure, da un altro punto di vista, della stessa universale condizione umana.

    All’interno del filone rappresentato dal pensiero critico-rivoluzionario sarà il sindacalismo a rappresentare con più forza questa tendenza. Per Sorel e per i sindacalisti la crisi viene vista infatti non più soltanto come base materiale del rovesciamento dei rapporti di classe ma come occasione per l’emergenza di un nuovo assetto sociale, come essa stessa produttrice di nuove energie da parte del proletariato. Di qui l’insistenza sul concetto di sciopero generale, visto come momento palingenetico e come idea forza in grado di coagulare il movimento montante.

    Pur partendo da ben diverse premesse teoriche, a dare un’analoga valutazione del fatto crisi sarà il pensiero comunista di sinistra degli anni venti. Alla luce delle categorie di composizione di classe e di dominio il Linkskommunismus legge la crisi come scomposizione e rottura potenziale dei meccanismi di dominio, non solo nel rapporto tra proletariato e borghesia ma anche all’interno del proletariato stesso, i cui vari settori, portatori di interessi non omogenei, si segmentano (Anton Pannekoek). È dentro la crisi che nasce la concreta possibilità dell’autorganizzazione consiliare.

    Va sottolineato però che questa teoria dell’autorganizzazione mantiene quasi sempre la necessità di una soggettività politica che la stimoli e la incanali, cosa che rinvia al problema del rapporto crisi-soggettività politica, rapporto che - come vedremo più oltre - acquisterà proprio in quegli anni una particolare pregnanza.

    Nella stessa direzione, pur su un versante politico diverso, si pone anche una parte del pensiero filosofico contemporaneo, proponendo una diversa lettura del concetto di crisi, e attribuendo ad esso una valenza generale, non nel senso già ricordato di decadenza o tramonto, quanto nel far coincidere il significato del termine con quello stesso di esistenza umana. Ci si riferisce qui a quell’insieme di teorie (Martin Heidegger, Karl Jaspers) note comunemente con il nome di esistenzialismo.

    Non a caso è proprio dalla dissoluzione del sistema hegeliano, cioè dal più compiuto tentativo di dare una spiegazione generale e complessiva della realtà, che tali ipotesi prendono le mosse; di fronte all’impossibilità di ricostruire una teoria sistematica che dia conto della complessità del reale, di quel reale che è venuto così impetuosamente a mutare nel corso dello stesso secolo Diciannovesimo, prende corpo una riflessione che tende a leggere la crisi come condizione generale dell’uomo, che del rapporto con l’assolutamente altro, con il non significante, fa la categoria fondamentale.

    È chiaro che qui ci troviamo di fronte ad ipotesi che esulano dal concetto di crisi sociale e politica, così come in precedenza abbiamo cercato di definirla, tuttavia abbiamo creduto giusto darne conto proprio per il suo considerare la crisi massimo momento di verità possibile e punto di partenza di ogni ulteriore riflessione sulla realtà stessa.

    Va da sé che ipotesi come quelle che abbiamo appena citato hanno avuto particolare diffusione proprio in quei momenti di "crisi prolungata" che appaiono sempre più come tipici del nostro secolo, in quei momenti cioè in cui le interpretazioni più complessive della realtà appaiono singolarmente inadeguate a spiegare i "fenomeni", all’orizzonte non si vede traccia di nuove stabilità ed il problema del vivere nella crisi, del rapporto tra quotidianità e inadeguatezza dei consolidati paradigmi, appare giorno dopo giorno il principale.

     

  3. Crisi, unità e differenziazione nell’età contemporanea.
  4.  

    Due appaiono essere i processi . fondanti dell’età contemporanea: da un lato il progressivo estendersi del modo di produzione capitalistico (o meglio della produzione di beni materiali attraverso lo scambio continuo fra forza-lavoro e macchinario, tra lavoro vivo e lavoro morto, e l’immissione dei prodotti stessi in un mercato progressivamente sempre più vasto), dall’altro l’emergere conseguente e necessario di tecniche di gestione del potere tali da coinvolgere -sia pure nei modi più diversi – larghissimi settori sociali prima marginali rispetto alle alle dinamiche di legittimazíone del potere stesso

    Il procedere di pari passo del dominio generalizzato del valore di scambio sotto forma di generale "democrazia" (circolazione) delle merci e della fondazione sulle masse del potere politico (al di là dei meccanismi concreti con cui le masse stesse sono sussunte alla struttura di comando) ha prodotto l’intrecciarsi di tendenze fortemente contraddittorie: da un lato la progressiva unificazione e integrazione dal punto di vista economico, produttivo, tecnologico, culturale delle società umane, dall’altro lo sradicamento di forme comunitarie di comportamento, valori, atteggiamenti propri ai diversi settori sociali.

    La realtà sociale quanto più ha guadagnato in uniformità tanto più sembra aver perso in trasparenza. Sempre più è diventato difficile coglierne le interne nervature, distinguere fra fenomeno e struttura; non solo, sempre più è diventato difficile andare ad individuare i nessi che legano comportamentí individuali e collettivi a collocazioni precise, produttive e materiali, nella struttura di classe, al punto che è legittimo chiedersi, sul versante dell’analisi del potere fino a che punto sia possibile, oggi, distinguere fra Stato e società civile.

     

    2.1. Il caratterizzarsi della storia come storia sociale.

     

     

    Sulla scia dei fenomeni che abbiamo cercato di illustrare poc’anzi anche l’immagine del mondo fornita dalla storiografia ha subito significative trasformazioni. Gradualmente, nel corso degli ultimi decenni, sono venute moltiplicandosi le critiche ad un approccio al flusso storico inteso come mera successione di eventi o come prodotto demiurgico dei gruppi dirigenti (od addirittura dell’individuo capo), mentre andava precisandosi, sia pure in forma embrionale, un paradigma della storia come storia sociale, come storia dei rapporti fra gli uomini e fra gli uomini e la natura. Esso si è posto in stretto rapporto (e vi ha trovato le proprie ragioni genetiche) con la nascita della società di massa, che ha avuto come teatro il nostro secolo e come fatti costitutivi l’unificazione del mercato mondiale e l’avvento di un modello statuale che tende a legittimarsi direttamente sulla totalità dei cittadini.

    L’irruzione delle masse sulla scena storica ha portato ad un ripensamento generale del passato, ad una sua reinterpretazione che ponesse in primo piano i rapporti sociali nella loro accezione più ampia. Ma le stesse modalità di sviluppo della società di massa, il manifestarsi ricco di ambiguità del fenomeno, l’emergenza delle classi subalterne non come portatrici necessarie di un messaggio di emancipazione ma grevi di reminiscenze di un passato spesso assai lontano, sensibili al richiamo di ideologie credute vecchie ed obsolete, hanno portato a focalizzare l’analisi storiografica sul rapporto fra rotture e permanenze, fra onda lunga della continuità ed onda breve della rottura (Marc Bloch, Fernand Braudel e, in generale, tutta l’impostazione delle "Annales").

    In questo quadro il fenomeno crisi è venuto ad assumere un valore centrale, non tanto come momento di ribaltamento complessivo quanto come fase in cui si intrecciano dinamiche di mutamento e permanenze di lungo periodo. Le crisi mettono in discussione alcuni dei livelli consolidati ma ne rafforzano altri; i rapporti sociali che informano la vita quotidiana assumono dignità storica al pari dei rapporti sociali e politici.

    In quest’ottica, profondamente diversa dal tradizionale approccio alla problematíca della crisi, appare necessario un passo indietro che ci permetta di cogliere, sul lungo periodo, il farsi del processo storico che qui abbiamo sommariamente descritto.

     

    2.2. Le civiltà preindustriali: coesione regionale e struttura centralizzata del potere.

     

    Le formazioni sociali e statuali che si consolidano in Europa nell’età moderna, prima cioè dell’innescarsi del processo di industrializzazione, sono qualificate, in ultima analisi, da due caratteri principali: si tratta di società fortemente coese sul piano sociale, pur con tutte le possibili differenziazioni interne che sono state messe in luce, e in esse la struttura del potere politico appare relativamente trasparente. Il potere politico è individuabile nella persona del sovrano, ha una collocazione ben precisa, geograficamente data: la corte, situata nella capitale.

    Occorre precisare che la coesione a cui prima abbiamo fatto riferimento è una coesione di tipo regionale, geograficamente e spazialmente limitata; in ogni area culturalmente omogenea però i processi di modificazione e sviluppo scorrono secondo ritmi estremamente lenti, tanto da permettere una percezione della realtà come sostanzialmente immutata da parte dei contemporanei.

    A partire da queste due considerazioni è possibile dare ragione delle forme in cui si manifesta il precipitare della crisi in questo periodo: la rivolta sociale; la jaquerie contadina spesso intrisa di significati millenaristici e quasi sempre ispirata a interpretazioni apocalittiche del cristianesimo (si veda a questo proposito il Thomas Münzer di Ernst Bloch, Feltrinelli, Milano, 1980); la rivoluzione politica, fatto essenzialmente cittadino, accadimento proprio della capitale, è percepita come un cambiamento tutto interno ai ceti dominanti, come la sostituzione di un personale di potere con un altro. Bisognerà arrivare alla rivoluzione inglese di Oliver Cromwell perché i due termini inizino a toccarsi, e non a caso sarà proprio quella rivoluzione a realizzare simbolicamente l’irrevocabilità del mutamento attraverso la decapitazione del re. Il potere è il sovrano, distruggere il potere vuol dire - anche -distruggere la persona fisica che fungeva da chiave di volta del meccanismo (Cristopher Hill, Vita di Cromwell, Laterza, Bari, 1974).

    Ma la trasparenza dei meccanismi di potere corrispondeva, per quanto riguarda quella che poi sarà chiamata la società civile, ad una sostanziale identità tra ruolo sociale, ruolo giuridico, cultura specifica. La posizione di un individuo nella gerarchia sociale ne disegnava cioè anche la collocazione giuridica e individuava comportamenti e dati culturali ben precisi. In questo quadro lo Stato tendeva a porsi non come elemento di unificazione della società quanto come punto di centralizzazione e di dominio; lo Stato si legittimava non come signore della società ma come signore del territorio. Ciò non vuol dire naturalmente che la società fosse indifferente al movimento della macchina di potere che la sovrastava, sia semplicemente che lo statuale non rappresentava il suo principale momento di coesione interno.

     

    2.3. Il costituirsi dell’idea di nazione e I’ unione delle masse nella rivoluzione francese.

     

    Nella rivoluzione francese l’immagine di una società segmentata entra bruscamente in crisi, ad essa si contrappongono i concetti di popolo e di nazione. Il Terzo Stato, notoriamente l’immensa maggioranza della popolazione, si costituisce in nazione di cittadini fra loro uguali e pone la sua candidatura alla direzione dello Stato. La legittimazione del potere cambia bruscamente di segno: non più dall’alto in basso ma dal basso in alto.

    Ma contro chi e che cosa si è mosso il Terzo Stato, attraverso quali dinamiche si è generata la crisi finale dell’ancien régime? Nei secoli precedenti la monarchia francese era riuscita ad edificare una funzionale e funzionante macchina statuale, centralizzata politicamente e fisicamente nella capitale. È noto il rapporto contraddittorio che legò monarchia e borghesia mercantile e delle professioni, ad un tempo pilastro della costruzione dello Stato assoluto e serbatoio inesauribile per il prelievo fiscale; allo stesso modo è noto il rapporto complesso fra Stato assoluto come macchina di dominio e rafforzamento della borghesia come classe empiricamente data.

    In questo quadro è possibile definire la rivoluzione francese come il frutto maturo dell’intrecciarsi di una crisi di legittimazione della struttura monarchica dello Stato con una crisi economico-físcale. Posta in gioco dello scontro sociale in atto viene ad essere lo Stato stesso e la sua gestione, agenti dello scontro sono le masse, essenzialmente parigine, dei "lavoratori poveri" (Jeffrey Kaplow, I lavoratori poveri nella Parigi prerivoluzionaria, Il Mulino, Bologna, 1976), Mi sembra più corretto questo termine infatti piuttosto che quello di "proletariato", che presuppone l’avvio di un processo di accumulazione capitalistica quale in Francia non era ancora dato di constatare. Essi furono agenti dello scontro, ma non ancora direttamente protagonisti; e infatti mai si ebbe a verificare l’emergenza di obiettivi o di un programma politico – sia pur ad un livello embrionale - per opera dei sanculotti della Comune, neppure nei momenti più caldi del 1793. Gli scontri, i dibattiti, le lacerazioni che agiteranno il ceto politico emerso dalla rivoluzione fino all’esito termidoriano appaiono tutti interni alla borghesia emergente ed esprimono fino in fondo il suo orizzonte politico. A sua volta le convulsioni della rivoluzione stravolgono la struttura sociale del paese: nuove classi sociali (in particolare i contadini piccoli e medi proprietari) vengono costruite ex novo in pochi anni, con un tale impatto sugli equilibri da costituire poi -negli anni successivi - uno dei cardini del nuovo ordine che dalla rivoluzione nascerà. A grandi linee l’intelaiatura della crisi francese può essere disegnata in questo modo: una congiuntura economico-fiscale viene a saldarsi con una crisi di legittimazione degli apparati statuali; un soggetto sociale emergente (la borghesia) tende a porsi come la classe generale (il popolo francese); la crisi di legittimazione è tale da liberare le energie dei settori sociali subalterni che diventano l’ariete in mano alla borghesia stessa; terreno dello scontro è il controllo sullo Stato; per effetto della crisi stessa e della sua radicalizzazione viene sconvolto l’assetto sociale precedente.

     

    1. La crisi dell’unione delle masse; il 1848 e la Comune di Parigi

     

    Molte cose vengono a mutare in poco più di mezzo secolo: quello che nel 1789 era parso come un soggetto sociale emergente è ormai diventato a tutti gli effetti la classe dominante. La borghesia ha subito non poche interne mutazioni trasformandosi nell’organo di guida dello sviluppo industriale; i lavoratori poveri di allora stanno trasformandosi a ritmo accelerato in proletariato industriale, al cui interno vanno delineandosi i primi accenni di un processo di autorganizzazione e di autonoma elaborazione di obiettivi (Eric John Hobsbawm, Studi di storia del movimento operaio, Einaudi, Torino, 1972).Il 1848 francese - ed anche, sia pur con diverse accentuazioni e caratteristiche, quello europeo - mette la parola fine alle rivoluzioni borghesi. Il problema per la borghesia non è più quello di emergere dalla crisi con la conquista del potere politico ma semmai quello di gestire la crisi stessa. E il dramma storico del 1848 è rappresentato dal convergere di più dinamiche di crisi senza che esista un soggetto sociale in grado di porsi come classe generale. Non ne è in grado la borghesia, paradossalmente troppo forte e troppo debole: troppo forte perché già partecipe del potere politico troppo debole perché ancora arretrato è il processo di sviluppo industriale destinato a darle enorme potenza; non ne è in grado la classe operaia, la cui autonomia può agire solo in funzione negativa, come critica della rivoluzione borghese e rifiuto di difenderla. Se ne uscirà con il bonapartismo rinnovato, con l’assunzione di compiti di mediazione politica da parte di quello che era in fondo uno dei prodotti più genuini del 1789: l’esercito, saldamente radicato del resto in quelle classi contadine che più avevano guadagnato dal grande rivolgimento.

    Sarà necessaria la sconfitta militare di Sedan perché il Secondo Impero entri in crisi rovinosa e si riaprano spazi ad un’iniziativa sovversiva: la Comune di Parigi. Molte volte è stato ricordato come la Comune segni ad un tempo il costituirsi del proletariato come soggetto politico e lo smascheramento definitivo delle ideologie nazionalistiche nei conflitti fra le varie borghesie, vorremmo però qui mettere particolarmente in evidenza come nel far precipitare in modo dirompente la crisi, nel creare le condizioni che permettessero l’emergere delle classi subalterne abbia avuto un ruolo centrale la sconfitta militare. Perché potesse essere praticata l’utopia dello Stato operaio fu necessario che lo Stato borghese-militare napoleonico si fosse pressoché dissolto e che le soluzioni di ricambio democratico-repubblicane non apparissero credibili (Karl Marx, La guerra civile in Francia, Editori Riuniti, Roma, 1964).

    Il concetto di rivoluzione comincia ad andare di pari passo (in Occidente) con quello di sconfitta militare e di collasso dello Stato. La Comune di Parigi segna ad un tempo l’eclisse per un lungo periodo (fino all’ottobre 1917) di un’ipotesi insurrezionalistica come via praticabile dal movimento operaio e contemporaneamente pone il problema, ai gruppi dirigenti degli Stati, dell’esistenza di un soggetto politico definito e resosi ormai autonomo da ogni dipendenza politica dalla borghesia. I decenni successivi saranno segnati dal lento processo di autorganizzazione del proletariato stesso e dal progressivo articolarsi di strategie di controllo verso di esso da parte dello Stato.

     

    2.5.Egemonia borgbese ed emergenza del mercato: verso la tendenziale unificazione del mercato mondiale

    Durante tutto l’Ottocento lo sviluppo della produzione mercantile, l’avviarsi dell’industrializzazione, l’affermarsi del principio del libero commercio movimentano la scena storica. Le merci prodotte dapprima in Inghilterra poi negli altri paesi dell’Europa occidentale che si vanno man mano industrializzando invadono i mercati frantumando così separatezze secolari. Ma con i mercati sono le culture regionali, le omogeneità culturali così compatte al loro interno e così differenti fra loro ad essere frantumate e messe in crisi. Il fenomeno appare in piena evidenza ed è stato quindi maggiormente preso in considerazione dagli studiosi non in riferimento all’Europa ma a tutte quelle aree che - in concomitanza con l’espansione del factory system - vengono progressivamente trasformate in colonie dalle maggiori potenze europee e di lì a poco dagli Stati Uniti d’America. È in Asia ed in Africa (l’America latina costituisce da questo punto di vista un caso relativamente particolare) che la messa in crisi delle culture preesistenti per opera della penetrazione occidentale appare più evidente, ma un fenomeno analogo avviene contemporaneamente, per quanto ad esso manchino le caratteristiche della conquista esterna, nella stessa Europa.

    La nuova stratificazione di classe indotta dal capitalismo industriale fa sì che il processo di rimescolamento avvenga per linee orizzontali, dando origine a forme di autocoscienza che appaiono radicate all’interno del ruolo produttivo di ogni singolo strato sociale. La creazione incessante di nuove sezioni del proletariato dà una nuova dimensione alla crisi sociale, il cui apparire lascia scorgere un’ombra lunga che ha i connotati della rivoluzione, non più ora sostituzione di apparati ma scontro di classi contrapposte; non solo ma la crisi sociale appare radicarsi nella crisi economica, dipendente quest’ultima non più dalle periodiche carestie, da fattori in ultima istanza naturali cioè, ma da misteriose ed apparentemente inafferrabili instabilità di quello stesso meccanismo che permette lo sviluppo e che sembra periodicamente incepparsi.

    È lo stesso processo di accumulazione capitalistica del resto che appare caratterizzato da un costante movimento, l’unica stabilità possibile essendo quella che mira ad una riduzione sempre più avanzata del tempo di lavoro incorporato in ogni singola merce. Si è parlato a volte di una necessaria dialettica interna al processo accumulativo in cui ogni innovazione suscettibile di aumentare le quote di profitto viene ad essere in tempi assai brevi trasformata in norma ricostituendo una omogeneità tra le varie situazioni produttive, omogeneità ben presto rotta da una innovazione più avanzata. Ciò non vale solo per l’oggettività delle macchine, ma anche per le tecniche della cooperazione attraverso le quali viene organizzata la fabbrica, e per le modalità della distribuzione e della circolazione delle merci, in una parola per tutta la generalità dei rapporti sociali che dal modo di produzione capitalistico industriale vengono generati e riprodotti. Il concetto di ordine viene così a trasformarsi in quello di continuo sviluppo, e ciò non è evidentemente solo valido per il mondo delle merci ma anche per l’insieme delle relazioni sociali. Il capitalismo si caratterizza come rivoluzione permanente, quindi in fondo anche come crisi permanente, almeno nel senso debole del termine: di continua mutazione.

    In questo quadro lo Stato appare come il garante generale del processo accumulativo stesso, preoccupato di permettere la permanenza dei rapporti sociali e di classe che lo mantengono e lo alimentano ma del tutto estraneo (almeno dal punto di vista della progettualità) dal preoccuparsi di intervenire nei punti di crisi. Ciò che importa è chela crisi economica non funzioni come innesco della crisi sociale, non crei un varco per il ribollire degli antagonisti di classe, non si trasformi cioè in un problema di ordine pubblico. Caso mai esso appare soggetto attivo molto più per quel che riguarda il processo di circolazione delle merci, attraverso la creazione di una situazione la più favorevole possibile. E’ uno Stato a cui si attaglia, in fondo, la nota definizione di "comitato d’affari della borghesia", ed il suffragio ristretto che ne sta alla base rappresenta concretamente il predominio della borghesia come classe sociale concretamente e fisicamente data sull’intera società.

    L’immagine del potere quindi è ancora quella di una realtà centralizzata, puntiforme, per quanto articolata in centri politici ed in grande capitale. È ancora possibile immaginarsi lo Stato, attribuirgli volti e fisionomie precise.

     

    2.6.Fine Ottocento e primo Novecento: suffragio universale e massacro universale

     

    Negli anni che vanno dalla Comune di Parigi all’attentato di Sarajevo il processo di rimodellamento della società civile di cui abbiamo parlato in precedenza arriva a toccare i suoi vertici, l’intera società europea appare segnata fino in fondo dalle dinamiche indotte dallo sviluppo industriale; la classe operaia si è ormai costituita in tutti i paesi sviluppati od in corso di industrializzazione come soggetto non solo sociale ma politico dando vita ad una pluralità di organizzazioni politiche e sindacali su base nazionale; ciò non può non portare ad una modificazione profonda nelle modalità della legittimazione statuale: è suonata l’ora del suffragio universale (universale sui generis, naturalmente, perché limitato alla popolazione maschile).

    Suffragio universale volle dire (al di là dei tempi e dei modi specifici con cui esso venne realizzato nei vari stati) centralità del problema di una legittimazione allargata del potere statuale, sganciato dall’immagine di Stato come espressione organica della borghesia, nel tentativo di una gestione politica delle tensioni sociali ormai percepite come ineliminabili. Ma come lo Stato cerca di allargare le sue basi di consenso allo stesso modo è trascinato ad occuparsi di qualcosa da cui finora si era tenuto nel complesso lontano: il concreto funzionamento dell’economia. Sarà lo scoppio della grande guerra ed il suo caratterizzarsi quasi immediato come guerra industriale, come guerra in cui non si contrappongono solo masse di armati ma apparati produttivi ad imporre questa svolta.La guerra 1914-1918 pone fine ad una fase di sviluppo che aveva portato le maggiori potenze industriali e militari a contrapporsi in nome dei mercati ed a ripristinare, nel corso degli ultimi decenni dell’Ottocento, tutti quegli strumenti doganali e protezionistici di cui, nella prima metà del secolo, si era frettolosamente annunciata la fine. La gestione concreta della guerra stessa rende inoltre necessario il controllo e la pianificazione dell’apparato industriale, la semplificazione dei prodotti, il controllo ferreo sulla forza-lavoro. I confini fra Stato e società civile cominciano a scricchiolare mentre, d’altro canto, ben più concretamente che con il suffragio universale l’irruzione delle masse sulla scena storica avviene, in forma drammaticamente subalterna, nelle trincee di cui l’Europa è costellata.

    Le masse sono sì protagoniste della guerra ma come soldati degli opposti eserciti e come proletariato industriale all’interno di un’espansione produttiva che la guerra stessa produce ed alimenta. La rapida costruzione di un solido meccanismo di controllo sociale contribuisce indubbiamente al mantenimento dell’ordine costituito, ma al di là di questo viene drammaticamente alla ribalta la permanenza e la grande presa di ideologie che si speravano in crisi, quali il patriottismo ed il nazionalismo.

    Bisognerà arrivare al 1917, dopo che per tre anni milioni di uomini si sono distrutti per conquistare e riperdere, in un gioco privo di senso, pochi metri quadrati di terra perché su tutti i fronti si manifestino segni di stanchezza e non poche volte di ribellione. Ma una reale rottura viene a crearsi soltanto là dove alla debolezza politica dello Stato si associa la sconfitta militare, nella Russía zarista.

    In che senso è legittimo considerare la grande guerra come l’origine di una profondissima crisi? Non certo sul piano economico-produttivo visto che il fatto militare si trasforma in indispensabile fattore di sviluppo (anche se in conseguenza di ciò il cuore del mondo finanziario passa l’Atlantico trasferendosi negli Usa, grazie ai prestiti forniti ai paesi dell’Intesa), non certo sul piano statuale in quanto l’apparato burocratico e amministrativo dello Stato si rafforza e si amplia fino a raggiungere dimensioni assai simili a quelle a cui siamo oggi abituati, ma essenzialmente sul piano culturale ed ideologico: la fiducia in un lento progresso, in un’evoluzione non priva certo di contrasti ma in qualche modo garantita da una dinamica oggettiva delle cose, idea che aveva accomunato strati sociali diversi ed a volte contrapposti viene bruscamente messa in discussione. L’immagine di un mondo irrazionale, disordinato, dominio della forza, della volontà di potenza si diffonde segnando pesantemente la coscienza dei più diversi strati sociali. Non che tutto questo giunga completamente nuovo: già negli anni precedenti la guerra si erano diffuse concezioni e visioni del mondo spesso critiche verso l’ottocentesca fiducia nello sviluppo; la guerra agisce però da moltiplicatore.

    La società di massa è nata ma dentro una catastrofe, la crisi diventa una dimensione ed una cultura che entrano nel quotidiano, e non a caso i suoi simboli più significativi vengono da quel milieu austro-ungarico che viene spazzato via dagli esiti della guerra stessa e dai trattati di pace. Lo Stato deve confrontarsi con il nuovo a due livelli: i ribollire del sociale e le complessità dell’apparato produttivo. La nazionalizzazione del le masse da un lato, varie forme di intervento e dirigismo in economia dall’altro rappresentano la risposta a questi problemi. Abbiamo già accennato in precedenza a. ruolo del suffragio universale nelle modificazioni sul piano statuale a cavallo del secolo. Con il suffragio universale lo Stato giunge ad allargare (fino a comprendere la quasi totalità della popolazione maschile) la suo base sociale. Se ciò estende oltre misura la legittimazione statuale rende anche immediatamente obsoleti gli strumenti politici precedentemente utilizzati. Il partito ottocentesco, d’opinione, poco più di una federazione di comitati elettorali, cede il passo a macchine ben più perfezionate: i partiti di massa. Non si dovette cercare a lungo il modello, esso era già stato a lungo sperimentato nella prassi del movimento socialista internazionale, in particolare in Germania. Sarà proprio la socialdemocrazia tedesca ad inventare il partito di massa, con i suoi corollari: dai sindacati alle varie organizzazioni collaterali, dalle case editrici ai quotidiani alle riviste. Il movimento operaio aveva elaborato un modello organizzativo nuovo, una sorta di controsocietà, ad esso si ispireranno tutti quanti comprenderanno la necessità - per la salvaguardia degli equilibri di potere preesistenti - di uno strumento di controllo e di direzione di quelle masse che ormai non si potevano più, come in precedenza, lasciare fuori dalla porta.

    Ciò che vorremmo comunque mettere in rilievo è come in ultima analisi si verifichi una sorta di "socializzazione dello Stato" e di sua compenetrazione con livelli in precedenza separati. Inizia a diventare assai difficile l’individuazione di un livello statuale specifico; paradossalmente potremmo dire che negli anni successivi alla presa del Palazzo d’inverno, simbolo chiaro del potere centrale, i palazzi d’inverno tendono a farsi evanescenti, a confondersi quasi con le strutture della vita sociale nel quotidiano. Questo non significa che non sia più possibile individuare una risultante precisa, un interesse sociale particolare che acquista caratteristiche egemoniche e diventa (si pone) quindi interesse " generale ", semplicemente esso tende a porsi come razionalità generale diffusa, e non come apparato visibile.

     

    2.7. Dispiegarsi del mercato mondiale e sviluppo della società di massa: gli ultimi decenni

     

    Il processo che abbiamo cercato di delineare nel paragrafo precedente giunge ad acquistare dimensioni generali negli ultimi decenni, nel periodo ormai lungo che ci separa dalla grande crisi del 1929. Fenomeni come l’intervento dello Stato nei processi di accumulazione, la determinazione sostanzialmente politica degli equivalenti nel processo mondiale di scambio delle merci (da Bretton Woods alla fine di ogni funzione dell’oro come moneta di riserva), la gestione statuale di quote sempre più vaste di reddito attraverso la dilatazione dei servizi sociali fanno sì che lo Stato tenda a configurarsi sempre di più come una funzione interna alla società civile, come il suo interno principio di regolazione. Analogamente la struttura di classe appare sempre più complicarsi; ben lungi dall’andare verso forme di polarizzazione in essa verifichiamo l’insorgere di diverse dinamiche: da un lato lo sviluppo del terziario dà vita ad un proliferare di settori sociali tutti più o meno dipendenti dalla spesa pubblica che vengono di solito sbrigativamente etichettati come "ceti medi", dall’altro appare sempre meno sostenibile un’analisi che tenda a radicare nel rapporto con il proprio ruolo produttivo i comportamenti soggettivamente dati. La struttura delle classi sociali, così come si era delineata in precedenza, viene ad essere sconvolta: sempre meno ad una stratificazione delle mansioni, dei ruoli sociali nella produzione, corrisponde un’analoga differenziazione nei comportamenti, nelle abitudini, negli atteggiamenti, nei valori, nella cultura insomma.

    L’immagine della crisi appare, per tutta una prima fase all’interno di questo periodo, restringersi alla crisi economica: le dinamiche di espansione e recessione, di boom o di stagnazione appaiono quelle decisive; è di moda - nei primi vent’anni del secondo dopoguerra - la tematica della crisi delle ideologie. Tuttavia il manifestarsi delle tensioni sociali - particolarmente negli anni a noi più vicini - appare fortemente caratterizzato da una tensione al rinnovamento generale, anche là dove in primo piano sono istanze materiali. C’è però un’importante novità: quasi mai nei paesi ad economia industriale il coagularsi in movimento di massa di tensioni sociali viene a porre in termini precisi il problema del potere politico, ed ogni tentativo da parte di sezioni organizzate del movimento stesso di porre al centro tale problema viene irrimediabilmente sconfitto.

    I tentativi delle frazioni comuniste di ripetere l’ottobre sovietico, che punteggiano tutti gli anni venti per finire puntualmente sconfitti dalla controrivoluzione, segnano probabilmente la fine di un progetto di rivoluzione politica in Occidente. I regimi autoritari, o, anche la faccia dirigista che assumono le democrazie parlamentari negli anni trenta, hanno probabilmente avuto più lungimiranza, cogliendo nello statuale l’unico principio possibile di unificazione per una società dominata dalla produzione di massa e ormai priva di una unità culturale. All’interno di questo quadro nessun soggetto sociale è in grado di unificare la maggioranza della società, di diventare la " classe generale ". 1 movimenti di massa di settore fanno della società civile il loro campo d’azione, hanno un impatto con il livello statuale che -nel bene e nel male - tende a modificarlo, non sì pongono però come tali la questione della conquista del potere .

    Assai diversa è la situazione in tutta quell’area geografica convenzionalmente definita terzo mondo. In essa, pur con tutte le possibili differenze, acquista particolare importanza il problema della costruzione di un autonomo livello statuale. In molti casi è l’esistenza di un apparato statuale a precostituire il formarsi, peraltro dubbio, di un livello nazionale, a determinare il coagularsi (spesso sui generis) di una struttura di classe, a rendere possibili esperienze che, non poche volte con connotati tragici, appaiono ripercorrere momenti già vissuti in Occidente.

    Non pochi sono gli sforzi teorici che hanno cercato di fare luce sulle modificazioni intervenute in questi decenni. Gli approcci più interessanti sono forse quelli di chi ha cercato di analizzare la realtà considerandola un sistema complesso di interrelazioni costantemente in movimento, con continui processi a feed-back fra i vari livelli. Non casualmente proprio in questi ultimi anni hanno inoltre conosciuto una notevole ripresa gli studi sullo Stato e sul livello statuale (intendiamo in particolare riferirci alle ricerche condotte negli Usa, in Germania occidentale ed in Italia) che hanno posto al centro i problemi del consenso, della legittimazione e - last but not least - del concreto funzionamento degli apparati statuali del tardo capitalismo. In questo contesto riteniamo utile richiamare le analisi sull’autonomia del politico che hanno avuto notevole diffusione nel nostro paese. In linea generale comunque ciò che appare evidente è la necessità di ripensare i rapporti che oggi intercorrono fra Stato e società civile, a partire ben inteso da una ridefinizione di entrambi i termini.

     

    3, Un caso esemplare di "reductio ad unum": la centralità dell’economico

     

    Nei paragrafi precedenti si è cercato di delineare, sia pure per sommi capi lo sviluppo del concetto di crisi sociale e politico,e l’intrecciarsi del fatto crisi con le tendenze che si sono manifestate sul piano sociale e politico-statuale nel corso dell’evoluzione storica fino alla situazione attuale. Abbiamo visto come il fatto crisi sia stato per così dire sottovalutato, ma abbia costituito invece una sorte di cartina di tornasole per quanto riguarda le capacità esplicative e quindi il valore scientifico delle teorie sociologiche; ogni volta che si è cercato di fornire delle chiavi interpretative del fatto si è cercato di individuare un livello fondante. Molte ipotesi hanno cosi finito con l’attribuire un valore centrale o quanto meno predominante al fattore economico, considerando in qualche misura secondari gli altri aspetti. Si tratta di ipotesi analitiche spesso molto diverse fra loro, accomunate però da quella considerazione di fondo, di cui il paradigma marx-engelsiano costituisce, indubbiamente, il riferimento più significativo.

     

    3. 1. Il paradigma del materialismo storico

     

    Non è facile definire in modo univoco il paradigma marxiano. Risulta senz’altro più semplice parlare di marxismi al plurale piuttosto che di marxismo come realtà unitaria. Dal punto di vista che ci riguarda per il pensiero di Marx la crisi non è altro che il momento in cui contraddizioni interne al processo di accumulazione (ed in termini più generali al modo di produzione) esplodono rovesciando la stabilità preesistente e ponendo le basi un nuovo assetto. La crisi da un lato è quindi fisiologica, inevitabile, dall’altro costituisce una netta rottura. Non è questo il luogo per addentrarsi in una precisa analisi della lettura marxiana della crisi, quello che ci interessa è mettere in rilievo alcune questioni centrali: prima di tutto la relazione fra rapporti materiali e rapporti sociali, ciò che viene comunemente definito rapporto fra struttura e sovrastruttura, in secondo luogo il rapporto fra oggettività e soggettività, di cui la crisi è un palese momento di verifica.

    È ovvio che fra i due concetti vi è uno stretto legame, tanto da poter ritenere il secondo solo un caso particolare rispetto al primo. In altri termini, fermo restando che - in base al paradigma marxiano - l’economia politica è l’anatomia dell’intera società, il punto oscuro resta l’individuazione dei livelli di dipendenza e - al contrario - di autonomia della sfera dei rapporti sociali e non direttamente legati alla produzione materiale ma da essa posti. Le soluzioni che di questo nodo sono state date vanno dall’affermare una rigida determinazione all’ipotizzare una sorta di circuito azione-reazione, sciogliendo così il rapporto struttura-sovrastruttura nel concetto assai più elastico di modo di produzione.

    Nel primo caso la crisi risulta rigidamente determinata dal conflitto fra forze produttive e rapporti di produzione (in questo caso è quasi d’obbligo fare riferimento alla nota Prefazione del 1859 a Per la critica dell’economia politica, in Karl Marx, Il capitale, Appendici, Einaudi, Torino, 1975); la crisi diventa allora fatto inevitabile e necessitato, ogni formazione sociale viene a morire quando i rapporti sociali di produzione che ne costituivano la base risultano un freno allo sviluppo delle forze produttive stesse. Nel secondo caso l’accento viene messo maggiormente sulla soggettività politica (Mao Zedong, La rivoluzione cinese, Newton Compton, Roma, 1974). È necessario far notare come la prima ipotesi presupponga di fatto uno schema unilineare dello sviluppo storico, in cui la rottura reale può darsi realmente solo nei punti alti, mentre la seconda tenda a fare i conti con un’ipotesi di sviluppo diseguale ma non rettilineo, e non a caso essa è emersa nel corso del tentativo di dar ragione di una rottura rivoluzionaria che si è verificata in paesi "arretrati"

    .Ma forse l’elemento centrale che oggi costituisce il punctum dolens per il pensiero marxista è il suo essere strumento centrale per ogni analisi dei conflitti nella società idustriale senza però poter fornire un concetto preciso di cosa debba intendersi per rottura rivoluzionaria nei paesi industrialmente avanzati, se non esempi storici che oggi non possono non apparirci quantomeno obsoleti e non utilizzabili.

     

  5. 2.Il dibattito sul ciclo nelle teorie economiche
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    È noto come l’immagine dello sviluppo economico come stabilità, come insieme armonico di settori destinati a trovare una sorta di equilibrio all’interno del mercato, abbia ben presto mostrato la propria inadeguatezza. Fenomeni come le crisi, le fluttuazioni, la riduzione della domanda, non sono affatto scomparsi dopo l’abbattimento dei vincoli feudali ed il trionfo del liberismo, se mai hanno accelerato il ritmo del loro susseguirsi segnando con più forza i paesi che si andavano industrializzando. A partire dalla metà del Diciannovesimo secolo l’immagine del "ciclo economico" come susseguirsi di punti alti e depressioni, di espansione e crisi appare ormai chiara agli occhi degli studiosi e degli operatori economici (si veda, in particolare, Joseph A. Schumpeter, Il processo capitalistico: cicli economici, Boringhieri, Torino, 1977).

    Di qui si sviluppano due filoni di ricerca, da un lato si cerca di comprendere le cause e la genesi delle crisi, delle depressioni, ciò anche al fine di individuare possibili rimedi o iniziative tali da mitigarne gli effetti; dall’altro vengono studiati i cicli, le ondate successive di sviluppo e crisi al fine di verificare se vi sia una qualche sorta di regola all’interno dell’onda ciclica, in modo - questo è poi l’interesse principale - da poter prevedere il comportamento dei fattori economici per gli anni a venire.

    L’immagine di un meccanismo stabile viene così a mutarsi in quella di uno sviluppo ciclico in cui è possibile individuare onde brevi, onde medie ed onde lunghe; inoltre si comincia ad intravedere la necessità di una qualche forma di regolazione soggettiva (da parte dell’unico soggetto in grado di intervenire a questo livello, cioè lo Stato). Si fa strada il concetto di politica economica.

    In genere all’interno di analisi di questo tipo l’esame degli effetti sociali della crisi economica resta un terreno non preso in considerazione o pensato comunque come secondario, il salario (l’immagine cioè che del proletariato industriale traspare nell’empireo delle teorie economiche) si configura come variabile rigorosamente dipendente; fra crisi economica e crisi sociale il rapporto è di tipo rigorosamente causale: la prima genera la seconda.

    Ma come l’industrializzazione appare fenomeno non statico bensì in continuo divenire, così il processo di formazione del proletariato industriale non solo non è dato una volta per tutte ma si riproduce allargandosi sia quantitativamente sia qualitativamente. In questo modo i movimenti della forza-lavoro appaiono significativi non solo politicamente ma anche economicamente, o meglio la forza politica della classe operaia, che si manifesta sia attraverso l’emergenza delle lotte sia attraverso i livelli organizzati del sindacato e del partito (ciò vale particolarmente per l’Europa), è in grado di pesare sui meccanismi del processo di accumulazione. È nel Ventesimo secolo che il livello monetario raggiunto dai salari si sottrae alla dinamica della crisi, diventa incomprimibile. La risposta sarà un lento ma inarrestabile processo d’inflazione, sarà tutta sul terreno monetario. L’economico in questo modo si tramuta in politico ed in sociale, sarà sempre più difficile distinguerli.

    Nel parlare del dibattito su ciclo e crisi non è possibile, infine, lasciare da parte una questione centrale come quella rappresentata dalle teorie sul crollo: secondo queste ipotesi lo sviluppo capitalistico andava incontro ad un limite interno oggettivo, tale da provocarne la crisi definitiva. Le teorie del crollo (H. Grossmann, Il crollo del capitalismo, Jaca Book, Milano, 1977) si basavano sostanzialmente sulle analisi marxiane circa la contraddizione fra forze produttive e rapporti di produzione e sulla nota affermazione, sempre di Marx, secondo cui una formazione sociale non perisce prima di aver sviluppato al massimo le proprie potenzialità. Diverse poi erano le implicazioni che ne venivano tratte: dall’ipotesi dell’inevitabilità della fine del capitalismo discendevano sia concezioni evoluzioniste, che vedevano il passaggio al socialismo quasi come un fatto fisiologico, a concezioni catastrofiche che davano al concetto di crollo una valenza "forte". Naturalmente le diverse interpretazioni erano fortemente condizionate dalla natura dei tempi: l’evoluzionismo infatti si diffuse negli ultimi decenni del Diciannovesimo secolo mentre un’ipotesi catastrofica ebbe la massima diffusione negli anni Venti, dopo la consumazione traumatica della guerra mondiale, la rivoluzione d’ottobre, la stagnazione postbellica. In termini generali è possibile dire che ogni momento di crisi ha visto, nel ultimi decenni, un rifiorire di ipotesi in qualche modo connesse al concetto di crisi generale e definitiva, di crollo in altri termini.

     

    3. 3.Depressione, stagnazione e crisi sociale

     

    Abbiamo in precedenza cercato di mettere in evidenza il nesso che viene a stabilirsi fra crisi economica e crisi sociale all’interno dei paradigmi interpretativi che tendoni: privilegiare il piano economico. Resta da prendere in considerazione la particolare forma che la crisi assume quando si presenta come crisi prolungata, cioè come assenza di sviluppo, come arresto dell’espansione, come depressione o stagnazione.

    Contrariamente a quanto ci si sarebbe potuti aspettare i periodi storici dominati da fasi depressive del ciclo economico non appaiono particolarmente ricchi di tensioni sociali; sembra quasi che la depressione agisca come un fattore di rallentamento nella dinamica sociale, ne renda vischiosi i conflitti, ne congeli gli antagonismi. Tutto ciò - ben inteso - quando la fase depressiva non viene ad essere sincronizzata con altre instabilità su diversi piani (politico, culturale, ecc.). Curiosamente la conflittualità sociale appare assai più rilevante o in momenti di rapido sviluppo o di radicale crisi.

    Sono le modificazioni rapide dell’asse sociale consueto a liberare energie ed a permettere nuove forme di aggregazione sociale, la nascita di movimenti sociali nuovi, il fiorire di diverse culture ed etiche.

    È sufficiente per averne una conferma paragonare quanto accade durante la grande depressione con quanto si verifica in Europa negli anni Trenta: nel primo caso l’innescarsi di una fase depressiva sul piano economico non produce se non scarsi effetti sul piano sociale proprio perché ad essa non si associa un venir meno sul piano culturale delle strutture costitutive della vita associata, nel secondo caso invece la stagnazione si associa con una diffusa instabilità tale da catalizzare le energie di molti settori sociali subalterni.

     

    3. 4. Una nuova versione della teoria del crollo: il dibattito sui limiti dello sviluppo

     

    Recentemente di fronte al nuovo scatenarsi sul piano mondiale di una dinamica di crisi o quantomeno di instabilità sul piano; economico che ha caratterizzato gli anni Settanta e tuttora permane, ha ripreso una notevole consistenza una tematica che si è presentata come critica delle ideologie sviluppiste assolutamente dominanti dalla fine della Seconda guerra mondiale a tutti gli anni Sessanta: la questione dei limiti dello sviluppo.

    È noto infatti che per tutto il periodo che va dal 1945 agli ultimi anni Settanta l’immagine del mondo che era di gran lunga la più diffusa era quella di una realtà indubbiamente piena di contraddizioni, con immense differenze culturali ed economiche, ma avviata comunque verso un traguardo rappresentato dalla società opulenta (o affluente, o consumistica a seconda di come si preferisse aggettivarla). Anche il conflitto ormai decennale fra modello di sviluppo capitalistico o socialista (id est sovietico), conflitto non solo teorico ma che aveva come cruento campo di sperimentazione tutto il vasto universo rappresentato dai paesi in via di sviluppo (o sottosviluppati o Terzo Mondo, anche in questo caso a seconda delle preferenze) appariva sostanzialmente come un conflitto che aveva al suo centro la velocità dei processi di accumulazione e solo secondariamente la struttura sociale che a ciascuno dei modelli era od appariva sottesa.

    Un primo significativo scossone a questa fiducia nel progresso, negli indici di sviluppo, nella possibilità di una generazione senza fine di ricchezza sociale veniva dato, contemporaneamente, dall’aprirsi di signifìcative contraddizioni per opera di settori sociali massificati dallo sviluppo stesso quali gli studenti in Occidente, dall’impraticabilità sociale prima ancora che economica di entrambi i modelli quale veniva ad emergere dalla contraddittoria esperienza cinese. Si trattò di una messa in discussione puramente ideologica, di una critica dei valori posti alla base di quello stesso sviluppo (pur con il rilevante dato di fatto che si trattava di una messa in discussione che coinvolgeva migliaia di individui in Occidente ed il paese più popoloso del mondo in Oriente).

    Motivi assai più materiali di crisi non tardarono però a venire alla luce: i primi anni settanta vedono il crollo del sistema monetario sancito a Bretton Woods, l’innescarsi di una dinamica inflazionistica a livello mondiale che appare destinata a restare una costante per gli anni a venire, infine viene a porsi con efficacia dirompente il problema dell’energia, base indiscussa del modello di sviluppo industriale così come si è realizzato ad Ovest quanto ad Est.

    È allora che ci si trova di fronte ad una ripresa da più parti delle tematiche dei limiti dello sviluppo, non solo da parte di un pensiero critico ma anche da parte di fonti interne ai gruppi dirigenti (I limiti dello sviluppo, Mondadori, Milano, 1972). Viene formulata l’ipotesi dello "sviluppo zero", di un controllo dei meccanismi di accumulazione che ponga fine all’espansione senza freni; tematiche come quella dell’ambiente e dell’inquinamento cessano di essere patrimonio di gruppi radicali e diventano materia di dibattito internazionale.

    Non è facile far chiarezza all’interno di questo dibattito, che vede spesso alleanze stranissime e contraddittorie, con i paesi prima alfieri dello sviluppo improvvisamente convertiti ad un dubbio credo ecologico e con il Terzo Mondo (che pure di quello sviluppo aveva fatto le spese) che proclama il proprio diritto a dotarsi di un apparato industriale, poco importa se con tassi di sicurezza ambientale da far impallidire quelli della Manchester ottocentesca, con l’intero Occidente favorevole al controllo demografico (pur senza averne grande bisogno avendo già raggiunto tassi di incremento assai bassi od addirittura nulli) e con non pochi paesi sottosviluppati contrari a ciò che appare come un ennesimo strumento di dominio da parte dei più forti. Ciò che è evidente e che l’attuale modello di sviluppo industriale è sempre più produttore di contraddizioni, d’altra parte si presenta per gran parte del mondo come l’unica via per uscire dal sottosviluppo; gli ultimi anni settanta segnano infatti la crisi di molte delle utopie rivoluzionarie che nel terzo mondo avevano tentato diverse strade: per la Cina suona l’ora delle quattro modernizzazioni.

     

  7. Crisi sociale e soggettività politica
  8.  

    Abbiamo già ricordato come uno dei nodi principali all’interno del fenomeno crisi sia rappresentato dal problema della soggettività politica che dalle crisi viene generata e dentro le crisi agisce. Ciò può essere preso in esame da due diversi versanti, prima di tutto considerando le modificazioni che nella soggettività collettiva vengono provocate dal verificarsi di una dinamica di crisi, in secondo luogo verificando il ruolo della soggettività politica nel concreto svolgersi dell’instabilità, nel condurlo verso quello che appare come un conseguente sbocco rivoluzionario. In questo secondo caso un passaggio necessario è rappresentato dalla rivoluzione bolscevica, dal suo intrecciarsi di dinamiche oggettive e di determinazioni volontaristiche; nel primo caso invece è opportuno rifarsi alla Germania weimariana, al suo rappresentare la dissoluzione di un assetto economico e statuale senza ciò si sia tradotto in una radicalizzazione sovversiva di massa ma abbia invece generato un vasto movimento reazionario.

     

  9. 1. Soggettività ed oggettività nella rivoluzione bolscevica
  10.  

    Sono noti i fattori costitutivi della crisi dell’impero zarista, crisi arrivata al suo acme con l’ottobre 1917. Nell’ultimo scorcio dell’Ottocento e nei primi anni del Ventesimo secolo la Russia subisce l’impatto di un rapido processo di industrializzazione che si concentra quasi totalmente nelle regioni europee. La nuova struttura industriale, cresciuta grazie ai capitali ed alla tecnologia provenienti dai più progrediti paesi europei pone le premesse per un rapido processo di proletarizzazione di larghi settori delle classi subalterne e finisce col provocare la costituzione di una classe operaia sostanzialmente omogenea e strutturalmente analoga a quella dell’Europa occidentale, per quanto fortemente minoritaria all’interno della struttura sociale del paese. Ciò diventa immediatamente fattore di squilibrio in situazione in cui il potere politico si presenta ancora come autocrazia burocratico-militare ed in cui la struttura di classe appare ben lungi dall’essere strutturata secondo linee proprie di una società borghese. La legittimazione ristretta su cui il potere politico si appoggia e la conseguente mancanza di ogni spazio di mediazione di tipo politico e sindacale fanno assumere carattere dirompente alle manifestazioni che hanno per protagonista la classe operaia: gli scioperi di massa. Contraddittoriamente l’impossibilità di un’organizzazione politica e sindacale della classe operaia se priva quest’ultima di un efficace strumento di difesa rende lo Stato incapace di utilizzarne le lotte ai fini di una sua razionalizzazione e modernizzazione, secondo le linee quanto stava invece accadendo in Europa occidentale. Ciò fa sì che non appena manifestano tendenze all’autorganizzazione operaia i neonati organismi si configurino come struttura contrapposta alle istituzioni statuali e ad esse antagoniste: i soviet. Ma l’elemento scatenante tanto nel 1905 quanto nel 1917, il fatto capace di funzionare da catalizzatore, è la sconfitta militare ed i contraccolpi che essa provoca in seno all’esercito (a base essenzialmente contadina) ed alla marina (a base essenzialmente proletaria). Scarsamente legittimato sul piano del consenso l’apparato zarista vacilla quando entra in crisi l’apparato della forza.

    A partire dagli elementi su ricordati scaturisce l’originale intreccio di rivendicazioni democratico-parlamentari e obiettivi specificatamente operai che caratterizza in entrambi i momenti il movimento di massa, intreccio colto nell’elaborazione politica bolscevica e leninista che ne fa il punto cardine della propria agitazione e propaganda. Lenin legge la situazione sociale e politica della Russia come il prodotto di uno sviluppo capitalistico indotto dall’esterno senza che vi sia un soggetto sociale (una borghesia) in grado di reggerne il peso e condurre la necessaria modernizzazione dell’apparato statuale. Di qui l’anomalia della situazione, tale da rendere necessario per il proletariato farsi carico di compiti altrove già svolti dalla borghesia, di qui anche l’attenzione posta al problema dello Stato, individuato come macchina di dominio da spezzare attraverso l’insurrezione e la conquista del potere politico. E un compito rivoluzionario del genere richiedeva da un lato un mutamento radicale nella soggettività di massa che solo un evento traumatico era in grado di provocare, dall’altro la presenza di una forma di soggettività politica diversa dal movimento di massa preesistente ed in grado di dirigerlo e coagularne la forza. Il processo di autorganizzazione sovietista innescatosi nel 1905 e (con ben altre dimensioni) nel 1917 venne a fornire il primo elemento, la creazione lenta del Partito bolscevico garantì il secondo.

    Nell’analisi leninista e bolscevica la crisi sociale viene così a costituire una delle condizioni dell’evento rivoluzionario, il suo maturare è guidato da dinamiche oggettive, economico-sociali, il suo esplodere è il frutto di una crisi nell’apparato dello Stato. Il partito d’avanguardia costituisce la seconda delle condizioni necessarie; la sua costituzione va preparata accuratamente nel periodo precedente, di incubazione della crisi; compito del partito è trasformare la crisi in rivoluzione, concepita come presa del potere politico e distruzione della preesistente macchina statuale. La borghesia privata del suo Stato (dell’apparato della forza e dell’amministrazione) è strategicamente sconfitta.

    Con la vittoria dell’ottobre il paradigma rivoluzionario che aveva trionfato ad Oriente diventa un punto di riferimento per quanti, nel clima convulso del primo dopoguerra, leggono la guerra e la successiva crisi come l’annuncio della prossima fine del sistema capitalistico. Crisi sociale come condizione per l’organizzazione autonoma delle masse, costruzione di un partito d’avanguardia, preparazione dell’insurrezione destinata a dare sbocco politico alla crisi, conquista del potere come sinonimo di rivoluzione socialista, diventano concetti fondamentali per le frazioni di sinistra dei partiti socialisti, che si accingono a costituirsi in partiti comunisti. Nonostante i violenti dibattiti e le spaccature che attraverseranno la Terza internazionale per tutti gli anni venti ed i primi anni trenta, ben di rado tali postulati verranno messi in discussione e, pur come principi ideologici privi o quasi di ogni connessione con la pratica quotidiana, costituiranno le basi fondamentali della vulgata marxista fino a tutto il secondo dopoguerra.

     

    4. 2. Il tramonto del nesso crisi-rivoluzione nella Germania di Weimar

     

    La riflessione politica bolscevica e la rivoluzione d’ottobre mettono in luce l’inconsistenza o quanto meno l’insufficienza di ogni ipotesi che tenda a vedere un nesso lineare fra instaurarsi della crisi sociale e radicalizzazione rivoluzionaria di massa. Quella che era stata la dinamica tipica della crisi ottocentesca, al di là dei risultati e degli sbocchi a cui ogni singolo episodio pervenne, sembra non più ripetibile di fronte a fenomeni quali il rafforzarsi politico e militare degli apparati statuali da un lato e le complesse trasformazioni della struttura sociale dall’altro. Tuttavia, pur ipotizzando la necessità di un soggetto politico in qualche misura esterno e preesistente allo scontro sociale in atto, il progetto bolscevico non mette in discussione il fatto che lo sviluppo della crisi sia destinato a rendere larghi settori sociali desiderosi o quanto meno disponibili verso un cambiamento radicale. Di lì a poco invece sarà la dinamica della lunga crisi weimariana a smentire la validità generale di quel paradigma: la crisi di Weimar si presenta negli anni immediatamente successivi alla conclusione della prima guerra mondiale come per molti versi simile alla Russia del 1917. Anche lì l’impatto della lunga guerra, che ormai non poteva più essere vinta, provoca una caduta radicale della legittimazione; il combinarsi di un’insubordinazione operaia con la ribellione e la disobbedienza dell’esercito e della marina determinano il collasso dell’apparato statuale, quanto meno della sua parte emergente, dei livelli riconosciuti e riconoscibili dell’autorità.

    È la fine dell’impero, la repubblica è ormai una realtà; non solo ma il movimento appare organizzarsi in strutture consiliari: l’ottobre tedesco sembra alle porte ed una larga parte della sinistra comunista tedesca ne resta convinta per un periodo non breve tanto da azzardare avventure insurrezionali che si concluderanno con pesanti sconfitte.

    Solo col molta lentezza, attraverso il consumarsi più che decennale della repubblica, verranno alla luce alcune novità: prima fra tutte la sostanziale tenuta degli apparati statuali, non più identificabili con le forme e le strutture del potere politico ma dilatatisi oltre misura fino a comprendere (sia pure sui generis) le stesse organizzazioni di massa quali i sindacati e i partiti, compresi quelli nati con finalità antagoniste; in secondo luogo la tenuta dei legami organizzati all’interno della società civile, che fa sì che non emerga chiaramente un soggetto sociale in grado di imporre un proprio programma ed una propria egemonia; in terzo luogo il rapido modificarsi della composizione sociale dovuto ad un tempo ai meccanismi oggettivi della crisi ed ai processi accelerati razionalizzazione produttiva che vengo messi in atto da un capitalismo che la guerra aveva portato ad un livello di centralizzazione decisionale mai raggiunto in precedenza. Se vi fu qualcosa di simile ad una rivoluzione fu una "rivoluzione dall’alto". Si delineò in questo modo l’immagine una crisi prolungata, in cui l’instabilità politica sembrò essere divenuta una costante; ma ancora maggiori sorprese doveva rivelare una nuova precipitazione della crisi, sull’onda della catastrofe del 1929.

    La nuova fase acuta dei primi anni Trenta mostra, diversamente dai primi anni del decennio precedente, un distacco netto di larghi settori di massa dallo Stato, ma con esiti sorprendenti: di fronte ad una radicalizzazione a sinistra di strati tutto sommato limitati provenienti dalla vecchia base del Partito socialdemocratico esplode il movimento di massa nazionalsociali. Settori sociali tra loro molto diversi vi confluiscono: piccola borghesia, nuovi ceti medi, quella parte della borghesia capitalistica protagonista della razionalizzazione produttiva e bisognosa di un controllo diretto sulla forza-lavoro, gruppi (ancorché ristretti) del proletariato meno organizzato.

    Molti schemi di lettura dei comportamenti di massa, che erano sembrati inattaccabili, entrano in crisi: la domanda che pone Wilhelm. Reich: "Cosa spinge centinaia di migliaia di persone a muoversi in modo assurdamente contrario ai propri interessi, materiali?" sollecita risposte non facili a darsi. Lo stesso Reich tenta di risolvere l’interrogativo fondando una teoria dei comportamenti sociali in cui le condizioni materiali vengono mediate da una struttura antropologica che ha recepito ed introiettato le dinamiche dell’oppressione e della subordinazione; la scuola di Francoforte ed in particolare M. Horkheimer giungono ad una visione lucidamente pessimistica sulle possibilità reali di un radicale mutamento sociale a partire da un’analisi delle modificazioni intervenute nella struttura statuale moderna e delle capacità del capitalismo industriale di intervenire nella struttura profonda della personalità.

    Al di là delle soluzioni specificatamente date è il problema della costituzione della soggettività che viene a porsi come centrale: anche se si continua a pensare che "è l’essere sociale che determina la coscienza" è necessario ridefinire cosa si intende per essere sociale e quale sia il rapporto fra collocazione materiale all’interno dei rapporti di produzione dati e genesi dei comportamenti individuali e collettivi. Ciò in un quadro in cui consolidate distinzioni quali quella fra lavoro produttivo ed improduttivo, fra sfera della produzione e sfera della riproduzione, fra sociale e statuale, iniziano a mostrare la corda.

    La crisi di Weimar segna così il tramonto definitivo del nesso crisi-rivoluzione, quantomeno nei paesi dell’Occidente industrializzato. Il secondo dopoguerra vedrà ancora in atto una conflittualità sociale spesso molto violenta ma in nessun caso una dinamica rivoluzionaria concepita come conquista dei potere. La crisi diventa generatrice di comportamenti antagonisti che investono la sfera sociale, modificano gli equilibri politici, dislocano diversamente i rapporti tra livello statuale e sfera sociale, ma non assumono valenze di rottura.

     

  11. Due modelli di crisi: il 1848 ed il 1929

 

Credo opportuno a questo punto proporre un sintetico esame delle due maggiori fasi di crisi sociale e politica che hanno attraversato il mondo contemporaneo: il 1848 ed il 1929. Attraverso una comparazione fra questi due periodi sarà possibile verificare in atto i paradigmi esplicativi che si è cercato di esaminare separatamente in precedenza e misurarne - per quanto superficialmente - le potenzialità conoscitive.

Molte sono le somiglianze fra le due crisi, prima di tutto la vastità delle situazioni coinvolte, che in entrambi i casi coincide con l’area geografica investita dal processo di sviluppo industriale-capitalistico: l’Europa nel 1848, pressoché il mondo intero nel 1929; la radicalità ed il carattere per così dire epocale in secondo luogo, in quanto entrambe hanno rappresentato una sorta di cesura nel susseguirsi degli eventi storici: il 1848 segna infatti la fine delle rivoluzioni borghesi, il chiudersi di una fase in cui l’unione delle masse sotto il vessillo del Terzo Stato (o del popolo) aveva concretamente modificato la storia; il 1929 fa giustizia più che dell’idea di uno sviluppo economico senza limiti (concetto destinato ad avere ancora lunga anche se non feconda vita) di ogni teoria che veda nelle forze produttive il motore della storia, ridà spazio alla mediazione politica e contemporaneamente la piega ad un terreno ad essa in precedenza estraneo quale il governo della produzione e della riproduzione sociale.

Ma ancor più grandi sono le differenze: il 1848 si manifesta con il fiammeggiare della rivoluzione politica, con l’intrecciarsi delle bandiere della democrazia e della nazione, con il contemporaneo levarsi delle barricate e delle insurrezioni attraverso l’Europa, con il costituirsi e l’adunarsi di assemblee e parlamenti; nel 1929 nulla appare tanto lontano quanto ogni idea di rivoluzione politica, mai un cambiamento di regime è apparso così inadeguato di fronte alla spirale perversa che blocca progressivamente la produzione e la circolazione delle merci.

Non solo, ma se il 1848 vede contemporaneamente il realizzarsi sia pur contraddittorio delle capacità egemoniche della borghesia e l’emergere sia pur momentaneo e subito represso di un soggetto sociale antagonista portatore anch’esso di un punto di vista generale (la classe operaia) il 1929 è segnato dall’agitarsi convulso di masse di senza lavoro che fanno della propria particolarità quotidiana, della propria sopravvivenza, quasi l’unica bandiera; nessun soggetto sociale specifico appare costituirsi come soggetto politico mentre solo la mediazione statuale emerge vincente quale principio d’organizzazíone delle basi materiali della società civile. Ma è tempo di passare ad un.esame più dettagliato di questi anni cruciali.

 

5. 1. Il 1848 come crisi di egemonia

 

In Europa molte cose vanno mutando: sottoposti all’onda lunga originata dalla rivoluzione francese del 1789 e investiti dagli effetti della rivoluzione industriale - che dall’epicentro britannico sta ora giungendo all’Europa continentale - gli equilibri sociali tendono a rompersi. Nelle aree più avanzate le borghesie consolidatesi sul piano sociale ed economico pongono la propria candidatura alla gestione integrale del potere politico. In molte situazioni la spinta verso la costituzione, il parlamento, si colora di rivendicazioni nazionali e di spinte all’unificazione: è il caso dell’impero d’Austria, dell’Italia e della Germania.

Nel cuore della crisi, in quella Francia che già era stata protagonista di due rivoluzioni - parallelamente e contro la mobilitazione della borghesia per la repubblica parlamentare emerge sia pur confusamente la parola d’ordine della repubblica sociale fatta propria da quei settori di proletariato urbano che stavano subendo la trasformazione in classe operaia per opera dei processi di accumulazione in atto.

Apparentemente - è noto - il 1848 si conclude con una secca sconfitta di tutte le spinte più innovative: i movimenti liberali e nazionali vengono repressi; in Francia dopo la sconfitta manu militari degli operai la strada è aperta al bonapartismo in sedicesimo di Luigi Napoleone, la Gran Bretagna, il paese dove più avanzato era il processo di formazione di una struttura sociale moderna, non viene praticamente toccata da quanto avviene negli altri paesi. Nonostante questo però il 1848 innesca processi a lunga scadenza destinati a mutare la faccia del vecchio continente; per rendercene meglio conto prendiamo in esame specificatamente le varie situazioni, a cominciare da quella più avanzata: la Gran Bretagna.

In Inghilterra gli effetti della rivoluzione industriale avevano pesantemente segnato la struttura sociale e gli equilibri politici; la vittoria della Anti Corn Law League e la riforma elettorale avevano ormai consegnato il potere politico nelle mani della borghesia industriale, che forte deg propria raggiunta egemonia può a questo punto allearsi con le frazioni sconfitte dell’aristocrazia fondiaria e fronteggiare la nuova classe prodotta dall’industrialismo. Già all’inizio degli anni quaranta le contraddizioni nella società civile assumono la forma di scontro di classe attraverso l’esperienza del movimento cartista; la classe operaia ed il proletariato inurbato danno vita ad un processo organizzativo autonomo favoriti anche dall’assenza di una piccola borghesia radicale. Pur con tutte le specificità proprie alla storia inglese i nodi europeo risultano già affrontati e in qualche modo risolti: né la borghesia ha ancora bisogno di conquistarsi tutto il potere né il movimento operaio necessita di fare le sue prime prove.

Ben diversa la situazione francese: dopo le colossali mutazioni sociali indotte dalla Grande rivoluzione e dal Primo impero una restaurazione puramente politica era sboccata, con il sussulto del 1830, nel governo dell’aristocrazia finanziaria. La protesta contro la monarchia di luglio vede l’intera borghesia sviluppata dall’innescarsi dei processi di industrializzazione tentare di porsi alla testa di larghi strati sociali, sotto la bandiera della repubblica parlamentare. Quegli stessi processi che avevano potenziato la borghesia ne avevano però creato l’antagonista potenziale, la cui strada inizia a divaricarsi. Ne nasce una situazione di stallo, risolta solo attraverso una forma di cesarismo.

Ancora diversa la situazione che si viene a creare in Germania, in Italia e nell’impero d’Austria: aree che tutte hanno in comune una struttura sociale influenzata ancora in misura assai limitata dalle dinamiche dell’industrializzazione, ed una borghesia quindi strutturalmente debole e diversa per mentalità ed origini.

Le sezioni radicali della borghesia vengono duramente sconfitte, l’egemonia borghese (e per quanto riguarda Italia e Germania la stessa costruzione dello Stato nazionale) si realizzerà non attraverso una violenta rottura nella società ed una significativa modificazione dell’apparato statuale ma attraverso un processo di lenta conquista di quest’ultimo con l’ovvio corollario di un compromesso sostanzioso con le classi dominanti tradizionali ed i ceti politici da esse espressi.

La crisi generale del 1848 si presenta come una crisi di egemonia, in cui soggetto sociale preciso (la borghesia nella sua totalità e non più solo frazioni di essa) tende a presentarsi come portatore dell’interesse generale trovandosi però a dover fare i conti con un soggetto antagonista. Ciò segna ad un tempo il nascere pieno della società borghese e la fine della sua fase rivoluzionaria. Le borghesie delle zone arretrate dovranno sostituire al berretto frigío le bandiere della moderazione e delcompromesso.

 

5. 2. Il 1929 come crisi senza soggetto

 

Lo scenario storico che ci si presenta di fronte all’alba degli anni Venti appare quasi irriconoscibile se confrontato con l’immagine del mondo (quantomeno delle sue aree industrializzate) quale appariva soltanto dieci anni prima. La guerra mondiale determinò infatti una sorta di contrazione del tempo condensando in pochissimi anni mutamenti drastici e irreversibili: cominciamo dal più noto e citato, al di là dei vincitori e degli sconfitti l’Europa perde bruscamente quella centralità che aveva mantenuto per i quattro secoli successivi alla scoperta dell’America.

Il cervello finanziario mondiale si è spostato dalla City londinese. alla statunitense Wall Street; le potenze dell’Intesa sono pesantemente indebitate con il tardivo alleato d’oltreoceano e solo grazie al suo intervento sarà possibile porre un freno alla catastrofica crisi monetaria tedesca (foriera inoltre di tensioni sociali tanto più preoccupanti dopo l’esempio dell’ottobre sovietico).

Non solo, se la razionalizzazione industriale e produttiva ha fatto passi da gigante in tutti i paesi sviluppati e con essa il processo di formazione di nuove sezioni della classe operaia, è negli Usa che essa ha raggiunto il suo livello più avanzato già a partire dagli anni precedenti la guerra. L’introduzione progressiva del taylorismo, la sua applicazione alla produzione di beni di consumo durevoli quale l’automobile, la catena di montaggio ed il fordismo modificano drasticamente l’organizzazione produttiva e danno vita a nuovi settori operai diversi per comportamenti, ideologie, valori da quelli ancora maggioritari in Europa. Sembra giunta, per gli Stati Uniti, l’era della prosperità senza fine; il ruolo centrale conquistato sul piano economico e finanziario si traduce immediatamente in centralità culturale e artistica, si inverte il flusso delle comunicazioni culturali e le creazioni letterarie, musicali, artistiche e cinematografiche made in Usa invadono il vecchio continente, che appare per così dire incapace di reagire al trauma della guerra da poco conclusasi.

È in questo quadro che esplode la crisi irradiandosi fulmineamente a partire dal cervello finanziario statunitense: Wall Street. Il crollo della Borsa di New York intacca duramente prima ancora che la finanza e l’economia l’immagine diffusa di prosperità che stava diventando quasi un senso comune. Nel giro di pochi mesi poi si innesca un circolo vizioso che appare irrefrenabile composto da fabbriche che chiudono, masse di disoccupati che aumentano, riduzione della domanda dovuta alla caduta del potere d’acquisto ... e si ricomincia da capo. Di lì a poco gli Stati Uniti si popolano di masse di senza lavoro che vagano alla ricerca di una qualche elementare possibilità di reddito.

L’impatto è molto forte, pur con differenze tra paese e paese, anche in Europa e nel resto del mondo; solo la Russia sovietica, arroccata in quello che sta diventando il modello staliniano, sembra essere immune dal contagio. Il livello delle tensioni e dei conflitti sociali si alza - come è naturale - bruscamente: la richiesta di reddito viene portata avanti con forza da parte degli strati più colpiti dalla crisi; stranamente però la conflittualità sociale non si rovescia, se non in misura estremamente limitata, in instabilità politica. Lo schema "crisi sociale uguale ad instabilità ed a rivoluzione politica (quantomeno tentata)" questa volta non è applicabile. Per quale motivo? Possiamo qui solo accennarne alcuni, forse i principali: prima di tutto il livello a cui la crisi si è manifestata ed il modo con cui ha progredito, il piano della finanza e l’arresto da essa determinato dell’attività produttiva configurano- un terreno assolutamente altro e distante dai movimenti di massa, un terreno che si presenta quasi sotto l’aspetto dell’oggettività; in secondo luogo l’assenza di un soggetto sociale in grado di porsi come soggetto politico omogeneo, poiché tale non è la classe operaia statunitense attraversata da incrinature precedenti la sua costituzione (le successive ondate migratorie) ed a essa interne (frutto queste ultime dei processi di ristrutturazione).

L’uscita dalla crisi non fu quindi possibile grazie ad una rottura politica ma grazie ad una profonda modificazione del rapporto Stato-società che tese a fare del primo i regolatore ed il cervello della seconda;_fu ciò che prenderà il nome di new deal, progetto politico che si appoggiava ad una vasta coalizione di ceti sociali in qualche misura subalterni ma incapaci, ciascuno per proprio conto, di esprimere un punto di vista generale. I decenni successivi alla grande crisi si incaricheranno di dimostrare come, per quanto riguarda le aree industrializzate del mondo, le novità emerse negli Usa alle soglie degli anni Trenta fossero destinate a diffondersi ampiamente, lo Stato ad intervenire sempre più massicciamente in un’economia incapace di ogni spontaneo equilibrio, la politica a diventare l’unica immagine complessiva della società civile anche se sempre più formale, i soggetti sociali a frantumarsi ed a perdere ogni capacità di produrre un progetto complessivo ed una immagine unitaria della realtà.

 

 

[NB: testo rielaborato ad uso interno per il corso di aggiornamento MPI di Desenzano sul Garda – non deve essere diffuso all’esterno senza il consenso dell’autore]

 

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