IL SECOLO DELLE MIGRAZIONI

Per una storia delle migrazioni del XX secolo

Dino Barra

 

UNA DELIMITAZIONE CONCETTUALE

Il ‘900 è il secolo che ha fatto registrare i maggiori flussi migratori: si calcola attorno ai cento milioni il numero dei migranti di questo secolo, escludendo le vittime di migrazioni coatte, deportazioni, esodi e altri consimili movimenti di popolazione. Le conseguenze di tale fenomeno sono state enormi: dal punto di vista della redistribuzione della ricchezza internazionale, dal punto di vista della composizione demogra-fica e culturale che in alcuni continenti è stata completamente rimo-dellata.

Chi voglia insegnare la grande vicenda delle migrazioni del ‘900 deve usare con precisione questo concetto: con esso vogliamo intendere un tipo di mobilità territoriale determinato da moventi di tipo economico (come la ricerca di più favorevoli condizioni di lavoro) o politico (come la ricerca di situazioni più soddisfacenti per l’esercizio dei diritti individuali e collettivi) con caratteri di volontarietà più o meno effettiva. " cosa diversa e da non confondere con altri tipi di movimenti di popolazione come invasioni, conquiste, deportazioni, esodi, colonizzazioni...

In questa sede circoscriviamo la nostra attenzione alle migrazioni caratterizzate da moventi di tipo eminentemente economico, che hanno interessato, in entrata o in uscita, l’Europa. Sono quelle più consistenti dal punto di vista quantitativo e consentono di fare discorsi formativamente, oltre che storiograficamente, interessanti sulle cause delle migrazioni (i fattori di spinta, d’attrazione, facilitanti, in genere connessi all’esistenza di squilibri economico-territoriali) e sulle loro conseguenze soprattutto culturali (creazione di società multi e interculturali). Un filone tematico che volesse offrire del nostro secolo questa chiave di lettura si porrebbe in tal modo all’incrocio tra le istanze proprie dell’ educazione allo sviluppo e dell’educazione interculturale.

Dei tanti, abbiamo scelto di indicare, per questo possibile filone tematico, i seguenti casi: le migrazioni dall’Europa alle Americhe nel periodo 1890-1914; le migrazioni interne all’Italia del periodo 195I-71; le migrazioni verso l’ Europa e l’ Italia dai Paesi del sud del mondo dell’ ultimo ventennio. Di questi casi offriamo una mappatura degli aspetti (dei concetti) da noi ritenuti più interessanti dal punto di vista formativo oltre che storiografico.

1 - LE MIGRAZIONI TRANSOCEANICHE DI INIZIO SECOLO

E’ inevitabile partire dalle grandi migrazioni transoceaniche di fine/inizio secolo. Tra il 1890 e il 1914 si assiste ad un massiccio flusso migratorio che coinvolge i Paesi dell’Europa mediterranea ed orientale dove "agiscono quelle stesse forze che avevano contribuito negli anni precedenti alla trasformazione della vita sociale ed economica dell’Europa settentrionale ed occidentale - ossia il tramonto dell’agricoltura tradizionale, l’industrializzazione e l’aumento della pressione demografica" (Glazier, p92) le quali hanno l’effetto di determinare una disponibilità di manodopera superiore alla reale domanda. Sotto il profilo storiografico e didattico, dunque, questa ondata migratoria deve essere compresa dentro il processo più ampio della rivoluzione industriale e della sua diffusione. La crisi agraria europea che ebbe inizio negli anni ’70 svolge un ruolo scatenante, mentre la riduzione delle barriere legali, e la riduzione dei costi di trasporto facilitano la realizzazione del progetto di emigrare.

Lo spostamento dei flussi migratori dall’area dell’Europa centro-occidentale a quella dell’Europa sud-orientale in coincidenza anche con la rapida industrializzazione di Germania e Scandinavia nella seconda metà dell’800 confermerebbe la validità del modello secondo cui l’emigrazione si verifica all’inizio del processo di modernizzazione e rientra successivamente, quando il processo si è consolidato e, anzi, il Paese tende ad attrarre lavoratori da fuori.

Gli USA (e in genere il continente americano) costituiscono il grande fattore d’attrazione per gli immigrati europei, "date le enormi estensioni di terra disponibili, le leggi agrarie assai liberali, un’industria in rapida crescita e possibilità di impiego in continua espansione". (Glazier, p. 68)

Per completezza va detto che il fenomeno dell’emigrazione europea verso le Americhe non fu l’unico: "dopo il 1870, 20 milioni di lavoratori cinesi ed indiani si trasferirono nei Paesi tropicali" (Glazier): Birmania, Ceylon, Africa orientale e meridionale, Asia meridionale; un milione di giapponesi si trasferì in Brasile; quasi otto milioni di russi si insediarono nella Russia asiatica, mentre vi fu un’altra direttrice dell’emigrazione europea verso l’Africa settentrionale e l’Oceania.

L’Italia ha offerto alle migrazioni di inizio secolo il flusso più consistente: tra il 1871 e il 1915 oltre 13,5 milioni di individui, prima dal Nord e poi soprattutto dal Sud, emigrarono nel resto d’Europa e oltremare. Questa massiccia migrazione rimanda a fattori comuni ad altre situazioni come la stagnazione economica, la crisi e modernizzazione agraria e la crescente pressione demografica, ma anche ad una specificità tutta italiana come il forte dualismo territoriale tra città e campagna e soprattutto tra Nord e Sud.

Le fonti - soprattutto diari, epistolari, servizi giornalistici, atti di polizia - permettono di ricostruire aspetti di grande attualità dell’emigrazione italiana di questo periodo: le speculazioni legate al traffico di emigranti; le condizioni del viaggio, i problemi materiali legati alla vita nella società ospitante; gli atti di intolleranza di cui gli italiani furono vittime (l’eccidio di Aigues Mortes del 1893 in Francia) ma anche attivi protagonisti (come nel caso dei contadini veneti verso gli indios del Brasile); le strategie di sopravvivenza di fronte all’estraneità ed anche ostilità dei contesti di accoglienza, mediante il mantenimento delle reti familiari e della cultura tradizionale in quelle vere e proprie ricostruzioni dei contesti di origine che furono le "Little Italies".

Un flusso migratorio importante fu quello che riguardò gli ebrei dell’Europa orientale. Ne emigrarono un milione e mezzo tra il 1880 e il 1914 verso gli USA, mentre mezzo milione raggiunse Sudamerica, Canada, Europa, Palestina. Alle cause economiche già note si aggiunse in questo caso l’atteggiamento persecutorio dello Stato russo verso questa comunità e i numerosi pogrom che la colpirono. La vicenda migratoria degli ebrei russi e dell’Europa orientale permette di osservare in modo forse più netto che per altre comunità quell’aspetto chiave delle migrazioni che è la dinamica tra conservazione dell’identità e integrazione/assimilazione nei nuovi contesti di vita.

Gli effetti di questa grande migrazione sono stati importantissimi: essa ha favorito la crescita economica nelle zone di partenza (si pensi all’importanza, tra l’altro, delle rimesse degli emigranti nell’Italia giolittiana) allentando la pressione demografica e, nel contempo, anche quella sociale e politica (questa è anche l’emigrazione di tanti anarchici e socialisti); "la grande maggioranza di questi immigrati erano manova-lanza generica ed ebbero una funzione di primaria importanza nello sviluppo agricolo e industriale dei Paesi di accoglienza" (Glazier, p 63): essi colmavano gli squilibri tra la domanda e l’offerta di lavoro impedendo nel contempo la crescita dei salari (immigrati come fattore di calmiere salariale); alcuni Paesi di accoglienza, come gli Usa, vedranno sensibilmente modificata la loro composizione etnica e razziale e diventeranno un vero e proprio laboratorio sociale per la qualità nuova dei conflitti osservati (forte commistione di identificazioni di classe ed etnico-culturali, spesso confliggenti tra loro), per le politiche di inserimento, per il tentativo di dare identità nazionale omogenea ad uno stato strutturalmente composito dal punto di vista etnico e culturale (si pensi al principio del melting pot).

2- LE MIGRAZIONI INTERNE DEL SECONDO DOPOGUERRA

Il secondo passaggio del nostro itinerario compie un salto di scala passando dalle migrazioni intercontinentali a quelle interregionali all’interno di un contesto nazionale. Il contesto prescelto è ovviamente l’Italia e le migrazioni di cui stiamo parlando riguardano il periodo che va dal 1951 al 1971. Si tratta di un fenomeno che ha coinvolto quasi dieci milioni di persone nel periodo considerato, provocando un rimescola-mento senza precedenti della popolazione italiana. E’ un passaggio cruciale per la nostra storia.

Da un lato, esso costituisce un indubbio elemento di discontinuità, poiché induce processi di radicale cambiamento delle mentalità collettive favorendo il passaggio ad una modernizzazione culturale caratterizzata dalla prevalenza del modello urbano-industriale-consumistico; costituisce inoltre, con la televisione, il più potente fattore di unificazione (o, se si preferisce, omologazione) culturale che la storia nazionale abbia mai conosciuto.

Dall’altro lato, i flussi migratori interni del secondo dopoguerra rimandano al persistere di alcuni elementi di continuità della nostra storia nazionale: gli squilibri economico-territoriali tra città e campagna, tra Nord e Sud; la frattura, che è anche culturale, tra popolazione rurale e urbana, settentrionale e meridionale, che riemerge prepotentemente nell’incontro tra immigrati e autoctoni in forma di stereotipi e pregiudizi diffusi, chiusure, atteggiamenti razzistici. I governi centristi non attenuarono queste eredità del passato con politiche economiche adeguate: la scelta liberista non fu affiancata da interventi correttivi degli squilibri territoriali preesistenti e il ‘miracolo economico’, stimolato soprattutto dal libero gioco del mercato (domanda esterna ed esportazioni favorite dai bassi salari), finì per accentuare quegli stessi squilibri.

Le migrazioni interne del secondo dopoguerra sono forse le ultime migrazioni per attrazione, causate da carenza di manodopera nelle aree dello sviluppo industriale; esse si collocano dentro il momento di massima espansione del modello fordista che ha come suo polo centrale la grande fabbrica. In questo sono simili alla contestuale migrazione intereuropea che in quegli stessi anni spostò centinaia di migliaia di lavoratori dai Paesi dell’Europa mediterranea, Yugoslavia, Turchia e anche Maghreb verso gli Stati industrializzati del Nord Europa.

La fabbrica, e più in generale la società industriale con i suoi conflitti, la sua cultura e le sue forme di aggregazione improntano l’esperienza di vita compiuta dai migranti in questi anni. Si renderebbe un buon servizio alla memoria (in parte smarrita) di questo Paese se si ricostruissero con gli studenti, anche attraverso quel preziosissimo strumento di ricerca storica che sono le fonti orali, le condizioni di vita durissime che gli immigrati, non solo meridionali, dovettero affrontare nel passaggio dai contesti rurali a quelli urbani: l’inserimento nelle fasce basse del mercato del lavoro e la precarizzazione della condizione lavorativa (col fenomeno, ad esempio, delle famigerate cooperative, soprattutto a Torino); i bassi salari e gli orari lunghi; l’impatto con i tempi e l’ambiente del lavoro di fabbrica; il problema dell’alloggio e la nascita delle ‘coree’; le relazioni con gli autoctoni e i problemi di integrazione culturale, a partire dalla comprensione linguistica legata all’uso dei dialetti per arrivare all’incontro-scontro tra modelli culturali diversi, dentro e fuori la fabbrica.

3 - LE MIGRAZIONI INTERNAZIONALI DA SUD A NORD

La ricostruzione della memoria storica del nostro passato migratorio è una delle finalità che attribuiamo a questo filone tematico sulle migrazioni, condizione certamente non sufficiente e tuttavia necessaria per indurre modificazioni positive e meno ansiogene nell’atteggiamento degli studenti verso i problemi attuali dell’immigrazione.

Altra condizione necessaria per perseguire questo obiettivo è la conoscenza dei meccanismi connessi ai fenomeni migratori contemporanei.

Il dato più rilevante di questo periodo (che può essere fatto incominciare dalla crisi petrolifera del 1973 e dal conseguente avvio di profondi processi di ristrutturazione produttiva) è l’inversione della direzione di marcia del movimento migra-torio: l’Europa occidentale, compresa quella mediterranea, si trasforma da luogo di partenza sempre più in luogo di arrivo per centinaia di migliaia di migranti nord e centrafricani, sudamericani, asiatici e, dalla caduta dei regimi socialisti, anche dell’Europa orientale (inversione di marcia non totale, però: i dati statistici continuano a registrare circa un milione di europei che negli ultimi vent’anni si sono recati a lavorare negli Usa. Si tratta soprattutto di manodopera altamente qualificata).

I flussi di questo scorcio finale del secolo investono ovviamente anche altre aree: gli Usa e il Canada, ma anche i paesi mediorientali produttori di petrolio e le aree più industrializzate e urbanizzate degli stessi Paesi del Sud del mondo. Il dato comune è l’attrazione esercitata dalle aree economicamente più avanzate su quelle più povere. In altre parole, i processi migratori sono attivati dall’esistenza di forti squilibri economico-territoriali e seguono la direzione che procede dalle periferie verso i centri dello sviluppo economico. Come è evidente, la trattazione di questa terza parte del nostro filone tematico rimanda alle grandi questioni dello sviluppo e del sottosviluppo economico e all’interno di questo contesto deve essere collocata.

Nelle attuali migrazioni, i fattori espulsivi sembrano essere prevalenti: mentre le migrazioni del secondo dopoguerra erano in qualche modo incoraggiate dai governi dei Paesi di accoglienza, poiché coincidevano con un periodo di forte espansione economica e occupazionale, queste migrazioni di fine secolo si svolgono, per i Paesi sviluppati, in un periodo di crescita senza sviluppo e in presenza di una disoccupazione ormai cronica; sono quindi il frutto di dinamiche interne ai Paesi economicamente periferici, che agiscono indipendentemente dai fattori di attrazione; queste dinamiche riguardano l’enorme aumento della pressione demografica e il concomitante aggravarsi delle condizioni di vita delle popolazioni di questi paesi, causato da una serie numerosa di fattori interni (crisi politiche, regimi dittatoriali, politiche economiche sbagliate...) ed internazionali (le ragioni di scambio tra Paesi produttori di manufatti e materie prime, il debito, le aperture ai processi di globalizza-zione e di decentramento produttivo gestite dai Paesi forti le politiche di "risanamento imposte dagli organismi economici internazionali...). Ai fattori di ordine demografico ed economico si affiancano quelli di natura culturale: "La diffusione della conoscenza dei modelli di vita occidentali (...) suscita ciò che è stato chiamato ‘la rivoluzione delle aspettative crescenti’. D’altra parte, la scolarizzazione di massa in forme per lo più eteronome, e l’omologazione culturale in atto a livello mondiale inducono un processo di ‘socializzazione anticipatoria’ (...l’acquisizione già nelle località di partenza dei valori e degli orientamenti propri delle società di inserimento)." (Clementi-Scognamiglio)

La centralità dei fattori di espulsione non deve far dimenticare l’esistenza di importanti fattori di attrazione, che orientano la direzione dei flussi migratori di questo periodo e ne determinano le caratteristiche. Il primo e più importante di questi fattori è il forte differenziale retributivo tra i Paesi in via di sviluppo e quelli sviluppati. Questi ultimi, poi, sembrano attivare una domanda di manodopera immigrata funzionale da un lato a correggere le distorsioni demografiche interne (crescita zero e invecchiamento della popolazione), dall’altro lato a sostenere le esigenze di un mercato del lavoro sempre più condizionato dal carattere postfordista dello sviluppo (calo occupazionale nella grande impresa e decentramento produttivo; crescita del lavoro autonomo e della piccola impresa legata soprattutto ad attività terziarie, con crescente bisogno di manodopera flessibile, precaria e non garantita). Soprattutto quest’ultimo elemento sembrerebbe spiegare i caratteri dell’inserimento degli immigrati nel mercato del lavoro, che avviene non più nelle grandi e medie industrie ma nelle piccole industrie e nel settore terziario a bassa qualificazione e ridotta tutela sindacale e giuridica.

Le migrazioni allentano la forte pressione demografica dei paesi in via di sviluppo e garantiscono a questi, attraverso le rimesse, risorse preziose per i consumi e per gli investimenti; parimenti, privano i Paesi più poveri di energie umane preziose, spesso le più giovani, colte, intraprendenti. Per questo è difficile valutare l’impatto delle migrazioni sui Paesi di provenienza e dire se, oltre che conseguenza, sono anche causa del sottosviluppo.

Quel che è certo, invece, è che le migrazioni di questo ultimo quarto di secolo stanno profondamente cambiando il profilo demografico e culturale dei Paesi di accoglienza. La Francia, la Gran Bretagna, la Germania, il Belgio, l’Olanda, in una certa misura anche l’Italia sono diventate "società multiculturali a tutti gli effetti, caratterizzate da un grado di diversificazione religiosa e razziale sconosciuto in passato". (Lee)

Questo processo viene gestito in modi diversi dagli stati europei, con l’adozione di diverse politiche di inserimento (dell’assimilazione, modello francese; dell’integrazione subalterna, modello inglese; del custodialismo, modello tedesco) e di diverse filosofie di naturalizza-zione (secondo il criterio dell’appartenenza etnica, ius sanguinis; secondo il criterio della territorialità, ius soli).

Nessuno di questi modelli è esente da limiti e fallimenti: le società multiculturali conoscono fenomeni di rifiuto (che vanno dall’espressione del pregiudizio e dello stereotipo all’estraneità alla xenofobia al razzismo) verso gli immigrati o un’accettazione della loro presenza in chiave di inclusione subordinata, dove l’immigrato è visto solo come lavoratore e non come cittadino; occorre ancora molta strada perché le società di accoglienza possano esprimere un atteggiamento generalizzato di cooperazione e cittadinanza.

E tuttavia, si osservano in queste società segnali inequivocabili di integrazione più o meno spontanea: la diffusione dei matrimoni misti e l’accesso dei bambini stranieri ai servizi scolastici; l’arrivo alla maturità dei figli degli immigrati - la cosiddetta ‘seconda generazione’- portatori di una cultura più meticcia (si pensi ai beur, i giovani maghrebini nati in Francia che vivono nelle periferie delle città francesi); la penetrazione vieppiù massiccia anche presso gli autoctoni di abitudini alimentari, mode e gusti estetici, generi musicali provenienti dai Paesi di origine degli immigrati.

In questo quadro la situazione italiana assume alcuni elementi di specificità: tra i Paesi europei, l’Italia è quello che forse più repentinamente ha compiuto il passaggio a Paese di accoglienza dimostrandosi politicamente e culturalmente impreparato ad affrontare questo cambiamento. I ripetuti allarmi su una presunta ‘invasione‘ di immigrati si rivelano inconsistenti, rappresentando il fenomeno, in Italia, meno del 2% della popolazione, contro un quasi 5% della media CEE. L’immigrazione italiana è poco omogenea e molto differenziata. Non c’è una comunità maggioritaria o settori privilegiati di reclutamento. Anche territorialmente la presenza degli immigrati è relativamente diffusa, anche se con una tendenza a concentrarsi soprattutto nelle grandi città. Si tratta in buona parte di una immigrazione di "primo ciclo", a prevalenza di immigrati maschi, giovani, soli (e nel caso di alcune comunità, anche a prevalenza femminile) che da qualche anno sta sempre più evolvendo verso una fase di maturità (presenza di nuclei familiari con figli che sviluppano richieste verso i servizi).

PER CONCLUDERE

L’intero percorso compiuto a partire dalle migrazioni transoceaniche di inizio secolo dimostra la profondità storica e l’estensione territoriale dei flussi migratori: in breve, la loro strutturalità rispetto ai processi globali del Novecento.

Di fronte ai problemi e alle opportunità che tali flussi hanno indotto e continuano a proporre si pone ineludibile la domanda sul che fare: chiudere le frontiere o aprirle, segregare o integrare, respingere o accogliere, controllare e gestire o limitare e rifiutare le spinte migratorie e, di fronte ad esse, proteggere le identità culturali o aprirle a processi di contaminazione... Tutte queste opzioni e molte altre sono sul tappeto e costituiscono oggetto di discussione: come tali devono essere proposte anche dentro la scuola. L’analisi storica, tuttavia, nel momento in cui mette a fuoco la strutturalità dei flussi migratori, ne comunica anche la inevitabilità, rende illusorio qualsivoglia atteggiamento di rifiuto verso di essi e ci sollecita a elaborare strategie di convivenza con questo fenomeno epocale.

 

Riferimenti bibliografici

Clementi M.- Scognamiglio N., Popoli in movimento, EMI, Bologna, 1993

Crugnola V., I fenomeni migratori, stampato ad uso interno del Cres-Mani Tese, Milano, 1997

E. Damiano (a cura di), Homo Migrans, Angeli, Milano, 1998

Ginsborg P., Storia d’Italia dal dopoguerra ad oggi, Einaudi, Torino, 1989

Glazier I. A., "L’emigrazione dal XIX secolo alla seconda metà del XX", in Bairoch P.- Hobsbawn E. J. (a cura di), "L’età contemporanea", vol V di Anderson P. e altri (dir), Storia d’Europa, Einaudi, Torino, 1996

M. Gusso, Alcuni nodi della storia delle migrazioni intercontinentali, in Homo migrans, op. cit., pp. 362-411

Lee E., "Aspetti storici", in Federici N. e altri, "Migratori, movimenti", contenuto in AA.VV., Enciclopedia delle scienze sociali, Istituto della Enciclopedia italiana, Roma, 1996, vol. V

Schellenbaum P., "Tempo di migrare", in Marazzi A. (a cura di), L’Europa delle culture, ISMU, Milano, 1996




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