La scuola secondaria superiore attraversa
una profonda crisi di legittimazione né appare probabile che basti
la sua riforma per uscirne. Tuttavia questa riforma si farà e sarà,
comunque, occasione di un processo generalizzato di aggiornamento e rinnovamento
di contenuti e discipline.
Qualche considerazione in riferimento
all'insegnamento della storia. Se come appare probabile - la nuova scuola
si articolerà in un anno (di collegamento e completamento dell'obbligo)
più altri quattro, è impensabile che si possa insegnare storia
antica a un quindicenne che andrà a lavorare. Lo stesso discorso
varrebbe anche nel caso di una soluzione biennio/triennio. Vi sarà
una commissione preposta alla stesura dei programmi. Sarebbe bene che essa
si limitasse a definire criteri e obiettivi e non programmi e gabbie cronologiche.
Ma questo appare improbabile. A mio avviso si dovrebbe partire dalla transizione
dal feudalesimo al capitalismo e dedicare l'ultimo anno alla sequenza che
va dalla crisi del '29 a oggi, senza che questo vieti la lettura di libri
con tagli verticali di più ampio respiro del tipo, per fare un esempio,
della Storia dell'antisemitismo di L. Poliakov.
Nella ripartizione (area comune, area
d'indirizzo, area elettiva), la storia rientra nell'area comune e nella
stessa area dovrebbero essere inserite le scienze sociali (a quanto si
capisce dalle formulazioni generiche dell'art.1 e dell'art.4) (32).
Basta scorrere gli indici di «Scuola e Città» o di «Riforma
della scuola» per accorgersi che l'inserimento delle scienze -sociali
è uno dei punti più dibattuti fin dalla fine degli anni '60.
Il modo in cui verrà introdotto il loro insegnamento non è
di secondaria importanza. Vi è infatti chi tende a un arricchimento
della storia mediante le scienze sociali e chi tende invece alla riduzione
della storia a «storia generale», sfondo su cui dovrebbero
imporsi le scienze sociali, delegate a fare intervenire il presente nella
scuola e a garantire i livelli di «scientificità» nella
comprensione del sociale (33). Si
tratta di logiche diverse che investono la distribuzione di «peso»
delle varie discipline, il giuoco delle loro relazioni nonché l'aggiornamento
degli insegnanti. Resta comunque il fatto che la traduzione in discipline
delle indicazioni generali sull'area comune è oggetto di delega
(art. 26) e poco si capisce del loro eventuale numero e degli eventuali
abbinamenti. Sembra tuttavia già chiaro che prevarrà una
logica «disciplinare» e non «tematica» o per blocchi.
A me sembra una giusta scelta, ma la ricomposizione in settori di discipline
affini è un grosso problema. Va evitato il rischio di «ammucchiate».
Nel testo di legge si intrecciano tre
diverse concezioni della scuola: quella di un'area cattolico-spiritualista
che mira alla formazione della personalità umana; quella di un'area
laica, molto vasta, che mira alla formazione del cittadino; quella di una
parte della sinistra che mira alla formazione di un «produttore»
capace di esercitare un controllo sui processi produttivi. Schieramenti
analoghi sono presenti tra gli insegnanti e le forze sociali. il fatto
che questa riforma si proponga di fare acquisire insieme formazione culturale
e capacità preprofessionali, inciderà profondamente sul peso
dell'area comune, sulla relativa autonomia della formazione culturale e
- specificamente - sull'insegnamento della storia e delle scienze sociali.
E questo tanto più quanto maggiori saranno le esperienze dello studente
nel mondo del lavoro.
Il testo di legge non prevede alcuna
sperimentazione, generalizzata e controllata, per i primi anni di entrata
in vigore della riforma, né fa capire la fine che faranno le varie
e positive sperimentazioni da tempo in atto (per es. a Reggio Emilia e
a Parma). Ma la riforma costringerà comunque a sperimentare una
nuova situazione didattica che richiederà un processo di aggiornamento.
Ritengo esemplare, sotto l'aspetto politico-organizzativo, l'esperienza
di aggiornamento che è stata fatta a Torino (34)
con l'assunzione di impegni da parte dell'Università a livello di
senato accademico e non di singoli docenti o istituti. Docenti universitari
e insegnanti conducono insieme corsi che hanno dimensioni di massa e che
sono capaci di decentrarsi a livello delle scuole. L'art. 22, a proposito
dell'aggiornamento parla di un piano che deve essere elaborato dal Ministro
della P.I. con l'assistenza tecnica dei vari Istituti Regionali per la
Sperimentazione e l'aggiornamento (IRSA) e in collaborazione con l'università.
Ma i decreti delegati prevedono una categoria di aggiornatori di professione,
insegnanti distaccati presso i vari IRSA, e ciò contraddice il modello
di Torino quanto al rapporto diretto scuola-università, rapporto
che vede l'università sede dell'aggiornarnento, in quanto già
sede della formazione degli insegnanti e luogo in cui dovrebbe farsi ricerca.
Una corretta impostazione dell'aggiornamento
deve tenere distinti due livelli: quello disciplinare, relativo all'acquisizione
di conoscenza, e quello professionale, relativo alla programmazione didattica,
ai criteri di verifica, ecc. L'aggiornamento disciplinare deve avere il
carattere della ricerca, deve conseguire il massimo di approssimazione
ai criteri scientifici della ricerca storiografìca contemporanea.
Questo si scontra con una Università che ha tradizionalmente ignorato
tali problemi e che, al suo interno, specie nelle facoltà umanistiche
non ha saputo legare ricerca e didattica. Per non parlare poi delle difficoltà
che incontra la riforma universitaria.
A Bologna una commissione di insegnanti
sindacalizzati affronta da qualche anno il problema dell'aggiornamento.
La linea prescelta è stata quella di un «connubio»
tra storia, economia e diritto. Si sono già effettuati due
corsi, il primo dei quali, nel 1976-77 era organizzato dall'Istituto
Storico della Resistenza di Bologna, col patrocinio dell'Università
locale e dei Centro Didattico Nazionale di Firenze. Il secondo, svoltosi
l'anno scorso, era direttamente legato all'Università. I corsi erano
finalizzati alla costruzione di itinerari di lavoro e di «repertori»
da utilizzare nella scuola. Si trattava nel primo caso della storia
economica e istituzionale degli ultimi cinquant'anni in Italia.
In esso fu particolarmente positiva la partecipazione di docenti delle
Facoltà di Storia, Economia e Giurisprudenza. Nel secondo caso,
si affrontava la transizione dal feudalesimo al capitalismo,
ma non fu possibile realizzare un identico grado di interdísciplinarietà.
I limiti di queste esperienze rispetto alla prospettiva dei «laboratori»
e della ricerca sono ancora notevoli, ma esse vanno nella direzione giusta:
modificare una situazione che L. Febvre descriveva sin dal 1933 con queste
parole: «agli insegnanti di storia non si domanda se sappiano leggere
e, se necessario, comporre e in ogni caso criticare una statistica; né
se conoscano gli elementi del diritto e i primi rudimenti della sua evoluzione;
né se siano capaci di spiegare che cos'è una moneta nel suo
corso quotidiano, che cosa significhi un cambio, che cosa realmente avvenga
dietro la facciata di una borsa o dietro gli sportelli di una banca; ci
si limita a chiedere quasi unicamente parole, date, nomi di luogo e di
uomini » (35).
Ma oggi vi è dell'altro. L'insegnante
di storia deve misurarsi con il fatto che i punti di vista degli adulti
e dei giovani sul tempo e sulla storia, si vanno divaricando. I
giovani cercano la geografia più che la storia, la libertà
degli spazi più che la disciplina dei tempi.« Vivere
alla giornata è la passione dominante. Vivere per te stesso: né
per chi ti ha preceduto né per chi ti seguirà. Stiamo rapidamente
perdendo il senso della continuità storica » (36).
Questa descrizione ha la sua verità ma essa è lontana dalla
lezione di quel maestro di modernità, che era Baudelaire, quando
scriveva che « il piacere che ricaviamo dalle rappresentazioni del
presente dipende non solo dalla bellezza di cui può essere rivestito,
ma anche dalla sua qualità essenziale di presente » (37).
Il fatto è che l'attenzione esclusiva al presente sembra determinata
oggi più dalla disperazione per il futuro che da quel piacere. A
questo fatto non si può rispondere né con l'indulgenza della
facile sociologia né con la sterile condanna dei moralismo.
Non credo che l'insegnamento della
storia possa fungere da «terapia»; credo invece che esso possa
avere una parte rilevante nel promuovere una formazione culturale capace
di resistere alle sempre risorgenti mitologie e nel dare un senso meno
problematico alla formula «conoscere per trasformare». Gli
studenti pongono domande: siano esse «tradizionalmente» storiche
o partano dall'immediato, dall'esigenza di autoconoscenza, dal sentimento
personale dell'«esser gettato», tali domande costituiscono
comunque un ponte verso la storia. Esse ripropongono l'utilità di
una storia «critica», la necessità di una cultura storiografica
che faccia posto ai nessi tra «l'individuale» e il «collettivo»,
tra vicende personali e processi sociali. Da qui si può tornare
a percepire quella «solidarietà dei tempi» così
descritta da Witold Kula: « le domande alla
storia sono poste dal presente e dalla sollecitudine per il domani; in
ciò ... consiste l'eterna giovinezza della scienza storica» (38).
NOTE
32. Mi riferisco
al testo approvato dall'VIII commissione permanente (Istruzione), il 14
giugno 1978, ora in discussione in Parlamento.
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33. AA.VV.,
Scienze sociali e riforma della scuola secondaria, Torino, 1977,
p. 117. Sui blocchi di studio pp. 83-119. È' evidente l'importanza
dell'introduzione delle scienze sociali. Il libro, elaborazione di una
commissione incaricata dal Consiglio italiano per le scienze sociali, -
propone una sequenza di blocchi tematici assai validi quanto agli obiettivi
conoscitivi, tuttavia tali blocchi hanno l'aspetto di sezioni del processo
storico e di comparazione tra sezioni diverse. Gli autori si richiamano
a M. Weber, richiamo più che legittimo. Ma, per restare ai classici,
il modello di Marx pare più congruo alla conoscenza storica, essendo
in esso considerata la problematica della trasformazione; cfr. W. Kula,
Teoria economica dei sistema feudale, Torino, 1970, pag. 10
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34. Cfr. Il comitato
universitario torinese per l'aggiornamento degli insegnanti, in «Cooperazione
educativa», 1978, n. I.. Cfr. G. Quazza, L'Università e
l'aggiornamento degli insegnanti in «Rivista di storia contemporanea»,
1978, n. I.. Questo articolo si segnala per l'ispirata attenzione
ai problemi della trasmissione culturale - spesso assente nei docenti universitari
- e per la chiarezza con cui si motiva l'elezione della università
a sede di aggiornamento. I risultati del primo anno di esperienza sono
stati presentati nelle «Giornate pedagogiche» di settembre,
organizzate dal suddetto Comitato in collaborazione con gli enti locali
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35. L. Febvre,
op. cit. p. 72
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36. C. Lasch, Jerry
Rubin. Da giovane ribelle a Profeta della società narcisistica.
New York, 30 settembre, 1976, riportato nel « Manifesto » del
28 aprile 1978.
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37. C. Baudelaire,
Scritti di estetica, Firenze 1948, p. 186.
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38. W. Kula,
Problemi e metodi dì storia economica, Milano 1972, p. 649-650.
Tra le sempre più numerose espressioni degli storici volte al domani,
propongo questa, perché in essa la speranza che la conoscenza storica
abbia senso, si copre di certezza.
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