di Giannantonio Paladini
Se per "uso pubblico della storia" si intende, con Jürgen Habermas,
"un dibattito che è in ultima istanza etico e politico sul passato",
allora la discussione sulle foibe ne è un caso classico. Ma lo è,
a varie riprese, da cinquant'anni (1 ). La novità di oggi non è,
tuttavia, da poco. A imprimere un marchio particolare a quello che Roberto
Spazzali ha definito un "dibattito ancora aperto"(2 ), è stata la
sinistra politica. Stelio Spadaro, segretario del Pds triestino e Piero
Fassino, sottosegretario agli Esteri, anch'egli del Pds, hanno parlato,
l'estate scorsa, di "rimozione da parte della sinistra", di suoi "imbarazzi
e reticenze", sollecitando "l'apertura degli archivi"; e Luciano Violante,
presidente della Camera dei deputati, un altro esponente del Pds, che è
la terza carica dello Stato, ha rilanciato (3 ). Il fatto è di notevole
rilevanza, ma - insieme - rivela un preoccupante tasso di ambiguità.
Sollecitare "l'apertura" di archivi scandagliati da tempo dimostra quanta
distanza l'azione dei partiti, in questo caso, certamente, quella del maggior
partito della sinistra, abbia accumulato, nel tempo, rispetto alla società
civile, e con quanta disinvoltura si finisca per porsi di fronte a tematiche
di grande spessore storico e civile. Allo stesso tempo, le "esternazioni"
su questioni storiche così complesse (dal riconoscimento di nobiltà
ai "vinti" di Salò alla problematica, appunto, delle foibe della
Venezia Giulia) fanno affiorare, finalmente, la coscienza della politica
di aver svolto una funzione impropria in una società democratica,
di aver "usato" le verità risultanti dal faticoso procedere della
ricerca storica nella direzione più conveniente alla lotta politica,
senza rispetto e, forse, anche oggi, senza vero ripensamento, quasi a voler
confermare una vocazione all'ideologizzazione capace soltanto di cambiare
di segno.
Dicevamo di archivi scandagliati da tempo. Per quanto anch'essi attardati
dal vizio nazionale di travestire la verità storica in funzione
degli interessi di parte, gli storici hanno svolto, anche sul tema delle
foibe, il proprio compito. Certo, c'è stato un grosso limite: a
muoversi sono stati storici, ricercatori, istituti, dell'Italia "al confine
orientale". Al di qua dell'Isonzo, ben poco. Ma non si è trattato
di storia locale, nel senso - peraltro, improprio - di storia minore. Si
potrà, poi, discutere dei ritardi di taluni settori della storiografia
troppo politicizzati, non dell'intera storiografia italiana. E non si dovrà
dimenticare quanto , all'appuntamento di una corretta informazione storica
sull'intera "questione adriatica", sia mancata la scuola italiana (4 ).
Non è, in ogni caso, inutile, riassumere i termini della questione,
per evitare le consuete confusioni di piani. A cinquant'anni dalla disgregazione
del fragile assetto nordorientale dell'Italia uscita da Versailles e consolidata
territorialmente nei primi anni Venti, è impensabile continuare
a considerare la "situazione giuliana" degli anni tra l'autunno 1943 e
la primavera 1945 (ma anche dei mesi e degli anni successivi, oltre lo
stesso trattato di pace), isolatamente da un contesto più ampio.
L'arco temporale da considerare va, almeno, dall'inizio delle ostilità
dell'esercito italiano contro la Yugoslavia in avanti, fino alla "slavizzazione"
di pressocché tutti i territori acquisiti tra il 1919 e il 1920
(il 1924, per Fiume). All'aggressione italiana fece seguito l'erompere
della guerriglia partigiana. E la Venezia Giulia - come ricorda Raoul Pupo
- "finì per diventare retrovia di un nuovo fronte, quello contro
i «ribelli» sloveni e croati, per divenire poi, essa stessa,
obiettivo e teatro di operazioni del movimento di liberazione jugoslavo"(5
). L'esperienza bellica fece "deflagrare", insomma, con violenza contraddizioni
e tensioni accumulatesi nel corso di decenni, e che il fascismo aveva esasperato.
Quando l'armistizio fece precipitare l'intera Italia nel "buco nero" più
profondo della sua storia nazionale, nell'Istria, "sulla furia di una tipica
jacquerie contadina, si innestarono le rivalse contro gli uomini-simbolo
di un regime e di uno stato indistinguibili da parte di chi ne era stato
oppresso, assieme al disegno di rovesciare le autorità italiane
per sostituirle con nuovi poteri, controllati dal partito comunista croato"
(6 ). Le cinquecento persone che vennero, in quei giorni, trucidate e gettate
nelle foibe carsiche furono, dunque, vittime di un'insurrezione sociale
e nazionale insieme. E il trauma di quella strage si fissò stabilmente
nella memoria degli istriani di sentimenti italiani: come ricordo, e come
possibilità "sempre latente".
Il futuro della Venezia Giulia è, da quel momento, fortemente
ipotecato. Il "contesto" si aggraverà, naturalmente, perché
l'intera regione dall'Isonzo alla Dalmazia diverrà progressivamente
oggetto di una contesa che, a sua volta, si allargherà progressivamente,
fino a diventare, oltreché nazionale, internazionale: non "una disputa
bilaterale, soltanto, ma un problema che coinvolgerà direttamente
le relazioni fra Stati Uniti ed Unione Sovietica" (7 ). I "seicento giorni"
nell'area giuliana furono, infatti, cosa assai diversa rispetto al resto
dell'Italia occupata dai tedeschi. Alla fine di una guerra (fra i tedeschi
e anglo-americani), di una guerra di liberazione (fra i partigiani, da
una parte, divisi tra di loro secondo linee politiche e nazionali brutalmente
intersecantesi, e gli occupanti, tedeschi e italiani di Salò, e
collaborazionisti, dall'altra) e di una guerra civile, radicale più
che altrove, la Venezia Giulia si ritrovò, nel 1945, sotto il pieno
controllo dell'esercito popolare jugoslavo di liberazione. Le ragioni dell'anti-fascismo
e della Resistenza di parte italiana erano state sopraffatte. La "corsa
per Trieste" era stata vinta dagli jugoslavi, anche se l'improvvisa irruzione
della II divisione neozelandese oltre l'Isonzo rischiò di rimetter
in discussione le cose(8 ).
Appena giunte nelle città della Venezia Giulia, le truppe jugoslave
procedono al disarmo e all'internamento degli avversari, a partire dai
soldati di Salò. Ma subito vanno ben oltre. Ai maltrattamenti, all'internamento
nei campi di concentramento dove la morte arriva per stenti e malattia,
alle eliminazioni lungo le strade che portano ai luoghi di detenzione,
si aggiungono le esecuzioni sommarie. E a cadere non sono soltanto i militari,
ma anche le forze di polizia (Questura, carabinieri), e i civili. é
una spirale di rancori - come scrive Pupo - che altrove in Italia genera
rapide ondate di violenza politica e catene di delitti, e che nella Venezia
Giulia, alimentandosi del ricordo bruciante delle sopraffazioni compiute
dal fascismo nei confronti delle popolazioni slave e delle spietatezze
della repressione antipartigiana, "travolge chi torti ha compiuto, chi
avrebbe potuto compierli, talvolta chi, semplicemente, ne richiama la memoria"
(9 ).
Se questo è il contesto "minimo", di esso si deve tener conto
per una riflessione seria sullo specifico fatto, solo apparentemente circoscritto,
delle "foibe" e degli "infoibamenti" avvenuti in Istria nell'autunno del
1943, prima che i tedeschi l'occupassero con la creazione dell'Adriatisches
Künstenland, e dopo la fine della guerra, e a Trieste nei "quaranta
giorni" dell'occupazione jugoslava - maggio-giugno 1945 -, ma anche di
quelli successivi. Senza una precisa storicizzazione, i fatti e gli eventi
collegati - le scomparse, le deportazioni di migliaia di italiani -, da
ultimo, il drammatico esodo dall'Istria, sono condannati ad una spiegabilità
metastorica o astorica.
A inquadrare precisamente i fatti obbliga lo scrupolo al quale si è
tenuti generalmente in sede di ricostruzione storica, ma induce anche la
delicatezza particolare del tema delle foibe, tra "i più frequentati
come ha scritto ancora Raoul Pupo - nel dibattito del e sul dopoguerra
nella Venezia Giulia, e allo stesso tempo uno dei segnali più palesi
dei limiti e delle distorsioni di quel confronto" (10).
Si tratta, anche qui, del modo italiano di "fare storia" di fronte
a quell'esigenza, così intensamente avvertita da uno studioso come
Rosario Romeo, di riunire l'Italia alla sua storia, perché "un paese
idealmente separato dal proprio passato, è un paese in crisi di
identità e, dunque, senza valori da cui trarre ispirazione e senza
quel sentimento di fiducia in se stesso che nasce dalla coscienza di uno
svolgimento coerente in cui il passato si pone come premessa e garanzia
per il futuro" (11). Lasciare che il "lungo dopoguerra" si chiuda definitivamente
senza tentare di colmare la "separazione dal passato" denunciata da Romeo
significa, del resto, perdere l'occasione di comprendere il vero senso
delle cose accadute cinquant'anni fa, lasciandosi paralizzare dal timore
che ciò renda, in qualche modo, necessaria quella riconciliazione
dell'irriconciliabile, che sarebbe, quella sì, storicamente priva
di senso.
é ben vero, d'altra parte, che la contestualizzazione dei singoli
eventi - le deportazioni, le eliminazioni fisiche, gli "infoibamenti",
insomma tutti gli orrori della stretta finale di eventi prodotti da fattori
più lontani e dilatati - presenta il rischio di una loro mimetizzazione:
tutto spiegare è tutto giustificare, teme qualcuno. Per evitarlo,
è necessario, dunque, guardarsi da due rischi opposti: dal chiudersi
nella microstoria, da un lato; dal tutto stemperare in una dimensione macrostorica,
dall'altro.
A rendere ancor più ardua quest'operazione intellettuale sta
"l'immensa congerie di pubblicistica accumulatasi con il trascorrere degli
anni", della quale ha parlato Fulvio Salimbeni, un dibattito da vedersi
"costantemente nei suoi risvolti anche psicologici, in relazione con le
coeve vicende politiche, istituzionali e ideologiche, che ne spiegano contraddizioni,
involuzioni, difficoltà, accelerazioni improvvise quanto bruschi
arresti e pesanti condizionamenti e remore nell'affrontare aspetti ed elementi
del caso" (12). Perché la discussione aperta, per motivi schiettamente
politici, l'estate scorsa non si riduca ad un episodio di questo dibattito,
bisognerebbe che gli storici si sottraessero ad una chiamata in campo ad
adiuvandum, alzando, invece, la traiettoria del proprio specifico apporto.
Le foibe, dunque: un sostantivo che, al di qua del Tagliamento, ha
forse solo il valore di un termine scientifico (dal latino fovea, fossa,
anfratto, voragine naturale del terreno carsico, cavità imbutiforme
che sprofonda in verticale per decine di metri, talvolta con salti di centinaia)
(13), mentre, al di là dell'Isonzo ne ha certamente un altro, anche
simbolico. Con esso, si designano certamente gli "infoibamenti", ma anche
le deportazioni, le carceri, i campi di concentramento jugoslavi, così
come tutti i luoghi di occultamento di soldati uccisi in combattimento,
di vittime di esecuzioni sommarie, di vendette personali, di atti di criminalità
comune, tutte accomunate nel destino di questa sepoltura inumana. Anche
se si trattò di deportazioni in campi di concentramento dai quali,
magari, ci si salvò in parte, rientrando senza dichiararlo, come
accadde a molti militari della Repubblica sociale italiana; anche se la
cosa riguardò soldati tedeschi caduti nella fase finale della guerra;
anche se fu l'esito di uno spirito di vendetta furibonda, la scomparsa,
magari in mare, come i Luxardo, "dietro gli scogli di Zara" (14), di tanti
uomini e donne dalla faccia della terra, in un'area caratterizzata da un
sottosuolo naturalmente predisposto ad inghiottire, dà alla parola
che riassume tanti, diversi e pur simili, eventi, foibe, un suono sinistro.
Foibe come violenza indiscriminata, come massacro senza giustificazione,
feroce e disumano, che unì nello stesso destino collaborazionisti
e innocenti, quasi un'onda infernale, in cui non è possibile discernere.
Distinguere, invece, e frequentemente, è il compito degli storici.
Ed è quello che è stato fatto, anche con il difficile lavoro
di "quantificazione", che può sembrare macabro, ed è, invece,
segno di serietà e di umanità dolente. Il dibattito triestino
e giuliano, dentro e fuori dei confini nazionali, ha spesso esasperato
i calcoli, le cifre sono state, talvolta, sparate alla cieca. Gli studiosi,
ma non soltanto loro, hanno, invece, fatto un buon lavoro. Si è
arrivati a indicare cifre attorno alle quattro-cinque migliaia, anche se
nessuno, di coloro che ne hanno titolo, rinuncia ai propri convincimenti.
C'è chi ripete che, di qualunque cifra si tratti, la questione non
cambia sul piano sostanziale. Non è vero: anche il numero ha una
sua rilevanza (15). Ma è vero, senza dubbio, che quel che conta
è il "perché" dei massacri. Veniamo, dunque, a quelle che
sono parse le diverse linee interpretative in campo.
Lungo tutto l'arco temporale che va dal 1945 ai nostri giorni, s'è
consolidato, innanzitutto, il giudizio che le foibe abbiano costituito
l'esecuzione di un consapevole progetto di sterminio della nazione italiana
nella Venezia Giulia, elaborato dallo sciovinismo balcanico e manovrato
da comunisti. é la tesi del "genocidio nazionale", che oggi, con
la discutibile leggerezza della fase di "conversazione pubblica" della
quale siamo, insieme, protagonisti e vittime, si preferisce chiamare "pulizia
etnica". Al di là dei suoi connotati ideologici e politici originari,
la tesi del "genocidio nazionale" è divenuta un dato di esperienza:
quella, psicologica e morale, di molta parte degli esuli, e delle loro
organizzazioni più legate al sentimento di nazionalità italiana
dei giuliano-dalmati. D'altra parte, perché istriani, fiumani, dalmati
rimasti a Zara dopo il 1921-1922, avrebbero abbandonato le loro terre,
se non per non morire, i più, ma anche "per non sottostare a un
regime che si rivelava in tutta la sua crudeltà, ed anche, a prescindere
dal regime politico, per evitare una convivenza difficile per la diversità
di lingua, costumi, cultura"? (16) I nemici da eliminare furono, in realtà,
non gli italiani in quanto tali, ma i reazionari, tutti quelli, insomma,
che non accettavano le posizioni politiche riconducibili al Fronte di liberazione
jugoslavo. Dunque, anche chi era antifascista, aveva aderito alla Resistenza
ma non era comunista. Distinzioni troppo sottili, queste, sottigliezze
ideologiche? Resta il dato di fatto, ricordato da Pupo, dell'"espulsione
di massa di un'intera componente nazionale dalla propria terra, che sanzionò
l'incompatibilità storica della presenza italiana con l'affermarsi
dello stato comunista jugoslavo" (17). Rispetto all'esodo, dunque, che
si configurò come un' "espulsione" vera e propria di quanti, italiani,
non accettarono la piega della storia della propria terra, non si può
non accettare il giudizio di Elio Apih che ha parlato, a proposito dei
"quaranta giorni" triestini della primavera del 1945, di un "dramma oltre
lo scenario" delle foibe. "La presenza di volontà organizzata -
così lo storico triestino - non è dubbia. Eliminazione fisica
dell'oppositore e nemico (di forze armate giudicate collaborazioniste)
e, insieme, intimidazione e, col giustizialismo sommario, coinvolgimento
nella formazione violenta di un nuovo potere. Tale pare la logica dei fatti.
La spontaneità del furor popolare si cementa in una sorta di patto
di palingenesi sociale, attestato e garantito dalla punizione dei colpevoli,
che basta individuare anche sommariamente perché il loro ruolo è
simbolico prima che personale" (18).
Al polo interpretativo opposto, le posizioni (anche storiografiche)
di parte jugoslava, e della minoranza slovena in Italia, che ispirarono
a lungo la pretesa di "negare la strage". Dal dicembre 1945 in poi - fino
ai primi, timidi e circospetti accenni innovativi della fine degli anni
Ottanta, e dei primi Novanta, oggi relativamente consolidati (19) - il
motivo dominante fu quello di considerare tutti gli italiani, della cui
scomparsa si chiedeva conto da parte alleata, come fascisti, caduti o scomparsi
in combattimento a fianco dei tedeschi, o criminali di guerra. Ma si trattava
di una tesi miserabile: la "caccia al fascista", infatti, si esercitò,
perfino con maggiore precisione, nei confronti di antifascisti, i componenti
dei Comitati di Liberazione Nazionale di Trieste e di Gorizia, e gli esponenti
della Resistenza e del movimento autonomistico di Fiume (20). Un "paradosso"
che si spiega avendo riguardo al fatto che, ad avversare il "pieno e totalitario"
controllo del nuovo regime jugoslavo di tipo stalinistico erano, assai
più che i fascisti sconfitti, gli antifascisti democratici, e cioè
non comunisti, che la Resistenza l'avevano fatta e si erano così
legittimati. Siano stati, dunque, i comandi militari jugoslavi e le nuove
autorità civili, ovvero, come qualcuno ha ipotizzato, gli organi
della polizia politica (21); si sia o meno sommata, all'azione di questi
ultimi, quella di gruppi di avventurieri, di criminali "capaci di approfittare
del clima di generale confusione esistente allora in città" (22),
negare la strage è stata la riprova, negli jugoslavi e anche nella
minoranza slovena "ortodossa" in Italia, dell'incapacità di guardare,
con spirito, critico ed autocritico, a quel tragico periodo.
A sé, rispetto ai due blocchi interpretativi sommariamente delineati,
è stato, nei decenni del "lungo dopoguerra", quel gruppo di opere
di studiosi giuliani di diversa formazione che, nell'ambito dell'attività
dell'Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel
Friuli-Venezia Giulia, hanno tentato di inserire anche le vicende di cui
stiamo parlando all'interno del quadro risultante dall'impatto della politica
e delle istituzioni del fascismo sui rapporti fra slavi e italiani nella
Venezia Giulia. Impostazione ineccepibile, anche se non si può ridurre
il fenomeno delle foibe a un "eccesso di reazione" alla lunga catena di
precedenti violenze di segno opposto. Così facendo, infatti, si
corre il rischio di far prevalere preoccupazioni ideologico-politiche su
quelle del rigore storico: è quello che accade se ci si limita a
guardare alla dialettica città-campagna in Venezia Giulia e si applica
anche alle foibe lo schema della "rivolta contadina" (23). Occorreva, invece,
inserire senza remore, anche le foibe nel quadro più largo rappresentato
dal processo di costruzione del comunismo tra guerra e dopoguerra. é
l'approccio di studiosi che riescono così a valutare comparativamente
il comportamento tenuto dai partigiani comunisti per instaurare la propria
autonomia sia nei confronti di sloveni e croati anticomunisti o non comunisti,
sia in quelli dei giuliani di "sentimenti italiani" (24). é l'approccio
che conduce Elio Apih ad affermare che "i fatti hanno anche motivazione
antitaliana, ma questa non pare preminente" perché, "nel 1945, Trieste
fu, per quaranta giorni, lambita dall'onda di una rivoluzione" (25).
Ma forse, oggi, è possibile andare oltre, assumendo come ipotesi
interpretativa forte quella del secondo conflitto mondiale come guerra
totale, come guerra che "nutre nel suo seno la guerra civile" (26). Come
in una guerra di religione, contenente in sé motivi economici, politici,
sociali, nazionali, la violenza dilagò dappertutto e si personalizzò,
a livello individuale e di gruppo. Nei paesi invasi dalle truppe dell'Asse,
portare un'arma equivalse sempre più a una licenza di uccidere.
Nella Jugoslavia, l'incitazione alle rappresaglie indiscriminate, insieme
burocratiche e personalizzate, produsse, dai diversi lati, una ferocia,
un imbarbarimento, che difficilmente si riescono a spiegare con i consueti
criteri di analisi dei conflitti bellici e dei loro risvolti (27). E in
Jugoslavia, "rivalità e odi etnici, ideologici, sociali apparvero
crudelmente mescolati nelle lotte fra ustascia, belogardisti, cetnici,
il Fronte di liberazione nazionale diretto da Tito e numerose altre formazioni,
con gli occupanti italiani che cercavano di giocare i vari movimenti gli
uni contro gli altri" (28): un micidiale intreccio che ebbe, tra gli altri
effetti, alla scala giuliana, quello della finale cancellazione della comunità
veneto-italiana dell'Istria e della Dalmazia, risultato della pratica della
violenza totale che ha il suo simbolo nelle foibe, e nell'esodo dei trecentocinquantamila
connazionali dalla Venezia Giulia. Una pagina di storia italiana, quest'ultima,
che ebbe aspetti odiosi anche in patria. Come ha ricordato Francesco Semi,
"non si sarebbero mai aspettati , gli esuli, un'organizzazione avversa
al loro esodo. Il Partito comunista organizzò a Venezia, a Milano
e Bologna, massiccie manifestazioni contro di loro. A Venezia, all'arrivo
della nave con i profughi da Pola, a Milano e Bologna alle comitive che
giungevano con autocarri, fischi, urli e infami parolacce accolsero i fratelli
infelici, che la propaganda indicava come fascisti, fuggiti in odio al
comunismo" (29). Era, invece, accaduto il contrario.
Ma anche quello di "guerra civile europea" può diventare, se
usato ideologicamente, uno schema fuorviante per capire che cosa si sia
creato nel cuore del Novecento, un secolo di massacri senza limiti geografici
ed umani. Tra i primi testimoni di quel che si andava concretando fu Karl
Polanyi che, in Europe To-Day, 1937, colse, come "caratteristica
più sensazionale della storia contemporanea la frequenza con la
quale, nel quadro degli eventi internazionali, si intrecciavano guerre
esterne e guerre civili" (30). L'analisi economica dell'autore della Grande
trasformazione, 1944, può essere ancor oggi attuale, e capace
di evitare che, nel "secolo delle ideologie", si finisca per disideologizzare
la storiografia, ricaricandola, poi, di opposte, quanto metafisiche, ideologizzazioni.
Quanto alle foibe come tema della "conversazione pubblica" italiana, l'auspicio
è che tutti, storici ma anche insegnanti, intellettuali ma anche
pubbliche autorità, addetti all'informazione ma anche scrittori,
artisti, registi (siamo in un'epoca in cui i media possono compiere grandi
misfatti ma anche operazioni virtuose), sappiano andar oltre la miope convenienza
politica dei pentimenti e dei revisionismi di comodo. é l'unico
modo, oltretutto, di risarcire chi ha troppo patito perché gli si
chieda anche di essere magnanimo, e di rassegnarsi.
Note