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Parlando di Cinema ed altro con Bernardo Bertolucci

(Roma, 12.01.1995 a cura di Donatella Leoni)

 

D. : Qual è stata la sua prima esperienza nel cinema con Pasolini? Quale rapporto c’era fra voi?

Ho conosciuto Pasolini quando ero ancora più o meno adolescente, poiché mio padre gli fece pubblicare presso Garzanti Ragazzi di vita ed altri romanzi. Mi ricordo che venne ad abitare nella stessa casa dove viveva la mia famiglia, allora io cominciai a fargli leggere le mie poesie e diventai amico. C'era una poesia di Pier Paolo che si chiamava Un ragazzo che è in qualche modo dedicata a me, come lui diceva. Il ragazzo sarei io che allora avevo quindici, sedici anni. Mi parlava di suo fratello Guido che parte per la resistenza con una pistola dentro un libro. E’ nato un rapporto di grande amicizia, affetto. Lo incontro un giorno alla fine del ’60 o ’61 e mi dice: - Tu vuoi fare cinema?-

- Beh! Sì, mi piacerebbe molto e so che farò questo. –

- Allora, vieni a fare l’aiuto regista con me. –

Doveva fare un film che si chiamava Accattone ed era la prima volta che girava. Aveva scritto qualche sceneggiatura, aveva collaborato con Fellini per La dolce vita, Le notti di Cabiria, aveva scritto le sceneggiature per Bolognini Una giornata balorda, il bell’Antonio, però era la prima volta che girava personalmente, che realizzava un film. E’ stata un’esperienza essenziale per la mia formazione, anche se io in fondo ero un cinéphile, essendo andato cioè a Parigi, alla Cinématéque Fraçaise, avendo passati un mese intero, avendo visto un po’ da lontano Henri Langlois, e la Cinématéque Fraçaise era proprio un luogo speciale, era la più grande scuola di cinema da cui è uscita la nouvelle vague: Godard, Resnais, Trouffaut (eccetera eccetera, avevo questa formazione, mentre Pier Paolo non aveva questa cultura, non era un cinéphile. Il cinema per lui era un nuovo strumento che incontrav a e voleva usare. Mi sono trovato sul set e ho visto Pier Paolo inventare il cinema. Era qualcosa che veniva scoprendo giorno per giorno, proprio perché non aveva questa preparazione.

Mi ricordo, fu bellissimo! Fu come assistere, essere testimone della scoperta di un mezzo nuovo. Mi ricordo, appunto, che quando il terzo o il quarto giorno decise di fare una carrellata, la sensazione che io avevo era: - Guarda! Qualcuno ha inventato il carrello! – Oppure quando faceva il primo piano – Qualcuno ha inventato il primo piano! –

Pier Paolo ha sempre avuto un atteggiamento religioso molto forte davanti alla vita, anche se completamente trasgressivo, comunque pieno di religiosità.

Lo diceva anche lui: - Per me un viso, un paesaggio, una luce sono come ogni volta dei piccoli miracoli. –

Proprio in questo atteggiamento c’era religiosità. Mi diceva facendo Accattone: - Io vorrei che i visi di questi magnaccia, di queste prostitute, fossero come i primi piani della pale d’altare del ‘400-‘500 toscano. –

Una visione sempre frontale ed un po’ sacrale delle cose. Questa specie di sguardo che scopre tutte e che di fronte a tutto ha come dei trasalimenti religiosi. Io avrei fatto un film un anno dopo tratto da una sua storia di una paginetta che si chiamava La comare secca.

Quando lo scrissi, lo scrissi non per me, lo scrissi perché il produttore che era il proprietario dei diritti di questo soggetto, voleva che lo facesse Pier Paolo. Pier Paolo era già partito su un altro progetto che era Mamma Roma e disse: - Fallo scrivere a…- a me e a Sergio Citti.

Sergio Citti era quello che Pasolini chiamava il suo vocabolario vivente; era quello che lo ha aiutato a scrivere Romanzi Romaneschi, che gli faceva un po’ da consulente sul dialetto.

E poi ha fatto dei film lui, come regista: ha fatto Ostia. Era il fratello di Citti l’attore di Accattone.

Ha fatto oltre che Ostia, Storie scellerate, Il casotto, Giorni fausti. Bravo regista, ex ragazzo di vita.

Scrivemmo, Sergio Citti ed io, la sceneggiatura per qualcun altro. Il produttore Antonio Cervi disse: - Mi sembra molto ben fatto. Te la sentiresti di farlo?-

Io avevo appena 21 anni e, sentendomi mancare improvvisamente, dissi: - Ma certo! – facendo finta di niente – Che ci vuole! –

Ho fatto il mio primo film nel ’62 con un’esperienza estremamente limitata. L’esperienza era solamente di aver visto Pasolini e di averlo aiutato nel suo primo film. Quella era tutta la mia esperienza nel cinema.

Naturalmente la mia visione, che era quella di un ambiente pasoliniano, come avevo visto nella Comare secca, era molto diversa da quella di Pier Paolo. Invece che pormi frontalmente e quindi, in qualche modo, religiosamente e con sacralità davanti alle cose, la mia prima macchina da presa si muove in mezzo ai personaggi, li circonda, li abbraccia, li accarezza, li sfiora, li tocca. C’era una visione in qualche modo più sensuale del linguaggio cinematografico.

D. : Ho sempre avuto l’impressione che Pasolini non fosse solo lo scrittore, il regista, ma un intellettuale completo che tentava di fare un discorso pedagogico, un discorso politico, che forse è andato un po’ perso in questi anni. La concezione dell’intellettuale, dell’artista che magari si specializzava in una cosa, però vuole comunque abbracciare una visione unitaria, un progetto.

Lei che cosa pensa rispetto al progetto politico?

Quale progetto politico?

D. : Un progetto politico di allargamento democratico.

Sembra che Pasolini fosse proprio la figura, anche Moravia, ma Pasolini era la figura più completa, più organica di intellettuale del dopoguerra. Non solo un intellettuale completo, un intellettuale profeta.

Delle cose che lui ha detto nel ‘74-’75, in quelle sere che trascorrevamo spesso insieme, sono cose che contenevano l’intuizione di tutto quello che sarebbe venuto dopo. Dal discorso sul Palazzo al discorso sul petrolio. Sai che un giorno Pasolini propose di chiudere le scuole e di spegnere la televisione per un anno? Le scuole per 6 o 7 anni, per un periodo di disintossicazione dalla televisione e dalle scuole.

Se vediamo il potere straordinario che le televisioni hanno preso negli ultimi tempi si riesce a capire come Pasolini avesse capito tutto in anticipo su questo, ma ci sono tante altre cose.

Oggi dopo la caduta del miro di Berlino, con tutto quello che ha significato, c’è un momento di sbandamento estremamente pericoloso.

Un certo tipo di presa di potere da parte di una destra, che è nata sulle ceneri di quella che si chiamava "la Prima Repubblica" è dovuto proprio ad uno sbandamento, ad una mancanza di idee di qualità della sinistra che è enorme, ma che è anche comprensibile, se si pensa a come ottanta o novanta anni di storia della classe operaia, che hanno voluto dire tutta una scuola di pensiero, come sembrano improvvisamente spazzate via, dimenticate.

Questo è molto tragico, ma bisogna guardare in faccia alla situazione.

La sensazione di questo momento è che la progettualità sia in crisi ed è anche incomprensibile questa volontà degli italiani di una parte degli italiani, di guardare le cose, di credere alle bugie, di credere a delle illusioni.

E’ un po’ strano perché gli italiani hanno avuto, rispetto agli americani, un senso della politica estremamente più sviluppato. Negli ultimi tempi si ha la sensazione che abbiano dimenticato tutto.

Se si pensa poi ai giovani viene un po’ il dubbio che una gran parte della notevole forza elettorale che ha avuto la destra e su cui fa affidamento in questo momento è proprio costituita dai giovani. Ciò vuol dire che i giovani sono ignoranti o hanno una forma di malattia, di amnesia per cui la loro memoria storica non esiste.

D. : Non viene neanche insegnata.

Questo vuol dire che, da un lato le scuole non hanno fatto quello che dovevano fare che è, tra l’altro, quello di insegnare la storia, dall’altra parte c’è stata qualche forma collettiva, ipnotica, di addormentamento che impedisce a questi giovani di vedere le cose con una capacità critica, capacità di approfondimento.

E’ proprio questo che, un po’ di tempo fa, mi ha portato a pensare che forse sarebbe utile, oltre che interessante, lavorare per la televisione ad una nuova parte del film Novecento, che uscì nel ’76, e che inizierebbe dove finiva Novecento e, cioè, dal ’45 fino ad oggi, che è praticamente il periodo di tempo della mia vita.

Quindi sarebbe interessante perché sarebbe un modo di rileggere, di rianalizzare, di riflettere su tutto quello che è stata la formazione mia, di una generazione ed anche di analizzare attraverso cosa siamo passati, come siamo arrivate a certe conclusioni.

D.: come si procede quando si parte da un romanzo e lo si traspone in un film? Come nasce una sceneggiatura e come si distrugge questa sceneggiatura? Visto che ho sentito in parecchie sue interviste ribadire questo concetto di distruzione della sceneggiatura.

Alcuni dei miei film vengono da opere letterarie. Prendiamo due casi: Il conformista da Moravia e La strategia del ragno da Luis Borghes. Intanto devo dire che, proprio perché mi sentivo colpevole di aver fatto alcune modifiche del romanzo di Moravia, un giorno pria di fargli vedere il film un film che lui avrebbe poi amato molto (uno dei film che amava di più era Il conformista, oltre a Il disprezzo di Godard) un giorno gi ho detto: - Guarda che, secondo me, quando si fa un film bisogna avere il coraggio, a volte, di essere infedeli. Quello che forse l’autore potrebbe considerare infedeltà è, più che una fedeltà alla lettera, una fedeltà più interna, più legata allo spirito dell’opera. – Perché prima di tutto un film è diverso da un libro, e " Moravia era assolutamente d’accordo.

Certe sequenze sono tradimenti ma non lo sono, sono forme di fedeltà più segrete.

Con il racconto di Borghes che lessi insieme a lui, ho fatto un’operazione ancora più stravolgente perché ricordo che il racconto di Borghes, che non leggo da allora, parlava di una storia che avveniva in Irlanda, mentre io l’ho trasportata in una cittadina della basa Padana. Un paese immaginario che ho chiamato Tara. Tara come questo luogo di Via col vento, quindi è un luogo cinematografico.

D.: Io ho pensato al fiume Taro.

Il fiume Taro. Poi un critico americano molto bravo, per la verità, mi disse: - Forse non ti sei accorto. Tara è la radice della parola tarantola. Siccome… La strategia del ragno… ecco che eccetera eccetera… -

E poi l’ho portata agli anni ’40. La figura che nel racconto di Borghes è la figura di un nonno, di un bisnonno, proprio un avo di questo giovane che era all’inizio di una rivolta degli irlandesi contro i colonialisti inglesi, rapportato appunto al periodo dell’antifascismo nella Pianura Padana. Il cambiamento più importante è stato che mentre scrivevo con i miei collaboratori la sceneggiatura, un giorno, molto naturalmente dissi: - Ma potrebbe essere il padre! Allora ci sarà un rapporto di identificazione, un rispecchiarsi eccetera. –

D.: Più complesso insomma.

Allora il film è diventato un film più vicino a me.

Siccome pare che uno dei timi ricorrenti nel mio cinema sia il rapporto padre-figlio, La strategia del ragno fu la prima volta in cui questo usciva fuori in modo forte.

Ora, cosa accade. Bisogna cercare sempre, secondo me, di capire, di un libro, il movimento drammatico più forte, ed è quello che interessa di più. Riguardo a quello che mi chiedeva sulla distruzione della sceneggiatura: io, per molti anni l’ho detto e poi l’ho pensato. Dicevo addirittura che quando giravo un film non aprivo la sceneggiatura, la tenevo chiusa. Continuo a pensarlo ancora oggi, però mi sono reso conto che una delle ragioni per cui una gran parte del cinema giovane italiano, non tutto, ma una parte, non riesce a trovare una propria identità è che, molto spesso, e se lei va al cinema lo vede, è carente sul piano della sceneggiatura.

E’ da un po’ di tempo, da quando mi sono accorto di questo, che mi sono chiesto se magari ho fatto del male anch’io. Ho detto tanto di andare contro la sceneggiatura che forse ho influenzato qualcuno che ha pensato che non ce ne fosse il bisogno. Invece, soprattutto negli ultimi dieci anni, dopo che ho fatto La tragedia di un uomo ridicolo, ho lavorato sempre con Mark Peploe, che è anche lo scrittore che ha scritto Professione: reporter con Antonioni ed altre cose, col quale mi sono avvicinato all’idea che una buona sceneggiatura non può far male.

Ho cominciato a lavorare molto sulla sceneggiatura ed ora la scrivo quattro, cinque, sei, sette volte, anche se poi, ancor oggi penso ce il momento delle riprese sia un momento in cui nell’itinerario del film ci si spinge oltre la sceneggiatura. La sceneggiatura è un momento molto più importante perché ti fa riflettere, ti fa capire quello che poi dirai.

Nel momento in cui sei davanti alla macchina da presa e c’è la realtà, allora il mio lavoro e il piacere del mio lavoro è il rapporto fra me, la macchina da presa e la realtà davanti.

A quel punto devo dire che spesso, anche in quest’ultima esperienza la realtà vince sulla sceneggiatura. Se il luogo che ho trovato è diverso da come è stato concepito in sceneggiatura, ma se in quel momento mi sembra essere più stimolante, qualcosa in più, io scelgo la cosa nuova che la realtà mi propone, anche andando contro la sceneggiatura. Mi piace che ci sia sempre una dinamica all’interno del lavoro, una dinamica data a volte dalla dialettica. Mi piace continuamente mettere in crisi la sceneggiatura, mettere in crisi me stesso, trasgredire e riorganizzare. Siccome nel cinema, il materiale importato è la realtà, il cinema alla fine è quello: un certo viso, una certa luce, un certo tema.

Sono un po’ questi elementi della realtà che hanno il sopravvento nel film.

D.: Fa uso dello story-board, dello schizzo, dell’appunto?

Lo story-board è un po’ il contrario di quello che è il mio modo di lavorare. Lo story-board vuol dire riuscire, come faceva Hitchock e come fanno quelli che girano in un set televisivo, quando il lavoro deve andare veloce, a fare la pianificazione fatta precedentemente di quello che sarà dopo.

Per me, il linguaggio del film è quello che nasce giorno per giorno, perché se giro fuori, in questo cortile, e c’è una certa luce, la mia macchina da presa si muove in un certo modo, con un’altra luce in un altro.

C’è un continuo tener conto della realtà e prendere parti della realtà.

Fare lo story-board vuol dire seguire lo story-board e non accorgersi della realtà della macchina da presa. Ho usato lo story-board per la prima volta facendo Il piccolo Buddha nella sequenza dell’illuminazione. Era una sequenza piena di effetti speciali e allora era proprio necessario che dovessi prevedere dove inserire le parti della combinazione dei diversi elementi.

Molto spesso si gira ritagliando come un’aura immaginaria intorno al Piccolo Buddha Siddharta e riempiendo di blu tutto intorno dove poi andammo ad inserire elementi diversi: questo esercito di arcieri che compare, le forze del male che si chiamano ragazze della tentazione, le palle di fuoco. Lo story-board era assolutamente necessario e l’ho fatto. In generale credo che una delle differenze fra il mio cinema e il cinema che fanno tanti altri è proprio che io non riesco a considerare il film una illustrazione della sceneggiatura, di un libro, Anzi, per fare l’illustrazione esistono i fotoromanzi. Penso al cinema come a qualcosa che va al di là dell’illustrazione.

D.: Ci può raccontare qualche cosa della sua esperienza con il Living Theatre?

Ho visto il Living Theatre per la prima volta nel ‘63-’64. Facevano uno spettacolo che si chiamava Mysteries, che era una serie di sketch, ed ho avuto la sensazione di scoprire che cos’era il teatro. Per lo meno, fino ad allora no si era visto che la ripetizione un po’ stanca di formule ottocentesche. Poi ho cominciato ad essere trasportato da loro ed ho auto modo, per anni, di fare qualcosa con loro finchè ho avuto questa occasione di lavorare ad un film ad episodi che si chiamava Vangelo ’70: parabole del Vangelo che venivano affrontate da registri diversi. Ricordo che la parabola che feci io era quella del Fico infruttuoso. Un uomo va nel suo campo con il contadino; arriva davanti al fico e vede che anche quest’anno non ha dato frutti. Il contadino dice: - Lo tagliamo? –

Il padrone risponde: - No, fecondalo, metti del letame e se non darà frutti l’anno prossimo lo taglieremo. –

Mi chiedevo come rappresentare l’idea della parabola. Ho pensato ad un uomo che non fa né il bene né il male, come questo fico che non produce. Quelli che non fanno né il bene né il male, sono gli ignavi. Ho cercato nei miei ricordi di scuola ed ho trovato che nell’Inferno di Dante gli ignavi sono in continuazione punti da delle vespe. Gli scende questo sangue e gli ignavi corrono e dei vermi succhiano il loro sangue che esce.

E’ un’immagine che mi ha fatto pensare molto al teatro della crudeltà di Artaud.

Artaut era questo grande visionario, autore di Le théatre ed son double e di saggi sul teatro molto importanti per il teatro moderno che il Living seguiva molto.

Se hai visto la Giovanna d’Arco di Dreyer è il giovane monaco più importante, bellissimo!

Allora feci leggere a Julian Beck e Judith Malina questi versi e li riportai perché volevo fare la storia di un uomo che stava per morire e sorgevano davanti a lui i fantasmi del suo peccato. Il suo peccato era l’ignavia.

Questi fantasmi cercavano di risvegliare dei sentimenti in quest’uomo che moriva, che è in punto di morte. A quel punto si vede che le persone, dei preti, entravano e cominciavano a vestirlo. E’ morto e scoprono che è il papa. Ci chiudemmo per due o tre settimane nel teatro di Cinecittà ed era bello perché era un’esperienza totale insieme a loro, di ricerca.

A parte questa idea non è cheч fosse una sceneggiatura e quindi abbiamo lavorato molto insieme, improvvisando e ricordo che alcune delle idee che avevo avuto e che loro avevano elaborato, le ho ritrovate anni dopo in un famoso spettacolo che si chiamava Paradise now.

Erano come dei santi, dei monaci questi del Living Theatre. Avevano da un lato un grande interesse per le religioni orientali, dall’altro anche una presenza nell’attività politica in quegli anni.

D.: Ho notato che alcuni suoi film aprono con i titoli di testa affiancati da opere di pittura, come nel caso di "La strategia del ragno", dove ci sono opere di Ligabue e "Ultimo tango a Parigi" con le opere di Francis Bacon. Volevo sapere quale fosse il suo rapporto con le opere d’arte, visto che suo padre, se non sbaglio era professore di Storia dell’Arte al Liceo.

Sì, ho guardato molto la pittura e l’architettura che mi hanno molto spesso spinto in una direzione invece che in un’altra. A volte usavo i titoli di testa quasi per dare un piccolo suggerimento nella chiave visiva del film. Per La strategia del ragno ho pensato ed ho parlato di questo concetto con Storaro il quale era la prima volta che faceva fotografia a coloro ed era il secondo o il terzo film che faceva. Conosco Storaro dai tempi di Pirma della rivoluzione perché era nel ’63 quando girammo il film e lui stabiliva i fuochi alla macchina da presa. L’idea era quella di queste notti azzurre che ci sono nella pittura naif.

In Ligabue, che era il più grande della pittura naif, ma anche in Rousseau, nei tanti pittori naif anche jugoslavi, ci sono sempre queste notti azzurre dove si vede tutto come di giorno. Anche in Magritte.

C’è un quadro che si chiama l’Empire des lumieres dove si vedono alcune case e dei lampioni accesi. E’ come se, a livello delle case e della strada, fosse notte, ma il alto ч fosse giorno. C’и un cambiamento di tempo nella luce che, nello stesso quadro, ti da il giorno e la notte. E’ stato molto importante per il mio film come lo è stato Ligabue. Come referente visivo c’era la pittura naif.

Il cinema mi pare che sia il linguaggio più recente, la forma d’arte più recente che, in qualche modo, contiene tutte le altre.

Contiene la pittura, contiene l’architettura, contiene la musica moltissimo perché c’è musicalità nell’assemblare una immagine dietro l’altra con un ritmo, contiene il teatro eccetera.

In fondo il cinema, che molto spesso si ritiene vicino al teatro perché ha gli attori, ha i personaggi, ha la storia, invece, secondo me, è più vicino alla poesia, alla musica.

Sono sempre aperto ad assorbire influenze che non sono soltanto quelle della storia e del film. Sono poliassorbente.

Mentre stavo girando Ultimo tango c’era per caso a Parigi la prima grande mostra personale di Francis Bacon al Gran Palais. Sono andato a vederla e mi sembrava che in quei quadri, in quel pittore ci fosse proprio il tipo di drammaticità che andava bene per il film. Allora portai Storaro e Marlon Brando a vedere la mostra perché assorbissero queste immagini così drammatiche. Non è che ogni volta c’è un riferimento visivo e pittorico, però a volte si. Per esempio nel Piccolo Buddha, alcune delle immagini del giovane Siddharta al Palazzo sono state molto influenzate da questa iconografia divinamente kitch della pittura indiana con il loro Siva, Visnu, Kali.

D.: Forse anche l’arte greca era così. Oggi vediamo le colonne tutte bianche…

Sì, allora anche Fidia. Se non hai visto Il disprezzo di Godard, ci sono queste statue bianche con gli occhi dipinti con colori molto forti. Il piacere, quindi, di guardarmi intorno.

D. : Mi pare che una delle caratteristiche principali dei suoi film sia quella che il protagonista sia quasi sempre borghese di estrazione e si trovi a dover gestire delle responsabilità sociali precise, un ruolo, e poi, invece, interviene una situazione di crisi in questi personaggi, che è completamente diverso dal tema pasoliniano del sottoproletariato. Lei si identifica in questo tema?

Non è che mi senta, sono un borghese!

Sono nato in una famiglia di piccola borghesia agraria che però è molto diversa dalla piccola borghesia di città. La mia famiglia è molto difficile da determinare socialmente perché anche mio padre comincio a scrivere poesie quando era bambino e alla fine divenne un poeta.

Io sono cresciuto in mezzo ai libri. L’educazione alla poesia che ho avuto da mio padre è stata fondamentale nella mia formazione. La poesia che non era mai a lettere maiuscole, era sempre la poesia dentro la quotidianità. C’è un episodio che racconto spesso di una poesia di mio padre che parla della rosa bianca che c’è in fondo al giardino.

E’ dedicata a mia madre e dice: - Tu sei come la rosa bianca, le ultime api dell’estate l’hanno visitata…- eccetera.

Io avevo sette o otto anni ed esco in fondo al giardino; la rosa bianca è lì, all’ombra. La poesia non fa altro che parlare di cose che ci sono intorno a casa, in un microcosmo che poi la magia della poesia fa diventare una grande cosa.

La verifica degli elementi che sono presenti nella poesia di mio padre è da fare e si può fare tranquillamente guardandosi attorno.

Questo per capire che non c’è niente di retorico dentro la poesia e che c’è poesia in tutto e questa è stata una grande lezione.

E’ la lezione che, quando faccio un film, mi fa guardare alle cose alla quotidianità presa con un occhio che in fondo tende a cercarmela, la poesia.

Prima della rivoluzione, che è proprio, dopo La comare secca di Pier Paolo, un film molto autobiografico è rappresentativo, più che non altri film, di un ceto senso di colpa dovuto al fatto di essere di origine borghese.

Siccome l’ho fatto quando ero molto giovane, la cosa che mi interessava raccontare è, insieme, un’educazione sentimentale ed una educazione politica, perché è la prima vera storia d’amore drammatica che questo giovane ha. Siamo nel ’63 quando giro; questo giovane borghese si sente estremamente critico contro un partito che sonnecchia e che considera riformista. Sono esattamente le cose che nel ’68 saranno dette poi dagli studenti a Parigi. E’ infatti un film che a Parigi è uscito nell’inverno del ‘67-’68. Ebbe un grandissimo successo coi giovani se si pensa che è un film d’essai. Diceva quelle cose che poi sarebbero successe nel maggio del ’68. Io però queste cose le avevo sentite profondamente nel ’63. Nel ’68 avevo già fatto un percorso: erano già passati quattro o cinque anni e non avevo più quel tipo di estremismo che avevo nel ’63 in cui questo giovane va alla Festa dell’Unità e critica il partito.

Nel ‘68, quando i giovani a Parigi amano molto il film, io invece, proprio perché vedo le capacità di uno straordinario cambiamento, vedo anche una strumentalizzazione di questo estremismo e sento un grande anticomunismo. Infatti, i giovani del ’68 anche per protesta contro molti miei amici come Godard, Bellocchio e così via, erano pro-cinesi.

La mia esperienza è stata quella di provare il disagio che i giovani hanno provato nel ’68, in anticipo, e di averlo in qualche modo superato nel ’68.

D.: volevo chiederle il significato della frase "la vie est à nous" che compare all’inizio de Il conformista, cui Gui Debord nel ’68 aggiunse "aussi la mort".

Che avrebbe detto nel ’68?

D.: Sì.

Si riferisce al film La vie est à nous di Jean Renoir perché Il conformista è del ‘70-’72.

D.: Sì.

Ma io volevo dare immediatamente la sensazione precisa di un’epoca, di un momento. Era il momento del Fronte Popolare in Francia.

Il film che ricorda il Fronte Popolare in quegli anni è La vie est à nous. Un film politico che ha dei momenti documentari, dei momenti di finzione, ma anche, sempre di Renoir, un film di quegli anni si chiama Le crimes des nationaux, dove c’è una specie di comune che si forma in una tipografia dove fanno dei fumetti, con tutta l’atmosfera di magia.

D.: Il conformista è comunque molto diverso dal romanzo anche come ambientazione. L’epoca del viaggio, nel romanzo, avviene verso maggio-giugno, mentre lei l’ha spostato completamente in autunno e pieno inverno, dando un accentuato senso di morte al tutto. La formazione del pensiero di Marcello, nel romanzo, avviene attraverso i giornali. Essendoci stato un trauma infantile, Marcello vuole leggere tutto ciò che lo riguarda sui giornali e finisce per formarsi un’opinione dai quotidiani. Invece, nel suo film c’è subito una presenza massiccia della radio, dei mass-media.

Dice di questo personaggio nuovo di Italo Montanari?

D.: Sì, volevo chiederle qual era la sua riflessione.

Beh! Ho visto il film due anni fa perché l’hanno restaurato a Locarno. Oggi devo dire che, rivedendolo dopo tanto tempo, mi sembrava un pochino pesante il simbolismo dell’italiano cieco che non vede la realtà. Però, insomma, chi lo sa se era eccessivo! In quel momento avevo bisogno di appoggi metaforici. Ripeto: quello che dissi a Moravia era proprio perché sapevo che questa era una cosa molto diversa e l’avrebbe trovato risentito e gli dissi: - Se ti tradisco apparentemente è per sentirti ancora più vicino nel libro. –

La cosa interessante del romanzo era quest’idea della diversità. Marcello si sente diverso per quello che gli è accaduto quand’era bambino, quando crede di aver ucciso quest’uomo. Uccidere quest’uomo ha voluto dire anche reprimere tutto in una volta delle latenze omosessuali molto forti.

Marcello diventa fascista per alleviare questo senso di colpa che il sentirsi diverso provoca in lui e, non solo diventa fascista, ma il più fascista di tutti per uccidere.

Tutto questo per cercare di curare le piaghe e infatti credo che la cosa interessante nella differenza tra il film e il libro è il finale. Nel finale del romanzo, se mi ricordo bene, Marcello con sua moglie e la bambina scappano da Roma. C’è un aereo che vede l’automobile, siamo il 25 luglio del ’43, l’aereo mitraglia l’auto e li uccide tutti.

D.: Tranne lui…

Che cos’è? E’ proprio quella cosa che si chiama deux ex machina. Questa punizione che viene dall’alto, dal cielo.

A me invece sembra più interessante invece un’altra cosa. Moravia usa l’idea del fato, del destino: oggi, anche perché avevo iniziato l’analisi da due anni, quindi ero molto influenzato dal pensiero freudiano, in chiave moderna il destino non è più il fato. Il destino è qualche cosa che noi ci organizziamo. E’ stato molto bello perché Marcello, messo di fronte ad una realtà sconvolgente scopre che l’uomo che pensava di aver ucciso non è morto, ma è vivo, così tutta la sua costruzione crolla.

Mi sembrava interessante metterlo di fronte al suo grande problema vero che non è l’uccisione, ma l’omosessualità.

C’è il ragazzo nudo, c’è lui che si gira, c’è questo primo piano ancor oggi molto forte, impressionante, di questo uomo che guarda il suo problema vero. Non è il destino che guida il finale quanto l’inconscio del personaggio. Nella versione moderna il destino, la parola destino dovrebbe essere tradotta con la parola inconscio, perché è il nostro inconscio che ci fa cadere.

Avvicinandomi al buddhismo, leggendo i testi buddhisti mi sono reso conto che il karma, che è il destino nella religione buddhista ed anche indù, è un’idea molto moderna, rispetto a quella del fato greco nella tragedia, perché il karma è il nostro destino che ч organizziamo noi, basato sul nostro comportamento. E’ il nostro comportamento che ч fa andare in una direzione piuttosto che in un’altra.

D.: Che cosa pensa del cinema di Andy Warhol che, a mio parere, è così trasgressivo che rasenta il terrorismo culturale. Ci propone delle situazioni dove la scenografia pe costituita dalle cose che ci sono davanti e gli avvenimenti avvengono in tempo reale? Mi sono domandata se il discorso che lei faceva sul film a "struttura aperta" o a "struttura chiusa" può avere a che fare con il cinema di Warhol con questo estremismo che poi è la cosa più interessante di Warhol.

Ho amato molto il cinema di Warhol, un cinema lontano da quello che facevo io, ma ho amato molto il cinema diverso da quello che faccio io.

C’era proprio questa specie di grande fiducia nella realtà così com’è senza cambiarla. Ritagliare un uomo che dorme per molte ore senza aggiungere niente. Nello stesso modo esponeva delle casse di zuppa Campbell’s, delle piramidi di Campbell’s sup. Gli anni in cui Warhol faceva cinema erano gli anni in cui ho cominciato anch’io a fare cinema. Sono gli anni ’60 e sono molto importanti per la mutazione del cinema.

Questa mutazione comincia con la riflessione che fanno i giovani cineasti francesi alla fine degli anni ’50 e sono un po’ loro i leader, soprattutto Godard. Tutti quelli che cominciavano a fare cinema negli anni ’60 erano uniti da uno spirito che era l’interrogarsi continuamente su che cos’è il cinema.

Nei nostri film, dico nostri perché eravamo una generazione, c’era un tratto comune in tutti noi e c’era gene che veniva dalla Francia, dal Brasile, dal Canada. C’è stata una specie di Internazionale del cinema giovane in Italia. Noi raccontavamo una storia, parallelamente si cercava di raccontare che cos’era il cinema per noi.

Ecco, in Andy Warhol, in fondo, cos’era questa avanguardia cinematografica. Era il bisogno di tanti autori giovani, che venivano da luoghi diversissimi culturalmente, di concepire il mezzo cinematografico, di analizzare, di approfondire, di trasgredire quello che i francesi chiamano cinèma de papa, cioè un cinema commerciale.

D.: quello del buon artigiano?

Quello del buon artigiano che è stato un cinema molto importante; un cinema che ha fatto piangere e ridere milioni di persone, mentre noi, negli anni ’60 non riuscivamo ad avere gli spettatori nei nostri film.

D.: Ho studiato molto Warhol. Warhol diceva che il suo lavoro non era per niente politico e che la sua era una adesione totale alla civiltà dei consumi, ma è difficile non pensarlo. Tutto è politico.

Ero abbastanza amico suo e gli ho sentito dire più di una volta: - Io sono fatto di plastica, in mio corpo è di plastica. –

Era veramente trasgressivo, ma è vero che non era politico nel senso in cui lo sarebbe stato un europeo, un italiano, un francese.

Agli americani manca il senso della politica. La politica per noi europei e noi italiani è come un altro senso che abbiamo quasi geneticamente. Abbiamo la tendenza a vedere l’aspetto politico delle cose. E’ vero che non c’è nel suo lavoro l’aspetto politico. Questo non vuol dire che ad una nostra lettura politica la sua opera non possa esserci. Uno può presentare un’opera politica malgré soi, quasi rifiutandolo. Se poi si parlava di politica era abbastanza conservatore. Ricordo che in una cena del ’70 mi diceva: - Ma sai, mi hanno detto che sei stato in Iran. Anch’io sono stato così bene, sono stato a Theran. Che bella città! Che bel posto… ho fatto il ritratto dell’imperatrice. –

Gli ho chiesto: - Ma dove sei stato? –

- Sono sempre stato a Palazzo, a corte. –

- Ma non sei stato per la città? –

- No. -

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