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Il continuum museale

Maurizio Vogliazzo


Tutto è Chinatown" - diceva il detective (Jack Nicholson) nelle ultime battute di un bel film di Roman Polanski di tanti anni fa (Chinatown 1974). Un bel modo - allusivo ed elusivo - per esprimere l'enigma sfuggente che in qualche modo accomuna le grandi conurbazioni metropolitane del XX secolo.
"Tutto è Museo" - si potrebbe dire oggi altrettanto bene, parafrasando in maniera poi non tanto azzardata (almeno nella parte occidentale del nostro pianeta). L'osservazione è assolutamente neutra: non contiene risvolti in termini di giudizio, negativo o positivo. Una constatazione, insomma. Una rilevazione. La registrazione di un altro elemento molto importante di quell'ispessimento in pieno corso e già comunque consolidato della crosta terrestre, fatto di infrastrutture di varia consistenza fisica, di mutamenti sociali e tecnologici accelerati punteggiati di tracce rapprese, da implosioni puntiformi, che da tempo su l'Arca abbiamo segnalato e andiamo mano a mano scandagliando. Tutto è museo, dicevamo. Muovendoci con questa idea in mente nel tessuto connettivo di questo strato infrastrutturale, ovatta isotropa che ha progressivamente avvolto il pianeta, ci imbattiamo a ogni minuto nelle infinite mutazioni di questa cosa, di questo luogo o insieme di luoghi destinati a suscitare nel pubblico rapporti di qualsivoglia tipo con le distese sterminate dell'ingegno umano e della sua incessante attività e produzione, avvenuta, in corso, o che avverrà. Se poi si pensa che, in termini specifici di edifici e architetture appositamente pensate e costruite, la storia è relativamente recente - non è possibile andare molto più in là del British Museum, che poi è già della seconda metà del XVIII secolo - la consistenza e la rapidità o, meglio ancora, la densità delle trasformazioni hanno in questo caso indicatori immediati, tangibili, percepibili con facilità (facendo un po' di attenzione). D'altra parte, l'entità stessa delle destinazioni d'uso messe in gioco è di per sé speciale: la storia, la cultura, l'arte, la tecnica, la scienza e così via, e la loro comunicazione a utenti da tempo non più circoscrivibili e tanto meno programmabili. Si capisce facilmente come una questione di tale ampiezza e con confini così poco definiti abbia progressivamente chiamato in causa direttamente un arco di competenze che tende ad allargarsi sempre più, dando così inevitabilmente luogo quasi sempre a lotte, talvolta senza quartiere, fra lobby di specialisti ed esperti, tendenti ciascuna a escludere un'altra o anche tutte le altre. Di conserva, anche le risorse economiche in gioco, aumentando la posta, si sono radicalmente modificate, per natura, provenienza, entità. Questo è un discorso che porta lontano. L'architettura per il momento nel complesso ha ancora qualche peso; per lo meno rispetto ad altri campi, dai quali è stata mano a mano quasi del tutto esclusa. In realtà, il suo ruolo si è progressivamente molto modificato.
Quando una fabbrica, un luogo destinato alla produzione, cessa, per vari motivi, di essere utilizzata in quanto tale, specie se dotata di un qualche particolare fisico interessante, o per lo meno divenuto tale (le incavallature metalliche chiodate a caldo o i pilastrini di ghisa, per esempio, certamente - e giustamente - à réaction poétique, anche se molto di massa, pulp), si candida istantaneamente a un suo destino di museo: di se stessa; del lavoro umano da essa già ospitato; del macchinario suo o di altra qualunque provenienza; di altre cose, reperti, manufatti. Non esistendo, ahimè, più una possibile utenza residenziale, i grandi palazzi "storici" costruiti da architetti più o meno "grandi" nelle città "storiche", che sovrabbondano nei Paesi "storici" (come l'Italia) vengono generalmente iscritti d'ufficio nella lista dei musei di qualsivoglia natura (o delle sedi di rappresentanza delle banche: che sono comunque una forma di museo). Poi ci sono le vecchie stazioni ferroviarie (malmenate magari senza tanti complimenti da architetture corrusche travestite da allestimenti, vedi la Gare d'Orsay); i depositi dei tram; i magazzini vari; anche i gasometri (qui è d'obbligo ricordare, scriviamo da Milano, il "Museo del Presente di Bovisa Contemporary" [sic], al quale varrebbe per ora soltanto potersi augurare non più di una buona fortuna). Una piccola enumerazione di casi, esempi fra i tanti possibili. E dunque: i musei (o la propensione a divenire in un qualche modo tali) da anni, più o meno silenziosamente, si estendono a macchia d'olio, divorando architetture e spazi interstiziali, occupando involucri rimasti vuoti, come fanno alcuni molluschi marini con le conchiglie disabitate. Con episodi alti, come fu con Scarpa e con Albini; anche se in realtà sono lontani, ben poco riconducibili a questa più recente modalità di occupazione estensiva, generalmente piuttosto senza volto, anche se d'autore.
Questo da un lato. Poi ci sono gli investimenti museali deliberatamente a forte carica estetica, pubblici e privati. Come in Germania negli anni Ottanta con code nei Novanta. Frankfurt am Main (non badare alla qualità di alcuni dei risultati - vedi il Museo dell'Architettura; conta l'intenzione); Stuttgart; e così via. La Spagna nel medesimo periodo e tuttora, con risultati certamente più raffinati, dalla Merida di Moneo alla Barcellona di Viaplana (dove anni prima c'era già stato Sert); o veramente molto sofisticati, come recentemente a Bilbao, con la completa, lucida, incorporazione dell'architettura (Frank Gehry) come elemento portante di un progetto economico e sociale (un caso su cui riflettere, destinato probabilmente a ripetersi altrove). Questo modo di procedere parrebbe presentare analogie con alcuni momenti della fase di costruzione delle grandi città borghesi. Naturalmente tutto è cambiato: il peso del turismo nella formazione delle politiche urbane e territoriali (che se sono aggiornate e consapevoli non trascurano mai il valore specifico dell'architettura e della forma fisica delle cose costruite e da costruirsi) e dei sistemi di decisione relativi è divenuto, anche indirettamente, fondamentale e strategico. E non vi è dubbio che un assetto efficiente e qualitativamente distinguibile, anche sul piano architettonico, del complesso dei musei e dell'immagine di fondo giochi, in questo senso, uno dei ruoli determinanti, in una società di servizi, sorretta da veloce innovazione tecnologica, con standard di consumo tendenzialmente omogenei, e segnata da squilibri fortissimi (la contraddizione è solo apparente). Spunta un'ipotesi di ricerca. Urge una riflessione su riemersioni eventuali o inaspettate di elementi propri del rimpianto "Grand Tour" in un quadro totalmente "di massa" (che brutto modo di dire). Con tutti, o quasi i fattori in gioco cambiati. Comunque, qui gli architetti tornano utili. Specie se già molto, o troppo, affermati. Come al solito, si è sempre un pochino indietro: la griffe resiste versus un più raffinato, forse più adatto, anonimato.
Dunque, se un cartografo abile sezionasse a una certa quota il territorio, urbanizzato e anche non, si troverebbe probabilmente di fronte a un continuum museale, o sul punto di esserlo, o aspirante tale, piuttosto indistinto e trapuntato da episodi qualitativamente e formalmente eclatanti, di varie epoche e fogge diverse. Neppure le zone non costruite sfuggirebbero a una tale rilevazione: dopo tutto, non sono le montagne, o i mari, anche nei casi meno infrastrutturati, musei in se stessi? Di una ipotetica natura o naturalità, elemento essenziale di un mondo interamente artificiale? Questa possibile, utilissima cartografia si troverebbe tra l'altro subito, per correttezza scientifica e nitore mentale, di fronte alla necessità di dover incorporare le grandi reti tecniche e le opere civili. Prendiamo (non facendolo a caso) la Francia: le fogne di Parigi; la rete di canali navigabili; gli impianti della RATP e della RER; la Très Grande Bibliothèque e così via: esattamente come il Louvre, sistemi complessi a crescita continua, macchine a funzionamento ininterrotto, accumulo di memoria pulsante, memoria non combustibile, motori sempre accesi, indistinguibile ronzio di fondo della metropoli totale. Se poi si pensa che, contemporaneamente, andrebbe giocoforza condotta una analoga campagna di rilevamento e rappresentazione del commercio, delle sue reti e dei suoi nodi, dei flussi di persone e merci messi in moto, si potrebbe giungere a una individuazione dell'ordito e della trama che ammagliano, senza apprezzabili soluzioni di continuità, la nostra superficie terrestre. Compresi i fili immateriali sempre più necessari per tenere insieme il tutto. Cartografia come progetto e progetti come cartografie. Molto lavoro e campi nuovi per l'architettura.
Aver cercato di spiegare come e perché oggi tutto sia museo non vuol dire ovviamente che di edifici appositi non ci si debba più occupare. C'è anzi necessità di notevole impegno in questo senso. Progettare sistemi d'uso è solo un aspetto della questione (peraltro molto importante). Occorrono architetture innovative e belle. Non soltanto di richiamo o di ricamo. Fa riflettere, a distanza di anni, il Beaubourg, che continua comunque a segnare una grande svolta, probabilmente per molti versi l'ultima, e continua a star lì a funzionare senza interruzione, come le macchine di un transatlantico. Raccoglie, accoglie, ospita, produce, espone, forma, informa, diffonde, promuove, organizza. E' un must per ogni genere di turismo. In qualche modo riesce perfino ad assorbire gli sbalzi degli stili di gestione (che sono, si sa, uno dei principali rischi, anche endogeni, corsi continuamente dai musei di qualsivoglia natura).
Comunque, parrebbe proprio che l'intuizione/invenzione, come al solito del tutto architettonica, di Le Corbusier, il "Musée à croissance illimité (1930!), abbia, dopo tutto, trovato un suo modo di realizzarsi: come condizione di fondo, forma/non forma invasiva, punteggiata da episodi di architettura
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