Gioia dei corpi. Nell'attesa della risurrezione della carne.
da: Il Regno 18/2000, 15 ottobre

Ho fatto un'operazione a una gamba e me ne è venuta l'urgenza di dire qualcosa sul corpo. Che mi sento tagliato e non accetto di esserlo. Che mi duole la mortalità del mio corpo, cioè la mia mortalità, prefigurata da quel pezzo di me che ho perduto. Che non so più accettare che vengano negate le voglie e le gioie del mio corpo, nelle quali vedo iscritte - o figurate - tutte le mie aspettative, compresa quella di non morire. Che i bisogni e i desideri del mio corpo oggi mi sono cari - per dire tutto - quanto le attese di felicità dei miei figli. Che oggi lo guardo con più amore e lo rivoglio intero e con tutte le sue promesse, vissute o soltanto sognate. E l'attendo così dalla resurrezione.

Mentre ero bloccato dai drenaggi, ho letto "La carne gloriosa e santa" di don Emilio Gandolfo, pubblicato postumo - come "lettera di Pasqua agli amici" - nel marzo di quest'anno. In quell'ultima e più libera parola sul corpo, che quel saggio prete aveva maturato nella sua lunga mansuetudine celibataria, ho trovato interpretata la mia brama di vita. Ma quel testo è incompleto e sognandone il possibile completamento, ho intuito quanto sia difficile dire davvero qualcosa sul corpo.

Mi muovo dunque tra la volontà di dire e la certezza che anch'io - come quel fratello maggiore - riuscirò a dire poco: certo meno di quanto sento e voglio. Ma proprio per questo penso che valga la pena tentare, senza aspettare i maestri e gli specialisti. E chi sono poi i competenti sul corpo, i medici?

La difficoltà - per quanto capisco - non sta nella dottrina o nell'esperienza, perché nessuno sa davvero qualcosa sul corpo, mentre tutti ne abbiamo intera esperienza. La difficoltà sta nella lingua. Non abbiamo la lingua adatta a parlare del corpo e quella poca che abbiamo è piena di reticenze. E dunque anche un giornalista - badilante della lingua - può essere utile per tentare una sortita oltre i pudori.

Parto dal taglio che mi hanno fatto. Avverto la mutilazione. Mi hanno tolto - dalla coscia destra - il "muscolo tensore della fascia lata". Cammino lo stesso, ma fatico a salire le scale e non posso correre. Invece il mio lavoro va di corsa e qualche volta mi piaceva correre con i figli.

Sono colpito dalla mancanza di quella parte del mio corpo. Mi avevano detto: "Rimarrà una cicatrice e una deformazione estetica della gamba". Pensai che non me ne importava e invece mi importa. Non per come mi vedono gli altri, ma per come mi sento io.

Sono stato al mare in luglio e non mi importava che si vedesse la cicatrice. Delle ferite della vita ho imparato a non vergognarmi. Dirò anzi che quei due monconi di muscolatura, che segnano due bozzi sulla gamba, verso l'anca e subito sopra il ginocchio, io li amo. Non mi dispiace che "deformino" il profilo della coscia e nulla mi interessa una chirurgia plastica che non farebbe vedere nulla, ma porterebbe via ancora qualcosa.

Sono abituato a dormire su un fianco. Ed ecco che mi sveglio - quando mi ritrovo su quel fianco - con la pungente sensazione di quello che manca. I due bozzi formicolano e la cicatrice si scalda. Quel calore io l'intendo come la protesta del mio corpo per l'offesa ricevuta.

Dal poco taglio che ho subito, immagino che cosa debbano sentire quelli che vengono tagliati davvero. Avevo un vicino di letto, in ospedale, al quale amputarono una gamba. Chiamava gli infermieri e voleva che gli guardassero la gamba, perché diceva che c'era di nuovo: la sentiva formicolare. Anch'io sento le formiche, come dicono i bambini, che partono dalla cicatrice e vanno in tutte le direzioni. Credo che portino - non sanno dove, non so a chi - l'invocazione corporale della parte mancante.

Questa piccola esperienza chirurgica - combinata con la lettura della "lettera di Pasqua" di don Emilio - mi ha reso comprensibile un verso abbagliante del Paradiso di Dante che prima mi abbagliava soltanto: quello che mette in scena il "disio de' corpi morti", che fa fremere i beati quando Salomone nomina - nel canto XIV - la resurrezione della carne. Ora lo sento mio quel "disio". Sento che Dante ha parlato anche a mio nome, cioè a nome di tutti.

Riporto la parafrasi dei versi 34-66 di quel canto, come don Emilio l'adatta alla sua commossa celebrazione dell'attesa della resurrezione. In essi Salomone risponde a Dante, che vuol sapere se la luce dei beati durerà quando riavranno i corpi: "Rivestita che avremo la nostra carne gloriosa e santa, la nostra persona, restituita alla sua integrità, 'più grata fia (sarà più gradita a Dio e, insieme, più raggiante di gratitudine) per esser tutta quanta', cioè intera, completa. Crescerà la grazia che il sommo bene ci dona per vedere lui. E, crescendo la visione, crescerà l'ardore di carità che nasce da tale visione. Così quel fulgore, che ora ci circonda, crescerà quando saremo rivestiti di quella carne che al momento la terra ricopre". Ed ecco che a sentire della carne loro "che tutto dì la terra ricoperchia", questi beati spiriti del paradiso, in coro, fulminei, quasi non aspettassero altro, manifestano il "disio de' corpi morti", prorompendo in un "amen" di giubilo.

Invito il lettore a cercare il canto di Dante, chè poche cose ci sono nei libri che possano toccarci di più. Leggendolo mentre ero dolorante sul letto, mi sono avveduto che anch'io - come i beati della Commedia - ridesidero il mio corpo, dopo quel taglio. E penso a quel compagno d'ospedale che avevano amputato. E a come starebbe "accorto" ora don Emilio Gandolfo, se sentisse questo ragionamento.

Don Emilio è quel prete ligure ucciso a 80 anni - non si sa da chi - nella sua abitazione di Vernazza, il 2 dicembre dell'anno scorso: ne ho parlato nella prima puntata di questa rubrica, in febbraio. Ebbene a pasqua mi è arrivata la sua ultima e più preziosa lettera, intitolata appunto "La carne gloriosa e santa": gli amici hanno trovato il testo, quasi pronto, nel computer. Alcune correzioni le aveva fatte una settimana prima della morte.E si sa che le ultime parole di un uomo in noi durano di più.

Con questa sua proiezione in morte sul mistero della resurrezione, don Emilio ci dice qualcosa di straordinariamente attuale riguardo al corpo: sì, proprio lui, che era così schivo! Ci invita a considerarlo importante in Dio, a riattenderlo già da ora nella sua rinnovata integrità, segnalandoci con forza che "non è sufficiente l'immortalità dell'anima" a dire la nostra speranza di vita, come pure è sembrato in certa tradizione devozionale, quasi che la resurrezione della carne fosse una verità aggiuntiva. Ci ricorda che senza il corpo e finchè non lo riavremo non saremo noi, neanche in cielo.

Ecco la più importante tra le citazioni che aveva raccolto a sostegno della sua intuizione, tratta dal "Commento alla prima lettera di Paolo ai Corinti" di Tommaso d'Aquino, capitolo 15: "L'uomo naturalmente aspira alla salvezza di se stesso, ma essendo l'anima parte dell'uomo, non è tutto l'uomo e l'anima mia non sono io (anima mea non est ego); per cui, anche se l'anima nell'altra vita raggiunge la salvezza, non sono io che la raggiungo".

Ma che cosa ci voleva dire conclusivamente don Emilio mettendo insieme Tertulliano ("caro salutis cardo": la carne è il cardine della salvezza), Ignazio e Ireneo, i racconti delle resurrezioni evangeliche e i salmi pregati ogni giorno, Tommaso d'Aquino e l'amatissima Commedia di Dante?

Non ha avuto il tempo di scriverlo, ma io credo d'aver capito che volesse puntare a proporre l'"attesa della resurrezione della carne" come l'articolo del Credo più attuale oggi, rispondente all'ansia di vita intera dell'epoca. E non come attesa degli spiriti dell'oltretomba, ma come attesa nostra sulla terra. E forse ancora ci voleva fare avvertiti che l'uomo d'oggi, divenuto così audace e libero nelle sue aspettative, più non s'acquieta - anzi neanche si interessa - a un aldilà senza il suo corpo. Che la sua brama di vita pretende il riscatto pieno della carne. E che questa pretesa è fondata nella Scrittura ed è affermata nel Credo e va riscoperta a misura della cultura odierna.

Si deve tornare a dire in parole comprensibili all'uomo d'oggi - come ci riuscirono Tommaso e Dante per il loro tempo - che senza il corpo siamo incompleti, anzi non siamo noi! Tant'è che neanche potremo godere la piena beatitudine finchè il nostro corpo non sarà resuscitato. E finchè non avremo ritrovato, rivestite della loro carne, le persone che abbiamo conosciuto nella loro carne. Tra gli autori che l'incoraggiavano a cercare in questa direzione, don Emilio aveva messo anche Teresa di Lisieux, con questo motto felice: "In paradiso non ci saranno sguardi indifferenti".

L'ansia orante di don Emilio, calamitata dall'attesa della resurrezione, traspare da ogni pagina della sua ricerca: dalla prima in cui afferma che alla brama di vita dell'uomo non basta l'immortalità dell'anima, all'ultima dove confida, con il Salmo 16, che "anche la mia carne risposa nella speranza".

E ora una conclusione in cui non mi ispiro più a don Emilio, ma vado sulle mie gambe: il "disio de' corpi morti", cioè l'attesa della resurrezione della carne, è la forma più diretta, più universalmente umana, dell'attesa del Regno. In esso si esprime al più alto grado il gemito della creazione verso il proprio compimento. Quel desiderio va crescendo e innervando il pianeta e il cosmo, a misura che le generazioni sottomettono la terra e alla terra si riconsegnano. A esso partecipano tutte le creature umane, infine unite in un'unica invocazione. Tutte, che sappiano o no concludere la loro preghiera con il nome di Cristo, nel quale soltanto c'è salvezza.

Luigi Accattoli


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