Da "Avvenimenti" del 15/07/2000

Il segreto del parroco

A sette mesi dalla morte, l'assassinio feroce e misterioso di don Emilio Gandolfo, parroco di Vernazza, il gioiello delle Cinque Terre, in Liguria, la pista ufficiale è quella della rapina, ma ci sono molte ragioni che la rendono poco convincente.

Proprio il 3 dicembre 1999 il suo corpo minuto è stato trovato, a 24 ore dalla morte, sul pavimento della sua camera da letto, vestito, rannicchiato, quasi in posizione fetale, massacrato di botte. Triturato, quasi fosse stato rimasticato. L'autopsia ha rivelato che il parroco di Vernazza è stato picchiato selvaggiamente, forse a più riprese e per un'ora: aveva tutte le costole fratturate (una ha anche perforato un polmone) e un femore rotto. Poi è stato colpito per tre volte alla testa, con un corpo contundente che non è stato trovato. Il risultato dell'autopsia ha indotto gli investigatori ad allargare il campo delle ipotesi circa gli autori del delitto. Una persona sola, infatti, non avrebbe potuto compiere quell'aggressione. E la dinamica è troppo complessa per pensare ad una rapina. Don Gandolfo è stato aggredito al piano terra, dove ci sono gli uffici della canonica e dove sono state trovate delle cospicue macchie di sangue, il cadavere però si trovava nell'appartamento al terzo piano.

Un omicidio, che sembra preparato, compiuto con inaudita ferocia, dunque, su un uomo ormai anziano, mite, riservato e di grande spessore intellettuale.

Don Emilio Gandolfo, ligure, aveva ottant'anni. "Difficile crederci" scrive don Silvano Nistri, uno dei suoi migliori amici "soprattutto quando lo vedi camminare col suo passo leggero, su per sentieri anche i più ripidi e impervi, quasi volando".

Aveva insegnato religione prima a Palermo e poi per molti anni al liceo Virgilio, a Roma, dove aveva ancora la residenza. Poi era stato parroco nella sua Liguria a Levanto. Alla fine degli anni 70 era stato consulente ecclesiastico dell'ambasciata d'Italia presso la Santa Sede. Dopo aver soggiornato a Gerusalemme, era tornato a fare il parroco prima a Bonassola e poi a Vernazza. Parroco di piccoli paesi che d'estate diventano città, con gli abitanti locali frequentatori della chiesa solo negli intervalli tra un'occasione di guadagno e l'altra, con turisti invadenti che vanno e vengono, con i quali è impossibile impostare un lavoro pastorale.

Più volte l'anno guidava pellegrinaggi in Terra Santa, in Palestina, in Giordania, in Siria, in Grecia, in Turchia, in Algeria, in Europa. Numerose le pubblicazioni e i libri firmati da questo parroco, studioso della Bibbia, di san Paolo e dei Padri della Chiesa,che erano per lui tutti contemporanei e amici: Origene, Agostino, Gregorio Magno, la pellegrina Eteria, l'anonimo piacentino, san Bernardo, Carlo de Foucauld. Ma frequentava molto Orazio, Dante e Manzoni.

A Natale ed a Pasqua, ripetendo una tradizione quarantennale, inviava ai suoi tanti amici (oltre 1300 indirizzi) una lettera di riflessioni stampata in un semplice, ma elegante fascicoletto. Studioso attento ed appassionato ("nulla di erudito; solo quello che per lui è vivo, che interessa lui", commenta don Silvano Nistri), ma mai legato al mondo accademico, che lo ha sempre rifiutato, aveva promosso la pubblicazione dell'opera omnia di Gregorio Magno, del quale era uno dei maggiori conoscitori a livello mondiale e di cui aveva tradotto le opere più importanti: traduzioni magistrali per conoscere la nascita della cultura europea nell'Alto medioevo. Sulla scia di Gregorio aveva intuito che le immigrazioni sono un elemento strutturale della storia: le cosiddette invasioni barbariche furono l'avvento in Europa di "popoli nuovi" che venivano a rinsanguare, a tonificare un esausto occidente. Un fenomeno che oggi si ripete con gli immigrati, popoli nuovi.

Ma torniamo al delitto ed alla canonica, che è un palazzetto di tre piani, sovrastante la splendida chiesa romanica di Santa Margherita di Antiochia e addossato alla collina.

L' ingresso al piano terra si apre su uno stretto vicolo, al quale si accede attraversando la piazza del paese. Una stretta scala interna un vero e proprio sottopassaggio, collega la canonica direttamente con la chiesa. In quest'atrio è stata trovata una vasta chiazza di sangue, a testimonianza della prima aggressione con conseguente sbocco di sangue, che deve essere avvenuta verso le 8 di sera. Don Emilio è stato poi trascinato lungo una ripida scala interna (83 gradini) lungo tre piani fino al suo appartamento. Tutto è in disordine. Gli assassini cercavano qualcosa, forse una busta, un plico. Hanno rovistato ovunque. Al terzo piano forse l'aggressione definitiva. Hanno strappato i fili del telefono per lavorare indisturbati: chiunque avesse telefonato avrebbe ricevuto il segnale di linea guasta. Dall'appartamento, a livello del sentiero che da Vernazza conduce a Monterosso, si apre un ingresso secondario, da dove gli assassini, dopo un'oretta di botte e di ricerche, forse fruttuose, sarebbero fuggiti, richiudendo la porta a chiave, con quattro mandate. Il mazzo delle chiavi di don Emilio è una delle poche cose che manca da un appartamento semplice ed austero. Sulla scrivania addirittura tre buste con settecentomila lire.

Formalmente le indagini, complesse e difficili, propendono per la rapina finita male. Ma queste conclusioni non convincono nessuno. La povertà di don Emilio era nota e la dinamica del delitto lascia ipotesi inquietanti. Emilio Gandolfo era a conoscenza di qualche segreto che volevano carpirgli? O depositario di qualche documento? E poi tutto lascia pensare che conoscesse gli assassini, che avesse aperto con le proprie mani la porta, che non presenta segni di scasso. Ma don Emilio, specie di sera, non apriva a nessuno, soprattutto al piano terra, dovendo scendere tre piani di ripide scale. Invitava, semmai anche gli amici più cari, anche il sindaco del paese, ad entrare nel suo appartamento dall'ingresso secondario, al terzo piano, lungo il sentiero per Monterosso. Se è sceso ed ha aperto, almeno uno degli assassini, ed a questo punto le notazioni si fanno inquietanti, doveva essere una persona nota, forse molto importante ed autorevole.

Compiuti da un mese gli ottanta anni, don Emilio aveva deciso di lasciare Vernazza. Avrebbe dedicato il suo tempo ai viaggi ed allo studio a Roma. Avrebbe continuato a condurre esercizi spirituali specialmente con una comunità monastica a Lanuvio vicino Roma ed a L'Aquila. Avrebbe passato lunghi periodi a Sesto Fiorentino, dove lo legavano saldi legami di amicizia con la comunità parrocchiale di San Martino. Avrebbe continuato a vedere i suoi amici in ogni parte d'Italia, conosciuti nei tanti pellegrinaggi, nei luoghi dove aveva insegnato ed era stato parroco. Ha benedetto le nozze e celebrato i battesimi di un numero infinito di persone. Amici tanti ed alcuni molti "potenti". Ma don Emilio Gandolfo, senza gridarlo, senza proclami, ma operando concretamente, aveva rifiutato la sacralità del potere, anche del potere sacerdotale. Era, perciò, lontano da ogni aspirazione per incarichi ecclesiastici e curiali.

Avrebbe voluto esser parroco a Roma. Avrebbe voluto fare il pastore di un quartiere definito, coniugando vangelo e cultura antropologica, proponendo la sacra scrittura come lettera di Dio agli uomini, che cambia l'impegno nella vita di ogni giorno. Avrebbe voluto avere qualche impegno formalizzato di studio e di ricerca. Insomma avrebbe voluto fare quello che sapeva fare: dire cose molto semplici, come ha rilevato una sua giovane amica, spiegando cose molto difficili.

Uomo semplice e complesso, di pochi studi accademici, ma di grande cultura, sapere, ed esperienza (era stato anche in Cina, in Russia, in Argentina, leggeva di tutto anche tra gli autori moderni) aveva scelto di vivere povero e senza potere, per testimoniare che il vangelo, come ricordava citando Pomilio, non è un libro di devozione, ma la fonte di esperienze alternative. E' questa la colpa di don Emilio? Era solito dire che "l'unica vera soddisfazione consiste nel poter dire: il Signore si è voluto servire di me. Gli onori e i riconoscimenti umani sono soltanto fumo negli occhi. Ciò che conta è l'amicizia. Sento incessantemente questo vincolo soavissimo e ringrazio il Signore del dono di tanti amici come della più vera ricchezza".

E' proprio don Silvano a ricordare che la libertà è il suo carisma e che "don Emilio ha lo stile di vita del monaco, gli ideali, un certo radicalismo evangelico, il metodo di lavoro, soprattutto la libertà spirituale. Un monaco che ha scelto di vivere in città, fra la gente. La saletta del soggiorno nella canonica di Vernazza, con la grande vetrata che si affaccia sul mare ben al di sopra del tetto della chiesa, è il suo eremo, il suo deserto. Al centro della saletta c'è un tavolo, solo un tavolo. E' quasi tutto il suo arredo. Sgomberi nella sua vita don Emilio non ne ha fatti mai: è un viaggiatore con bagaglio appresso. Però sul tavolo c'è il computer portatile, tanti fogli sparsi e qualche libro, più un lessico di latino patristico. Qui don Emilio legge, traduce i suoi padri preferiti, ne trascrive qua e là su minuti foglietti i brani che lo toccano particolarmente e che poi passerà agli amici; soprattutto conversa con gli antichi personaggi".

Che cosa cercavano gli assassini tra le carte ed i libri di un personaggio di questo genere? Quali carte aveva? Lo hanno massacrato per farsi rivelare qualche segreto? E quale segreto? Non volevano che tornasse a Roma? Perché lo pregavano di rimanere a Vernazza dicendo che non sapevano come sostituirlo se poi già dopo pochi giorni nella chiesa di Santa Margherita si è insediato un nuovo parroco? Che cosa sapeva Emilio (e volevano farsi dire) di trent'anni della storia d'Italia (dei trent'anni in cui le stragi ed il terrorismo sono stati una strategia politica) di cui era stato attento e critico testimone? La dinamica dell'aggressione e dell'assassinio è diversa da quella fin qui ipotizzata?

E' difficile pensare che nessuno sappia o abbia sentito dire o visto niente? Per arrivare alla porta principale della canonica bisogna attraversare la piazza principale del paese o percorrere il tunnel del treno camminando sulla massicciata.

Forse le risposte al mistero della sua uccisione è in quel clima di "persecuzione e di ostilità" (sono parole scritte da lui) che lo ha accompagnato per anni, in cui è maturato il delitto?

Antonio Thiery


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