Da "Avvenire" di Martedì 7 dicembre 1999

 

SU DON EMILIO LA RABBIA SENZA VOLTO

Don Emilio è stato ucciso, forse da ladri nella sua parrocchia dove qualche settimana fa era tornato dall'ennesimo viaggio in Terra Santa. E proprio l'altro ieri era arrivata la sua "Lettera di Natale agli amici", puntuale come all'inizio dell'Avvento, così come l'affacciarsi della Quaresima portava quella di Pasqua. L'avevo scorsa avidamente, come sempre, ripromettendomi di leggerla con calma, per ripercorrere in qualche momento i testi che don Emilio sceglieva per accompagnare il suo, traendoli dalla Scrittura, dai Padri, da autori medievali e dalla nostra epoca, davvero come il "nuovo e vecchio" che il padre di famiglia evangelico prende dal suo tesoro: Agostino, Leone Magno, Guerrico d'Ign, Henri Bergson, Etty Hillesum, la Lumen gentium, la Tertio millennio adveniente, il cardinale Martini, per questo Natale, centinaia di nomi in tutti questi anni, come vedo riprendendo in mano la raccolta delle sue lettere offertagli per il cinquantesimo di sacerdozio.

E questi fascicoli di poche pagine, stampati con gusto fine e povero che non rinunciava mai a un'immagine d'arte (molto spesso romanica), hanno raggiunto per quasi quarant'anni (dal 1961) migliaia d'indirizzi, scritti invariabilmente a mano da don Emilio, che accompagnava così, con una fedeltà continuata e sommessa, i giovani che aveva incontrato al liceo "Virgilio" di Roma, seguendo con discrezione silenziosa le loro vicende e il mutare delle famiglie, sempre al corrente dei nuovi indirizzi. "Io amo il silenzio, ma amo anche la parola che nasce dal silenzio. Se parlo non è per attirare l'attenzione su di me, ma per invitare a rendere grazie con me al Signore" aveva scritto nel 1992.

Ma chi era don Emilio Gandolfo, questo piccolo Prete ottantenne che una sorte crudele e violenta ha mostrato quanto fosse parte di noi, spesso senza che nemmeno ce ne accorgessimo? Membro della Compagnia di San Paolo fondata dal cardinale Ferrari, per decenni insegnò religione al "Virgilio" e nel 1972 tornò nella sua Liguria per fare il parroco, con una breve parentesi come assistente ecclesiastico dell'ambasciata d'Italia presso la Santa Sede. Ma il suo destino era nelle parole che gli aveva scritto, il 28 marzo 1942, don Primo Mazzolari per la sua prima messa: "Vedi col cuore e ti sei messo dalla parte dell'amore per vedere il tuo Altare. Qualche fiore, come adesso sui mandorli, cadrà. Tu ne sei preparato: anche alla nudità dell'Altare, anche a una Croce spoglia e arsa. Ora, però, è bene che tu canti con tutta l'anima poiché credere è anche poesia, offrirsi è la più alta poesia, quella che nessuno potrà strapparci".

Innamorato della Terra Santa, v'era tornato decine di volte per accompagnare, pellegrinaggi che con lui rivelavano il loro senso più profondo. Lettore intelligente e instancabile, aveva studiato la Bibbia e i Padri con due grandi maestri, padre Lyonnet e il cardinale Pellegrino. Amava soprattutto Gregorio Magno, il papa monaco e pastore di cui per Città Nuova aveva tradotto il grande commento a Giobbe e le omelie su Ezechiele, ma conosceva bene tutta la patristica, di cui curò un'antologia ("Lettera di Dio agli uomini", Piemme) per mostrarne la continuità con la Scrittura, così come amava la tradizione cristiana, il suo Dante, la letteratura classica e quella contemporanea.

Aveva scritto per il Natale del 1983: "Eravamo odiosi e ci si odiava a vicenda, e proprio allora Dio manifestò la sua bellezza per renderci belli 'dal di dentro', come aveva pregato Socrate, per cambiarci di dentro, creando in noi un cuore nuovo, un cuore capace di amare come siamo amati. Chi è buono, infatti, se non chi lo diventa amando? E come può uno amare se prima non è amato? Non eravamo amabili, e Dio per primo ci ha amati, eravamo deformi, essendosi deturpata in noi l'immagine divina, e il Cristo è venuto a cercare l'uomo perduto, è venuto a rivelare a noi a noi stessi, è venuto a far risplendere in noi bellezza divina, dando se stesso come prezzo. Perciò nessuno appartiene più a se stesso, ma ci apparteniamo a vicenda perché siamo creature nuove, opera delle sue mani, chiamati insieme ad esprimere, ciascuno a suo modo, l'archetipo divino a immagine del quale siamo stati creati e ricreati".

Ecco il senso della vita di questo prete dal sorriso fiducioso, che all'inizio dell'Avvento un ladro nella notte ha ucciso senza poterlo sorprendere, perché don Emilio vigilava in attesa del suo Signore.

 

Gian Maria Vian

 

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