"La carne gloriosa e santa"

Negli ultimi anni don Emilio, secondo il suo stile, "ruminava" studi, letture, citazioni sulla risurrezione dei morti. Scriveva: L'attesa della risurrezione della carne è in piena armonia con la creazione dell'uomo e con l'incarnazione del Verbo di Dio, fatto carne, morto e risorto. Cristo, il primo dei risorti, è la "primizia" della nostra risurrezione. Non è sufficiente l'immortalità dell'anima. Infatti san Tommaso osserva che "se si nega la risurrezione del corpo, difficilmente si può sostenere l'immortalità dell'anima. Poiché l'anima non è tutto l'uomo, e l'anima mia non sono io: anima mea non est ego".

Aveva trovato come sempre conferme in Dante. Lavorava assiduamente al testo de "La carne gloriosa e santa". Si confrontava con gli amici. Apportava continuamente piccole modifiche. Preparava il testo per la pubblicazione. Nel viaggio in Egitto dell’ottobre 1999 citava spesso agli amici di Sesto Fiorentino le sue conclusioni, quasi volesse "provare" la validità del testo e delle citazioni preparate. Sulla base del viaggio in Egitto, il 25 novembre 1999 aveva ancora apportato modifiche ed un significativo ampliamento (per un terzo del testo) al file che custodiva nel suo computer. Dopo pochi giorni dava testimonianza delle sue riflessioni.

E’ questo il suo ultimo scritto, la sua profezia.


INDICE
(click su ogni paragrafo per andare al punto corrispondente del testo)

I. Aspetto la risurrezione della carne

II. Dante e la risurrezione della carne

III. La realtà della sua carne

IV. Il pegno della resurrezione

V. Anima mea non est ego

VI. Glorificate Dio nel vostro corpo

VII. Gli altri che non hanno speranza

VIII. Cristo discese agli Inferi

Conclusione


LA CARNE GLORIOSA E SANTA

di Emilio Gandolfo

 

I. Aspetto la risurrezione della carne

Il primo e l'ultimo articolo del Credo della Chiesa cattolica sono in perfetta sintonia. Dopo aver detto "credo in Dio Padre e creatore", dopo aver detto; "credo in Gesù Cristo Figlio di Dio, che per noi è morto e risorto", dopo aver detto: "credo nello Spirito santo e nella Chiesa, comunità in cammino verso la patria eterna", dopo aver professato la sua fede, che è la fede della Chiesa, il credente esprime la sua ferma speranza: "E aspetto la risurrezione dei morti".

L'attesa della risurrezione della carne è in piena armonia con la creazione dell'uomo e con l'incarnazione del Verbo di Dio, fatto carne, morto e risorto. Cristo, il primo dei risorti, è la "primizia" della nostra risurrezione. Non è sufficiente l'immortalità dell'anima. Infatti san Tommaso osserva che "se si nega la risurrezione del corpo, difficilmente si può sostenere l'immortalità dell'anima. Poiché l'anima non è tutto l'uomo, e l'anima mia non sono io: anima mea non est ego".

 

La bambina non è morta, ma dorme

Il primo annunzio della risurrezione dei morti fu a Cafarnao, nella casa di Giairo, dove Gesù giunse e trovo la figlioletta di dodici anni appena morta. C'era trambusto e gente che piangeva e urlava. Entrato, egli disse loro: "perché fate tanta confusione e piangete? La bambina non è morta, ma dorme". E lo deridevano. Ma Gesù, presa la mano della bambina, le disse: "Talità kum", che significa: "Fanciulla, io ti dico, alzati". Subito la risvegliò dal sonno della morte, e la fanciulla si alzò e si mise a saltare (Mc 5, 38-43), quasi a festeggiare la vita. Gesù fu dunque deriso quando per la prima volta annunziò la risurrezione, ma dimostrò di essere il Signore della vita quando prese per mano la bambina e la risvegliò dal sonno della morte. Anche san Paolo fu deriso, quando all'Areopago di Atene annunziò che Cristo risuscitò dai morti.

 

L'anima mia non sono io

Sotto l'influsso della mentalità greca, che privilegiava l'immortalità dello spirito e dell'anima, alcuni cristiani di Corinto ritenevano che non ci fosse risurrezione dei morti, ma esistesse solo una risurrezione spirituale. Paolo affermò, in modo chiaro e deciso, la risurrezione dei morti. Egli partiva dal contenuto essenziale dell'annuncio tradizionale, in cui si proclamava Cristo morto e risorto. "Ora, - egli argomenta - se si predica che Cristo è risorto dai morti, come possono dire alcuni tra voi che non vi è risurrezione dei morti? Se non vi è risurrezione dei morti, neanche Cristo è risorto! Ma se Cristo non è risorto, vuota allora è la nostra predicazione, vuota anche la vostra fede... Ora, invece, Cristo è risorto dai morti, primizia di coloro che muoiono" (1 Cor 15,1-28).

 

La carne è il cardine della salvezza

A questo proposito, il Catechismo della Chiesa Cattolica cita l'opera di Tertulliano De resurrectione carnis, dove egli sostiene che la carne è il cardine della salvezza, caro salutis cardo. Sì, la carne è il cardine della salvezza, perché Dio creò l'uomo carne e spirito, anima e corpo; e, per la salvezza dell'uomo, "il Verbo si fece carne". Non è lo stesso dire "si fece uomo", perché il Figlio di Dio assunse dell'uomo la condizione nomade e mortale, la fragilità e la debolezza della nostra carne. Donde la solenne promessa: "Il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo" (Gv 6,51). E ancora: "Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell'ultimo giorno" (Gv 6,54). La risurrezione nell'ultimo giorno appare così come l'atto finale della salvezza umana.

Credere nella risurrezione dei morti, e attenderla con ferma speranza, è stato, fin dalle origini, nota essenziale e caratteristica dei cristiani. Lo afferma con chiarezza e fierezza Tertulliano: Fiducia christianorum resurrectio mortuorum . La risurrezione dei morti è la speranza dei cristiani.

 

II. Dante e la risurrezione della carne

Il poema sacro - al quale ha posto mano e cielo e terra - esprime con chiarezza e vigore la fede e la speranza certa della Chiesa circa la risurrezione della carne. E' bello seguire il sommo poeta nel suo pellegrinaggio "verso l'ultima salute". E' molto probabile che Dante abbia partecipato come pellegrino al primo Giubileo indetto da Bonifacio VIII nel 1300. Ma il pellegrinaggio, che la Divina Commedia descrive, ha carattere esemplare, personale e universale, spirituale e cosmico. Il pellegrinaggio, che Dante intraprende in occasione del grande Giubileo con la guida di Virgilio, di Beatrice - Oh Beatrice, dolce guida e cara! - e infine di Bernardo, il contemplativo che gli fa cogliere il frutto del singolare itinerario, per un momento ci fa dimenticare l'aiuola che ci fa tanto feroci conducendoci fin sulla soglia di quel miro e angelico templo che solo amore e luce ha per confine Se l'inferno è, come dice Bernanos, non amare più, è salutare e necessario passare tra la perduta gente, visitare il regno dove l'umano spirito si purga / e di salire al ciel diventa degno., per raggiungere l'amor che move il sole e l'altre stelle.

Per essere salvato è necessario che l'uomo si senta perduto e riponga la sua speranza in chi solo può salvarlo. E' necessario inoltre che si convinca che l'inferno si apre sulla terra nella misura in cui l'uomo viene meno alla sua vocazione di amore. "Chi non ama rimane nella morte", dichiara perentorio san Giovanni. Il quale aggiunge: "Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore" (1 Gv 4,8). E del Paradiso non può capire nulla chi ne la fiamma d'amor non è adulto.

 

Dall'infima lacuna dell'universo

Nell'Inferno, luogo di perdizione, Dante incontra fra i ghiottoni Ciacco, il quale, dopo avergli predetto l'esilio, si congeda, raccomandando al pellegrino di ricordarlo ai vivi, una volta tornato sulla dolce crosta della terra. Poi bruscamente si chiude in un silenzio ostile come in un sonno profondo: più non ti dico e più non ti rispondo. Virgilio spiega: "Questo non si alzerà più fino allo squillo della tromba del Giudizio, quando ciascuno rivedrà la sua tomba funerea, riprenderà la sua carne e la sua figura; udrà quella sentenza che in eterno rimbomba"

E 'l duca disse a me: "Più non si desta
di qua dal suon de l'angelica tromba,
quando verrà la nimica podèsta:

ciascun rivederà la trista tomba,
ripiglierà sua carne e sua figura
udirà quel che in eterno rimbomba"

Inferno VI, 92-99

Marciando su un sentiero che rasenta le mura della città di Dite, Dante domanda timidamente a Virgilio che lo precede, se sia possibile vedere chi giace dentro i sepolcri scoperchiati. "Solo dopo il Giudizio universale", risponde Virgilio, "quando queste anime ritorneranno con i loro corpi dalla valle di Giosafat, tutte le tombe verranno sigillate. Da questa parte son sepolti Epicuro e i suoi seguaci, che ritengono che l'anima muoia con il corpo".

Ed elli a me: "Tutti saran serrati,
quando di Iosofàt qui torneranno
coi corpi che là su hanno lasciati.

Suo cimitero da questa parte hanno
con Epicuro tutt'i suoi seguaci,
che l'anima col corpo morta fanno

Inferno, X, 10-15

 

Non è giusto aver ciò ch'om si toglie

Dante e Virgilio entrano in un bosco che non è segnato da nessun sentiero. Si sentono dei lamenti ma non si vede nessuno. Dante allunga la mano e coglie un ramoscello da un gran pruno, e il tronco grida: "Perché mi schianti? Non hai nessuna pietà. Uomini fummo ed ora siam sterpi". Come da un tizzo verde che, acceso a un'estremità, dall'altra geme e cigola, così dalla scheggiatura dell'albero usciva insieme parole e sangue. Esce una voce umana che ha voglia di parlare e di manifestarsi. Dice: Io son colui che tenni ambo le chiavi / del cor di Federigo. E' Pier delle Vigne, l'uomo di fiducia di Federico II. Calunniato, cadde in disgrazia del sovrano e, disperato, si tolse la vita. Chiede di riabilitare nel mondo la sua memoria. Virgilio in compenso gli chiede perché l'anima è imprigionata in quei sterpi; e se è mai possibile che un'anima si svincoli e spieghi il volo da quelle membra di legno. Sospira sanguinando Pier della Vigna: "Come le altre anime, noi torneremo nel giorno del Giudizio a raccogliere le nostre spoglie sulla terra, ma non per rivestircene, poiché non è giusto che si riabbia indietro ciò di cui ci si è deliberatamente privati.

"Come l'altre verrem per nostre spoglie,
ma non però ch'alcuna sen rivesta,
ché non è giusto aver ciò ch'om si toglie.

Qui le strascineremo, e per la mesta
selva saranno i nostri corpi appesi,
ciascuno al prun de l'ombra sua molesta".

Inferno XIII, 103-108

In questa selva, dunque, rimarranno appesi i corpi di quelli che si uccisero, senza alcuna speranza di ricongiungersi con l'anima, ché non è giusto aver ciò ch'om si toglie. . Basterà ricordare ciò che sta scritto sulle porte dell'Inferno: Lasciate ogni speranza, voi ch'intrate.

 

La vesta ch'al gran dì sarà sì chiara

Per correr miglior acque alza le vele / omai la navicella del mio ingegno / che lascia dietro a sé mar sì crudele... Questo 'mar sì crudele' è l'orrore del racconto infernale; le 'miglior acque' sono l'argomento di quel secondo regno / dove l'umano spirito si purga / e di salire al ciel diventa degno.
Quando i poeti escono dall'inferno, non è ancora l'alba. In purgatorio, il primo incontro è con un vegliardo venerando e solitario, dalla barba lunga e striata di bianco, con i capelli che in due liste gli scendono sul petto. E' Marco Porcio Catone, l'Uticense, il quale per tutta la vita si batté in difesa delle libertà repubblicane, e alla notizia della disfatta dell'armata anticesariana si uccise in Utica (poche miglia dalle macerie di Cartagine).
Virgilio prega Catone di fare buona accoglienza a Dante quale pellegrino che ha intrapreso un sì lungo e arduo viaggio in cerca della libertà: libertà va cercando, ch'è si cara, / come sa chi per lei vita rifiuta. Sì, lo sa bene Catone, che in nome della libertà non gli fu amaro morire in Utica, dove ha lasciato quel corpo che gli sarà restituito sfolgorante nel giorno supremo.

Tu 'l sai ché non ti fu per lei amara
in Utica la morte, ove lasciasti
la vesta ch'al gran dì sarà sì chiara.

Purgatorio I, 70-75

Il gesto di Catone, che si toglie la vita per la libertà, si richiama all'eroe stoico che è pronto a pagare la libertà con la vita. L'ideale stoico non è ancora l'ideale cristiano incarnato nei numerosi martiri, testimoni di Cristo, che provengono dalla grande tribolazione. Essi hanno vinto "per mezzo del sangue dell'Agnello e grazie alla testimonianza del loro martirio, e hanno disprezzato la morte fino a morire" (Ap 12, 11).

 

Anime contente della breve festa

Alla luce del sole, che illumina la montagna del Purgatorio, Dante osserva l'ombra del suo corpo e rimane smarrito: teme d'esser rimasto solo. Virgilio lo rassicura e aggiunge:vespero è già colà dov'è sepolto / il corpo dentro al quale io facea ombra. Ed ecco, compare uno stuolo di anime. Vengono avanti come un branco di pecore (come le pecorelle escon dal chiuso ) e si arrestano stupite di fronte all'ombra che il corpo di Dante proietta. Senza aspettare la loro domanda, Virgilio le previene che è corpo umano quello che vedono fendere la luce del sole sul terreno. E spiega che il viaggio di Dante con il corpo non avviene senza speciale facoltà conferitagli dal cielo.

"Sanza vostra domanda io vi confesso
che questo è corpo uman che voi vedete,
per che 'l lume del sole in terra è fesso.

Purgatorio III, 94-96

"Colui non par corpo fittizio". Non è la prima volta che in Purgatorio, nel regno delle ombre, il corpo di Dante suscita meraviglia nelle anime che incontra. Qui, dove arde il fuoco dei Lussuriosi, la fiamma sembra arroventarsi nel profilo d'ombra che proietta il corpo del poeta. Un'anima gli si accosta e gli chiede:

"Dinne com'è che fai di te parete
al sol, pur come tu non fossi ancora
di morte intrato dentro da la rete".

Purgatorio XXVI, 22-24

Dante gli risponderebbe subito, se un'altra novità non attirasse tutta la sua attenzione. Egli viene a trovarsi proprio lì dove due file s'incrociano, vede baciarsi premurosa ombra con ombra, senza sostar per questo, contente tutte della breve festa. Così s'ammusa l'una con l'altra formica. Il pellegrino è li che si guarda la scena tutto assorto.

Lì veggio d'ogne parte farsi presta
ciascun'ombra e baciarsi una con una,
sanza restar, contente a brieve festa:

Purgatorio XXVI, 31-33

Poi il pellegrino così risponde alla domanda: "O anime sicure d'ottenere, quando che sia, la sospirata pace,

non son rimase acerbe né mature
le membra mie di là, ma son qui meco
col sangue suo e con le sue giunture".

Dante, a sua volta, riceve una risposta che esprime nostalgia della vita terrena nel tempo e nella carne: Beato te, che per morire meglio, esperienza imbarche! Il vivere sulla terra nel corpo consente un'esperienza salutare e tende verso la morte come compimento della vita e preparazione alla beatitudine eterna. Ma anche il rito dell'abbraccio e del bacio con la breve festa che rende contente quelle anime, esalta il valore della carne come strumento di amore, di comunione e di gioia. Il corpo non è soltanto limite, ma altresì strumento di comunione e di letizia.

 

Il corpo insepolto di Manfredi

Nel canto III del Purgatorio Manfredi racconta la sua fine, manifestando viva nostalgia del suo corpo rimasto insepolto:

Poscia ch'io ebbi rotta la persona
di due punte mortali, io mi rendei,
piangendo, a quei che volentier perdona.

Se il vescovo di Cosenza avesse tenuto conto dell'infinita bontà divina non sarebbe andato a prendere le sue ossa - l'ossa del corpo mio - custodite in capo al ponte Calore presso Benevento, per lasciarle insepolte oltre i confini del regno di Napoli, lungo il fiume Liri. Or le bagna la pioggia e le move il vento . E' chiaro che Manfredi non pensa soltanto al suo corpo, bensì alla sua persona tutta quanta.

 

e la fine di Bonconte

Il V canto del Purgatorio è dedicato alle anime di quelli che morirono di morte violenta. Tra essi è Bonconte di Montefeltro. Con accenti di profonda commozione, egli racconta la sua fine dolorosa. Prese parte alla battaglia di Campaldino e cadde sul campo. Ma il corpo di Bonconte non fu trovato mai. "Qual forza o qual ventura - chiede Dante - ti ha trascinato via da Campaldino, tanto che non s'è mai saputo dove riposa il tuo corpo?" Bonconte risponde: "Ferito gravemente, arrivai con la gola forata, fuggendo a piedi e insanguinando il piano, là dove l'Archiano, che nasce sull'Appennino sopra l'eremo di Camaldoli, si getta nell'Arno.

Quivi perdei la vista e la parola;
nel nome di Maria finì, e quivi
caddi, e rimase la mia carne sola

Bonconte continua: "Dirò la verità, e tu divulgala tra i viventi: Quando l'angelo di Dio raccolse la mia anima, l'angelo d'inferno gridava: Perché mi derubi? Tu ti porti via l'eterno di costui per una lacrimetta, ma io mi vendicherò sul suo corpo. Infatti scatenò una furiosa tempesta: la pioggia cadde a scroscio e travolse il mio corpo. L'Archian rubesto trovò alla foce il mio corpo gelato, e lo spinse in Arno, e sciolse al mio petto la croce / ch'i' fe' di me, la croce in cui m'ero composto incrociando le braccia sul petto, quando 'l dolor mi vinse". L'anima è salva, ma aspetta di essere ricongiunta alla carne, che è rimasta "sola".

 

La rivestita carne alleluiando

Allo squillo delle trombe angeliche, il giorno del giudizio, i morti in Cristo sorgeranno prontamente, ciascuno dalla propria tomba, intonando l'Alleluia pasquale con la carne di cui saran rivestiti e con la loro voce. C'è, infatti, chi legge la rivestita carne alleluiando, chi invece la rivestita voce alleluiando. E' certo però che la "voce" corrisponde alla "carne" che ciascuno assumerà nella risurrezione della carne, quando i morti risorgeranno. Qui Dante parla solo dei beati.

Quali i beati al novissimo bando
surgeran presti ognun di sua caverna,
la revestita carne alleluiando

Purgatorio XXX, 13-15

Beatrice ricorda a Dante che la nostra vita senza mezzo spira la somma beninanza. Ora, se Dio alita direttamente nel feto l'anima razionale, e la innamora di sé sì che poi sempre la disira, a ciascuno di noi tocca la vita nella sua identità intera d'anima e di corpo, da quel soffio all'eternità. Ecco dunque la persona umana tutta quanta, che la risurrezione della carne dovrà restituire nella sua interezza.

E quinci puoi argomentare ancora
vostra resurrezion, se tu ripensi
come l'umana carne fessi allora
che li primi parenti intrambo fensi.

Paradiso VII, 142-148

Beatrice, insomma, richiama Dante alla speranza del suo destino eterno fondato sulla sua origine. L'umana carne fu sì corrotta dal peccato, ma altresì fu redenta dal Figlio di Dio, che s'incarnò, morì e risuscito nel suo vero corpo. La liturgia della veglia pasquale audacemente esalta quella felix culpa, che meritò di avere un sì grande Redentore.

 

Da Cristo prese l'ultimo sigillo

Accolto tanto gloriosamente dagli spiriti del Sole e libero dalle cure affannose dei miseri mortali, Dante pone sulla bocca di Tommaso d'Aquino l'elogio di san Francesco, la cui mirabil vita / meglio in gloria del ciel si canterebbe. Papa Innocenzo III approvò l'ordine religioso da lui fondato, Onorio III, non senza divina ispirazione, incoraggiò la santa voglia d'esto archimandrita. Ma fu Cristo stesso che pose su di lui "l'ultimo sigillo", imprimendo nelle sue carni il segno della redenzione. Questo sigillo Francesco lo ebbe due anni prima della sua morte "nel crudo sasso" della Verna "intra Tevero e Arno".

nel crudo sasso intra Tevero e Arno
da Cristo prese l'ultimo sigillo,
che le sue membra due anni portarno.

Paradiso XI, 106-108

San Francesco può dire con san Paolo: "Completo nella mia carne ciò che manca alla passione di Cristo" (Col 1,24). E d'ora innanzi nessuno potrà insinuare dubbi sull'autenticità della sua somiglianza a Cristo: "io infatti porto il marchio di Gesù sul mio corpo" (Gal 6,17).

 

La carne gloriosa e santa

Canto XIV del Paradiso. Festa di Paradiso. Liturgia celeste, che si esprime in canti e danze. Dante vorrebbe sapere se la luce che ora avvolge i beati spiriti durerà sempre, anche quando essi avranno ripreso la loro carne. A tali parole, invasi da un più vivo impeto di gioia, essi riprendono a danzare cantando, con voce più soave di prima: Quell'uno e due e tre che sempre vive / e regna sempre in tre e 'n due e 'n uno...E' il canto in onore della Trinità divina che riempie d'ebbrezza il pellegrino. Il quale ammette che senza questa esperienza non si può avere un'idea del paradiso.
Poi Salomone risponde: "Per quanto durerà la festa di paradiso, per tanto il nostro amore ci rivestirà di questa luce; non solo: rivestita che avremo la nostra carne gloriosa e santa, la nostra persona restituita alla sua integrità, più grata fia (sarà più gradita a Dio e, insieme più raggiante di gratitudine), per esser tutta quanta, cioè intera, completa. Crescerà la grazia che il sommo bene ci dona per vedere lui; e, crescendo la visione, crescerà l'ardore di carità che nasce da tale visione. Così quel fulgore, che ora ci circonda, crescerà quando saremo rivestiti di quella carne che al momento la terra ricopre".
Per la risurrezione della carne gli spiriti beati son felici, non soltanto per sé, ma per tutte le persone care, che, insieme a mamma e babbo, sospirano di poterli rivedere coi loro occhi rivestiti di quella medesima carne con cui si conobbero e amarono. E' una nota piena di tenerezza e di umanità, che richiama la frase di Teresa di Lisieux: "In paradiso non ci saranno sguardi indifferenti".
Ai piedi del monte Purgatorio, la pietà del proprio corpo è un pensiero struggente delle anime dei morti-per-forza. Con la sua morte Catone ha lasciato in Utica la vesta ch'al gran dì sarà sì chiara. Ma adesso, a sentire della carne loro che tutto dì la terra ricoperchia, e che nell'ultimo giorno risplenderà di luce sfolgorante, questi beati spiriti del paradiso, in coro, fulminei, quasi non aspettassero altro, manifestano il disio de' corpi morti prorompendo in un 'Amen' di giubilo.

Come la carne gloriosa e santa
fia rivestita, la nostra persona
più grata fia per esser tutta quanta:

Tanto mi parver subiti e accorti
che l'uno e l'altro coro a dicer 'Amne!',
che ben mostrar disio de' corpi morti:

 

La speranza è uno attender certo

Dante, interrogato da san Giacomo sulla speranza, risponde che la speranza è uno attender certo - de la gloria futura, il qual produce - grazia divina e precedente merto. San Giacomo allora gli chiede di dire quello che la speranza gli promette. Dante risponde: Le nove e le Scritture antiche / pongon lo segno, ed esso lo mi addita, / de l'anime che Dio s'ha fatte amiche; cioè, nuovo e antico Testamento fissano l'obbiettivo del buon cristiano (di quanti Dio ha reso suoi amici), e quell'obbiettivo designa l'oggetto della sua speranza. E qual è l'oggetto della speranza? Isaia dice che ciascuna anima in paradiso sarà rivestita di doppia vesta:
"Perché il loro obbrobrio fu di doppia misura, per questo possederanno il doppio nel loro paese, avranno una letizia perenne" (Is 61,7). Poi subito dopo aggiunge: "Io gioisco pienamente nel Signore, la mia anima esulta nel mio Dio, perché mi ha rivestito delle vesti di salvezza, mi ha avvolto con il manto della giustizia, come uno sposo che si cinge il diadema e come una sposa che si adorna di gioielli" (Is 61, 10).
Dante sintetizza allegorizzando: doppia vesta saranno anima e corpo, promessi ai beati nella risurrezione della carne; la loro patria è il paradiso. Questo è, nell'antico Testamento, l'oggetto della speranza: la letizia perenne di vivere in paradiso completi d'anima e corpo. Nel nuovo Testamento la promessa è più particolarmente esposta (digesta). Infatti nell'Apocalisse si legge: "Poi apparve una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua. Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all'Agnello, avvolti in bianche vesti" (Ap 7,9). Le bianche vesti, o bianche stole, sono i corpi immacolati degli eletti.

E io: "Le nove e le Scritture antiche
pongon lo segno, ed esso lo mi addita,
de l'anime che Dio s'ha fatte amiche.

Dice Isaia che ciascuna vestita
ne la sua terra fia di doppia vesta;
e la sua terra è questa dolce vita;

e 'l tuo fratello assai vie più digesta,
là dove tratta de le bianche stole,
questa rivelazion ci manifesta".

Paradiso XXV, 88-96

A quanti vivono in questo mondo "senza Dio e senza speranza" Paolo, l'apostolo dei pagani, rivela il mistero nascosto da secoli e da generazioni. In che consiste questo mistero? E' "il mistero di Cristo in voi, speranza della gloria" (Col 1,27). La speranza della gloria non è qualcosa di vago, ma una persona concreta, che misteriosamente, ma realmente, è già presente in noi. La gloria che si manifesterà in noi, non è qualcosa con cui saremo rivestiti, ma è già in noi, e sorge da noi come il frutto dalla radice. La speranza della gloria, "la gloria futura che si rivelerà in noi", è Cristo già presente in noi. Si tratta, è vero, di una presenza oscura, che ora soltanto la fede percepisce, ma che un giorno apparirà in tutto il suo fulgore. "Quando Cristo, nostra vita, sarà manifestato, allora anche voi apparirete con lui nella gloria"(Col 3,4)

 

E Dio parea nel suo volto gioire

Non occorre essere lettori assidui e attenti del Paradiso di Dante, per notare che salendo di cielo in cielo Beatrice diventa sempre più bella e il suo sguardo sempre più luminoso, e la luce crescente procura gioia crescente al pellegrino Dante. Beatrice lo fissa con occhi così traboccanti faville d'amor che lo sguardo di Dante rimane sopraffatto ed egli quasi vien meno. Nel canto III del Paradiso Piccarda risponde alle domande di Dante tanto lieta, / ch'arder parea d'amor nel primo foco. Il primo foco, che accende amore e letizia nei beati spiriti, è Dio stesso. Così alla fine di quel canto, Dante si volge a guardare Beatrice che lo guida, ma quella lo folgorò col suo sguardo che l'occhio suo non sostenne tanta luce

e a Beatrice tutto si converse;
ma quella folgorò ne lo mio sguardo
sì che da prima il viso non sofferse

Paradiso III, 127-129

Dopo aver sottolineato una cosa tanto importante per il poeta e per noi, che il dubbio nasce a guisa di rampollo a piè del vero, e che esso al sommo pinge noi di collo in collo, Beatrice lo guarda con occhi così traboccanti faville d'amor, attinte alla fonte divina, che Dante, sopraffatto, non riesce a guardarla ed è costretto ad abbassare gli occhi.

Beatrice mi guardò con gli occhi pieni
di faville d'amor così divini,
che ,vinta, mia virtute diè le reni,
e quasi mi perdei con li occhi chini.

Paradiso IV, 139-142

 

Oh, vero sfavillar del santo Spiro!

E' questa l'esclamazione del poeta, i cui occhi rimangono abbagliati da tanta luce. Tollerano bensì la visione di Beatrice, la quale gli si mostra così bella e ridente che egli non riesce a descrivere.

Ma Beatrice sì bella e ridente
mi si mostrò, che tra quelle vedute
si vuol lasciar che non seguir la mente

Paradiso XIV, 78-81

Quel sorriso restituisce agli occhi del pellegrino volante l'ardire e l'energia di riguardare in su, e vedersi innalzato, lui solo con la sua donna, in più alta salute (a un grado superiore di beatitudine, frutto della contemplazione del sommo mistero, che segna la meta suprema del suo pellegrinaggio.). Sono entrati nel corpo affocato di Marte. E nel cielo di Marte il sorriso di Beatrice convince il pellegrino che ha toccato il fondo del paradiso.

ché dentro a li occhi suoi ardea un riso
tal ch'io pensai co' miei toccar lo fondo
de la mia grazia e del mio paradiso.

Paradiso XV, 34-36

Ma il pellegrino non ha ancor toccato il fondo del suo paradiso. Infatti Beatrice prima lo guarda con tanto affetto, che nello sguardo di lei il pellegrino dimentica ogni cosa; poi lei gli sorride e lo invita a rimirar di nuova nella croce in cui lampeggia Cristo. Il Cristo appare e scompare, si mostra e si nasconde; segno che ancora la rivelazione non è piena e definitiva. Il pellegrino deve sapere che il paradiso non è ancora neppure negli occhi della sua donna. E finalmente il sorriso di Beatrice fa pensare non solo alla beatitudine dello spirito che vede Dio faccia a faccia, ma altresì alla trasfigurazione della carne in cui si riflette la gioia stessa di Dio. Beatrice

incominciò, ridendo tanto lieta,
che Dio parea nel suo volto gioire:

Paradiso XXVII, 104-105

"Entra nella gioia del tuo signore" (Mt 25,21). Così verrà detto nell'ultimo giorno al servo buono e fedele. Se già su questa terra la gioia del Signore, in altri termini, la grazia di Dio, prende possesso del giusto, e in qualche modo sul suo volto risplende la gloria di Dio, un pò come sul Tabor, la vita eterna raggiunge un tale culmine di beatitudine che l'uomo non può più contenere la gioia del suo Signore, poiché questa gioia lo invade in modo torrenziale in un tripudio senza limite e senza termine. Dio parea nel suo volto gioire.

 

Lo maggior foco

Il pellegrino, ormai vicino a l'ultima salute, sente il bisogno di confidare al lettore il desiderio struggente del bel giardino / che sotto i raggi di Cristo s'infiora... per lo quale io piango spesso / le mie peccata e 'l petto mi percuoto. Dal canto suo, Cristo, designato volta a volta come la sapienza e la possanza / ch'aprì le strade tra 'l cielo e la terra, / onde fu già sì lunga disianza o, più succintamente, come nostro disiro e come figlio o semenza di Maria Vergine, è apparso a tutta prima al pellegrino celeste in veste di sole. Ora a proposito di quel giardino, che è il paradiso, vede la rosa in che 'l verbo divino carne si fece.. Ed è proprio necessario che egli volga lo sguardo a Maria, la faccia che a Cristo più si somiglia, perché lei sola, nel suo fulgore, può disporre alla visione abbacinante di Cristo. Egli è lo maggior foco, il quale sarebbe "fuoco divorante", se non ci fosse una mano materna protettiva. San Bernardo dice che Dio è un fuoco che consuma ma non affligge, arde soavemente e rende felicemente desolati. Ed è nella fiamma di questo fuoco che si diventa "adulti nell'amore".

Il nome del bel fior ch'io sempre invoco
e mane e sera, tutto mi ristrinse
l'animo ad avvisar lo maggior foco

Paradiso XXIII, 88-90

 

Con le due stole nel beato chiostro

Il poeta si ostina a fissare quell'ultimo foco che lo acceca, finché non si sente dire: "Perché t'accechi nel tentativo di vedere una cosa che non c'è (voglio dire: il mio corpo)? Il mio corpo è terra sotto terra, e in terra resterà con tutti gli altri corpi, fin tanto che il numero di noi beati non sia completo. Con le due stole, soggiunge Giovanni, autore dell'Apocalisse, insomma con la stola-anima e con la stola-corpo, nel santo chiostro del paradiso ci son soltanto le due luci che tu hai visto ascendere all'Empireo (Gesù Cristo e sua madre): quando torni al mondo riferisci.

In terra è terra il mio corpo, e saragli
tanto con li altri, che 'l numero nostro
con l'etterno proposito s'agguagli.

Con le due stole nel beato chiostro
son le due luci sole che saliro;
e questo apporterai nel mondo vostro".

Paradiso, XXV,124-129

 

Nel ventre tuo si raccese l'amore

Nel suo viaggio verso l'ultima salute, Dante è guidato prima da Virgilio (la ragione), poi da Beatrice (la fede) e infine da san Bernardo, che simboleggia la contemplazione. Sulla bocca di san Bernardo, il cantore di Maria, Dante pone la preghiera più alta che labbro umano abbia mai elevato alla Vergine:

Vergine Madre, figlia del tuo Figlio,
umile e alta più che creatura,
termine fisso d'eterno consiglio

Paradiso XXXIII, 1-3

Nell'Ave Maria i francesi dicono alla madre del Signore; "Sia benedetto il frutto delle tue viscere". E' lo stesso realismo che usa san Bernardo quando medita il mistero ineffabile del Verbo fatto carne nel ventre della vergine Maria. Egli parla della sacra historia Verbi, accostando due termini (la storia e il Verbo), che sembravano tanto lontani. Da allora la storia cominciò ad essere storia della salvezza. Quando il Verbo si fece carne nel ventre di Maria, si ripristinò il patto d'amore fra Dio e il genere umano. Nel suo ventre si raccese l'amore. L'amore di Dio, che sulla terra sembrava irrimediabilmente spento, si riaccese nel ventre di Maria, e il suo calore fece germogliare il fiore del Paradiso. Maria è la rosa in che il Verbo divino carne si fece. Il Paradiso si presenta dunque in forma di candida rosa:

In forma dunque di candida rosa
mi si mostrava la milizia santa
che nel suo sangue Cristo fece sposa

Paradiso XXXI, 1-3

Questa visione si ispira alla visione dell'Apocalisse di san Giovanni: "Poi apparve una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua. Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all'Agnelllo, avvolti in bianche vesti" (Ap 7,9). Questa moltitudine immensa appare a Dante in forma di rosa: rosa candida, naturalmente, in quanto candide sono le vesti dei beati, reintegrati nella perfezione della corporalità che son destinati a recuperare. Al momento presente con le due stole, cioè con il corpo nel beato chiostro soltanto due sono le stole, le vesti, cioè i corpi gloriosi: quello di Cristo e quello di sua Madre.

Il Paradiso è il miracolo dell'amore divino, che ha fatto rifiorire l'aridità del deserto umano nel ventre di una donna. Nel canto XXIII i beati manifestano il loro amore per Maria come il bambino che, dopo aver preso il latte, tende le braccia verso la mamma con uno slancio amoroso che impegna tutto l'essere suo. L'immagine è spirituale e corporale insieme, tanto da richiamare la famosa frase di Tertulliano:"La carne è il cardine della salvezza" Come Gesù è il frutto benedetto delle viscere materne di Maria, così il paradiso è il fiore germogliato dal medesimo calore di amore.

Nel ventre tuo si raccese l'amore,
per lo cui caldo ne l'etterna pace
così è germinato questo fiore.

Paradiso XXXIII, 7-9

 

III. La realtà della sua carne

"Da questo potete riconoscere lo Spirito di Dio: ogni spirito che riconosce Gesù Cristo venuto nella carne, è da Dio" (1Gv 4,2). Così scrive Giovanni nella sua lettera di accompagnamento al suo vangelo, in cui proclama che "il Verbo di Dio si fece carne e venne a mettere la sua tenda in mezzo a noi". Giovanni - il discepolo che nell'ultima cena poggiò la testa sul petto di Gesù e che da lui ricevette, ai piedi della croce, Maria come sua madre - rende testimonianza alla realtà del Verbo fatto carne, che egli ascoltò con le sue orecchie, vide con i suoi occhi e toccò con le sue mani.

Giovanni scrisse il suo vangelo ad Efeso e in tutta l'Asia Minore divulgò il suo messaggio, che s'incentra sul Verbo di Dio fatto carne. C'era già la tendenza a ridurre il realismo della carne, intaccando il mistero del Verbo. La sua testimonianza fu confermata da Ignazio d'Antiochia e da Ireneo di Lione, che appartenevano alla medesima area culturale e che individuarono nello gnosticismo la più sottile insidia alla fede della Chiesa nascente. E' quindi opportuno citare la testimonianza di Ignazio e quella di Ireneo in piena sintonia con l'insegnamento di san Giovanni e di san Paolo.

 

Testimonianza di Ignazio d'Antiochia

Delle sette Lettere che Ignazio scrisse, citiamo quella ai cristiani di Smirne, sede di san Policarpo:

"Ringrazio Gesù Cristo Dio che vi ha resi così saggi. Ho visto infatti che siete fondati su una fede incrollabile, come se foste inchiodati, carne e spirito, alla croce del Signore Gesù Cristo, e che siete pieni di carità nel sangue di Cristo. Voi credete fermamente nel Signore nostro Gesù, credete che egli discende veramente "dalla stirpe di David secondo la carne" ed è Figlio di Dio secondo la volontà e la potenza di Dio; che nacque veramente da una vergine; che fu battezzato da Giovanni, che fu veramente inchiodato in croce per noi nella carne sotto Ponzio Pilato. Noi siamo infatti il frutto della sua croce e della sua beata passione.

Avete ferma fede inoltre che con la sua risurrezione ha innalzato nei secoli il suo vessillo per riunire i suoi santi e i suoi fedeli, sia Giudei che Gentili, nell'unico corpo della sua Chiesa. Egli ha sofferto la sua passione per noi, perché siamo salvi; ed ha sofferto realmente, come realmente ha risuscitato se stesso.

Io so e credo fermamente che anche dopo la sua risurrezione egli è nella sua carne. E quando si mostrò a Pietro e ai suoi compagni, disse loro: Toccatemi, palpatemi e vedete che non sono uno spirito senza corpo (cfr. Lc 24,39). E subito lo toccarono e credettero alla realtà della sua carne e del suo spirito. Per questo disprezzarono la morte e trionfarono di essa. Dopo la sua risurrezione, poi, Cristo mangiò e bevve con loro proprio come un uomo in carne e ossa, sebbene spiritualmente fosse unito al Padre".

Ignazio d'Antiochia, Lettera ai cristiani di Smirne 1-4

 

IV. Il pegno della risurrezione

Come si è detto, il primo scoglio che incontrò la nascente fede cristiana fu lo gnosticismo nelle sue molteplici espressioni. Lo gnosticismo nasceva dal non prendere sul serio la realtà della carne assunta dal Verbo, che faceva dire a Tertulliano: "La carne è il cardine della salvezza". Questo realismo trova già in sant'Ireneo del II secolo una vigorosa testimonianza. Nella sua opera, giustamente considerata la prima sintesi teologica, egli scrive:

 

Testimonianza di Ireneo di Lione

"Se la carne non viene salvata, allora né il Signore ci ha redenti con il suo sangue, né il calice dell'Eucaristia è la comunione del suo sangue, né il pane che spezziamo è la comunione del suo corpo. Il sangue infatti non viene se non dalle vene e dalla carne e da tutta la sostanza dell'uomo nella quale veramente si è incarnato il Verbo di Dio. Ci ha redenti con il suo sangue, come dice anche il suo Apostolo: in lui abbiamo la redenzione e la remissione dei peccati per mezzo del suo sangue.

Noi siamo sue membra, ma siamo nutriti dalle cose create, che egli stesso mette a nostra disposizione, facendo sorgere il suo sole e cadere la pioggia come vuole. Questo calice, che viene dalla creazione, egli ha dichiarato che è il suo sangue, con cui alimenta il nostro sangue. Così pure questo pane, che viene dalla creazione, egli ha assicurato che è il suo corpo con cui nutre i nostri corpi.

Il vino e il pane ricevono la parola di Dio e diventano Eucaristia, cioè corpo e sangue di Cristo. Da essa è alimentata e prende consistenza la sostanza della nostra carne. E allora come possono alcuni affermare che la carne non è capace di ricevere il dono di Dio, cioè la vita eterna, quando viene nutrita dal sangue e dal corpo di Cristo, al quale appartiene come parte delle sue membra? Lo dice l'Apostolo nella lettera agli Efesini: Siamo membra del suo corpo, della sua carne e delle sue ossa, e queste cose non le dice di un uomo spirituale e invisibile - uno spirito infatti non ha né ossa né carne (cfr. Lc 24,39) - ma di un uomo vero, che consta di carne, nervi e ossa, e che viene alimentato dal calice che è il sangue di Cristo e sostenuto dal pane, che è il corpo di Cristo.

Il tralcio della vite, piantato in terra, porta frutto a suo tempo, e il grano di frumento caduto nella terra, e in essa dissolto, risorge moltiplicato per virtù dello Spirito di Dio, che abbraccia ogni cosa. Tutto questo poi è messo a disposizione dell'uomo, e, ricevendo la parola di Dio, diventa Eucaristia, cioè corpo e sangue di Cristo. Così anche i nostri corpi, nutriti dall'Eucaristia, deposti nella terra e dissolti, risorgeranno a suo tempo, perché il Verbo dona loro la risurrezione a gloria di Dio Padre. Egli circonda di immortalità questo corpo mortale, e largisce gratuitamente l'incorruzione alla carne corruttibile. In questa maniera la forza di Dio si manifesta pienamente nella debolezza degli uomini.

Ireneo, Contro le eresie V,2,2-3; SC 153, 30-38

 

V. Anima mea non est ego

Platone nel Fedone sostiene in maniera chiara l'immortalità dell'anima; tuttavia egli considera il corpo un carcere da cui l'anima dovrà essere liberata. Nel suo pensiero, come in tutto il pensiero antico, è assente la risurrezione della carne. Agostino nel libro IX delle Confessioni cita i filosofi platonici, e dice di aver letto nei loro libri che il Verbo era Dio, ma non che il Verbo si fece carne; vi aveva letto che il Figlio è uguale al Padre, ma non che egli si fece obbediente al Padre fino alla morte di croce. Si tratta dell'opera di Plotino, tradotta allora dal greco in latino, che esaltava la gloria divina del Cristo, ma taceva la sua umiliazione nella carne.

 

Testimonianza di Tommaso d'Aquino

Il pensiero di san Tommaso è invece, al riguardo, molto chiaro ed esplicito, soprattutto nel suo commento al c.15 della prima lettera di san Paolo ai Corinzi, in cui l'Apostolo proclama la risurrezione dei morti, dei quali Cristo è la primizia. Cristo è la primizia della nostra risurrezione, cioè il primo dei risorti. Ora se Cristo è risuscitato dai morti - tale è il messaggio della Chiesa nascente - vuol dire che i morti risusciteranno. Ma cediamo la parola a san Tommaso:

"Se si nega la risurrezione del corpo, difficilmente si può sostenere l'immortalità dell'anima. Risulta infatti che l'anima è unita naturalmente al corpo, e si separa da esso contro la sua natura e incidentalmente. Così che l'anima svestita del corpo, finché rimane senza di esso, è imperfetta. Ora, non è possibile che ciò che è naturale vada a finire in niente, mentre ciò che è contro natura e incidentale duri per sempre, come appunto sarebbe se l'anima dovesse restare per sempre priva del corpo.
Ecco perché i Platonici che sostenevano l'immoralità, ricorsero alla reincarnazione, sebbene ciò sia eretico. Se i morti non risorgono, noi possiamo contare soltanto su questa vita.

Risulta altresì che l'uomo naturalmente aspira alla salvezza di se stesso, ma essendo l'anima parte del corpo, non è tutto l'uomo, e l'anima mia non sono io (anima mea non est ego ); per cui, anche se l'anima nell'altra vita raggiunge la salvezza, non sono io che la raggiungo. E poiché l'uomo aspira naturalmente alla salvezza anche del corpo, andrebbe frustrata un'aspirazione della natura.

La risurrezione di Cristo è, rispetto alla risurrezione degli altri uomini, come la primizia dei frutti rispetto ai frutti che vengono dopo, e in vantaggio sugli altri frutti come tempo e qualità. Cristo è la primizia di quelli che si addormentano nel sonno della morte con la speranza della risurrezione".

Tommaso d'Aquino, Commento I lettera ai Corinzi, c.15

 

VI. Glorificate Dio nel vostro corpo

I Corinzi, come tutti i Greci, facevano fatica a credere nella risurrezione dei morti, ma il messaggio cristiano predicato da san Paolo proclama in modo chiarissimo che i morti risorgono, perché Cristo è risorto dai morti come "primizia' di tutti quelli che si addormentano nel sonno di morte. Perciò Paolo, come scrisse ai Tessalonicesi, non tollerava che i cristiani piangessero i loro morti "come gli altri che non hanno speranza". Più volte Paolo afferma che la nostra speranza è Cristo, perché Cristo è il primo dei risorti da morte. Non si può credere in Cristo morto e risorto senza la speranza sicura che i morti risorgeranno

 

L'insegnamento di san Paolo

Di conseguenza non si può più considerare il corpo come carcere dal quale l'anima dovrà essere liberata. Paolo è in carcere, molto probabilmente ad Efeso, e non sa se ne uscirà vivo, ma di fronte alla morte lo sostiene questa piena fiducia: "Come sempre, anche ora Cristo sarà glorificato nel mio corpo, sia che io viva sia che io muoia" (Fil 1,20). Egli era pienamente coerente con l'insegnamento impartito ai Corinzi.

Essi, come tutti i Greci, consideravano il corpo carcere in cui l'anima è prigioniera e nello stesso tempo idolatravano il corpo, nelle gare sportive e nel culto, che raggiungeva la massima espressione nella prostituzione sacra praticata sull'Acropoli di Corinto, in onore di Afrodite. Paolo rivelò la grande dignità del corpo definendolo tempio dello Spirito santo: "Non sapete che siete tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi? Santo è il tempio di Dio che siete voi" (1 Cor 3,16-17). E concluse: "Glorificate dunque Dio nel vostro corpo" (1 Cor 6,20). E' questo il culto spirituale che insegnerà ai Romani: "Offrite i vostri corpi come sacrificio vivente, santo e gradito a Dio" (Rm 12,1).

 

VII. Gli altri che non hanno speranza

Nella sua prima lettera ai Tessalonicesi - considerata il primo scritto del Nuovo Testamento - Paolo non tollera che i cristiani rimangano nell'ignoranza circa la sorte dei morti, perché non siano tristi "come gli altri che non hanno speranza". Chi erano gli altri che non avevano speranza? Erano i pagani, cioè la grande maggioranza dei Tessalonicesi in mezzo ai quali viveva il piccolo gregge dei cristiani.

I Tessalonicesi erano Greci e circa la sorte dei morti avevano come massima informazione l'Odissea di Omero, che descrive il viaggio di Ulisse nell'Ade. L'Ade era per i Greci il regno d'oltretomba, dove i morti erano ridotti a pure ombre e fantasmi senza corpo. I filosofi parleranno dell'immortalità dell'anima, ma senza apportare una solida speranza.

Ha ragione san Tommaso quando asserisce che è difficile sostenere l'immortalità dell'anima se si nega la risurrezione dei morti. Certo, l'attesa della risurrezione della carne richiede una speranza robusta e paziente. Perciò san Paolo chiede ai cristiani: "Siate lieti nella speranza, costanti nella tribolazione, perseveranti nella preghiera"(Rm 12,12). I cristiani non possono essere tristi "come gli altri che non hanno speranza". Quale speranza infatti si può trarre dal poema di Omero?

 

Nel regno delle ombre

Nel canto XI dell'Odissea egli racconta la discesa di Ulisse nell'Ade, dove incontra dapprima sua madre che subito non lo riconosce. Poi, quando lo riconosce, egli vuole stringere fra le braccia l'anima di sua madre morta. "Tre volte mi protesi in avanti, ad abbracciarla mi spingeva il cuore, tre volte mi sfuggì dalle mani, simile a un'ombra o a un sogno". La madre gli rispose: "Figlio mio, questa è la sorte degli uomini, quando si perde la vita: la carne, le ossa, non sono più rette dai nervi, la violenza del fuoco ardente le annienta appena lo spirito lascia le bianche ossa; l'anima se ne vola via come un sogno".

Più triste ancora è l'incontro con Achille, al quale Ulisse dice: "Di te nessuno fu più felice, quando eri vivo, e ora che sei qui, hai grande potere tra i morti: non dolerti perciò di essere morto, Achille". E lui così gli rispose: "Della morte non parlarmi, glorioso Odisseo. Vorrei essere il servo di un padrone povero che pochi mezzi possiede, piuttosto che regnare su tutte le ombre dei morti".

 

VIII. Cristo discese agli Inferi

Il Cristo non solo morì ed è risorto. Egli fu sepolto e discese agli Inferi. Poi ascese al cielo e siede alla destra del Padre. "Ma che significa la parola "ascese", - si domanda san Paolo - se non che prima era disceso quaggiù sulla terra? Colui che discese è lo stesso che anche ascese al di sopra di tutti i cieli, per essere pienezza di tutte le cose" (Col 4, 9-10).

Gesù ha conosciuto la morte come tutti gli uomini e li ha raggiunti con la sua anima nella dimora dei morti. Prima di apparire alle donne, che all'alba del terzo giorno si recarono al sepolcro, il Signore Gesù discese agli Inferi per liberare dalla morte tutti coloro che attendevano la sua venuta. L'icona della Risurrezione, che la Chiesa greca e russa venerano, raffigura il Risorto che discende agli inferi, e ce lo presenta nel momento in cui, dopo aver abbattuto le sbarre del carcere tenebroso e sciolte le catene dei prigionieri, afferra saldamente ai polsi Adamo ed Eva per condurli dalle tenebre alla luce, dalla schiavitù alla libertà, dalla morte alla vita. Sul volto di Cristo risplende la gloria di Dio. Le sue vesti sono candide come la neve. E' la luce del Tabor, anticipazione della gloria pasquale di Cristo e della trasfigurazione del nostro corpo.

Chi può dire con san Paolo: "Per me il vivere è Cristo", con lui può aggiungere: "e il morire un guadagno" (Fil 1,21). e attendere con piena fiducia la trasfigurazione del proprio corpo. "La nostra cittadinanza infatti è nei cieli e di là aspettiamo come salvatore il Signore Gesù Cristo, il quale trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso, in virtù del potere che egli ha di sottomettere a sé tutte le cose" (Fil 3,20-21). E tale icona si intitola Anastasis, Risurrezione, perché tale è il modo in Oriente di concepire la risurrezione del Signore: una vittoria sulla morte. Così si esprime un'antica Omelia:

 

Omelia del Sabato santo

Oggi sulla terra c'è grande silenzio e solitudine. Grande silenzio perché il Re dorme: la terra è rimasta sbigottita e tace perché il Dio fatto carne si è addormentato ed ha svegliato coloro che da secoli dormivano. Egli va a cercare il primo padre, come la pecora smarrita. Egli vuole scendere e visitare quelli che siedono nella tenebre e nell'ombra di morte. E, presolo per mano, lo scosse, dicendo: "Svegliati, tu che dormi, risorgi dai morti, e Cristo ti illuminerà .

Io sono il tuo Dio, che per te sono diventato tuo figlio; che per te e per questi, che da te hanno avuto origine. A te comando: Svegliati, tu che dormi! Infatti non ti ho creato perché rimanessi prigioniero nell'inferno. Risorgi dai morto. Io sono la vita dei morti. Risorgi, opera delle mie mani! Risorgi mia effigie, fatta a mia immagine! Risorgi, usciamo di qui! Tu in me e io in te siamo infatti un'unica e indivisa natura".

 

Conclusione

La parola di Dio, sulla quale è fondata la fede e la speranza dei credenti, ricorda che "ogni uomo è appena un soffio, solo ombra che passa e vanisce"(Sl 39,6). Egli è "come erba che spunta sull'alba, al mattino germoglia e fiorisce, alla sera è falciata e riarsa" (Sl 90,5-6). E tuttavia, nonostante questa caducità e provvisorietà nonostante questa fragilità e precarietà, che è propria di ogni essere mortale, io posso dire con la voce del salmo 4: "Mi hai fatto abitare nella speranza", e con la voce del salmo 16: "Anche la mia carne riposa nella speranza".

Il salmo 4 è una preghiera della sera tutta permeata di fiducia in Dio. L'oscurità della notte sarà squarciata dalla luce del volto di Dio. Ci si addormenta pensando all'ultima sera, ma con la sicura speranza di risvegliarsi al mattino del giorno senza tramonto.

In pace mi corico e subito mi addormento,
perché tu, Signore, solo,
mi hai fatto abitare nella speranza.

Il salmo 16, che è sicuramente messianico, come lo dimostra anche l'uso che ne fa la Chiesa nella liturgia pasquale, esprime la fiducia del salmista che osa lanciare anche una sfida alla paura suprema dell'uomo, quella della morte. Da un lato egli vede il fluire inesorabile dei giorni verso la fossa, ma dall'altro egli intuisce che il Dio della vita non può permettere che il suo fedele piombi nel nulla o nel soggiorno spettrale dei morti. Ai suoi occhi appare quasi un bagliore: è la via della vita e della gioia eterna davanti al volto di Dio.

Di questo gioisce il mio cuore
esulta la mia anima;
anche la mia carne riposa nella speranza
Non abbandonerai la mia vita agli inferi
non lascerai vedere al tuo amico la fossa.

Mi farai conoscere il sentiero della vita:
presenza di gioia davanti al tuo volto
dolcezza senza fine alla tua destra.



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