Da "Famiglia cristiana", LXIX, n.51 - 26/12/1999

 

IL MISTERO DI DON EMILIO

Nella sua chiesa che riceve in faccia gli spruzzi del mare le donne hanno preparato l'altare, ma lui non c'è più. Era qui da sette anni, e la gente lo amava molto. " Un uomo di Dio", dicono, "tutto preso dal Vangelo". Un prete che una sera ha aperto la sua porta, senza chiedere chi era.

Il mare urla e s'impenna e nemmeno il molo riesce a spezzare l'orgoglio delle onde. Accade spesso d'inverno. I vetri della chiesa ricevono gli spruzzi. Santa Margherita d'Antiochia si chiama, chiesa di crociati, fede giovane e armata. Chiesa di pietra che sfida i flutti del mare e resiste al vento che la percuote. Forse don Emilio s'era invaghito della sua bellezza, della sua potenza, della sua nuda severità romanica.

Un giorno del 1972 scrisse agli amici: "Bisogna arrivare all'essenziale, bisogna arrivare alla pietra".

Don Emilio non c'è più. Lo hanno ucciso una sera di dicembre, massacrato di botte nella canonica sopra la sua chiesa di pietra, che rappresentava lo stile di Dio. Le donne stasera sono sole. Hanno apparecchiato l'altare, ma hanno lasciato il canapo rosso che divide il presbiterio dalla navata. E ora sotto gli archi a tutto sesto s'odono parole spezzate da sordi singhiozzi.

Don Emilio aveva ottant'anni e il paese del mare che ruggisce e della chiesa in pietra quasi si vergogna a raccontare che gli hanno ammazzato il prete. Lo fa con quel riserbo asciutto e un po' ispido che è tipico dei liguri del Levante. Perché Vernazza ancora non vuol credere che un giorno di dicembre, mentre in piazza issavano le luci di Natale, qualcuno nella canonica uccideva il suo don Emilio Gandolfo.

Vernazza, decretata dall'Unesco patrimonio dell'umanità, è forse la più tipica e selvaggia delle Cinque Terre. Il mare l'abbraccia da due parti, le case sono nate una sull'altra, anzi una dentro l'altra, attraversate da carrugi, scale che conducono ad altre scale, un labirinto d'archetti, che gli assassini dovevano ben conoscere. Il sindaco Gerolamo Leonardini ha gli occhi lucidi di pianto da tre giorni: "Mai era accaduto un omicidio nella storia di Vemazza. Nemmeno ai tempi dei crociati, nemmeno quando genovesi e pisani si contendevano il mare". E' per questo che si sgomenta: "il paese è abitato da vecchi. Vivono soli e hanno paura".

Eppure non sembra un omicidio per soldi. Il denaro è rimasto sulla scrivania della canonica, soltanto qualche cassetto è stato rovesciato a bella posta, quasi per inscenare una rapina. "Ho letto il referto", dice il sindaco. "Chi lo ha ucciso si è accanito come una furia sul sacerdote. Lo ha torturato, segno di un odio profondo. Oppure voleva carpirgli qualche segreto".

Chi era don Emilio Gandolfo? Era arrivato a Vernazza sette anni fa per sostituire don Alberto Zanini, morto a 35 anni in un incidente di montagna. "Un prete molto colto, troppo per noi. Insomma un lusso", dice la gente. "Un uomo della Parola di Dio. Anche con tre persone in chiesa nei giorni feriali lui spiegava la Parola. E d'estate venivano da tutte le Cinque Terre ad ascoltarlo". Niente nomi, perché don Emilio ha lasciato loro la dote rara dell'umiltà: "Era sapiente, ma non ricco. Ci regalava i suoi libri", dicono le ragazze adolescenti di Vernazza. E i bambini lo ricordano mentre li portava su al santuario di Nostra Signora di Reggio e raccontava le storie della Bibbia. Aveva insegnato per vent'anni al liceo classico Virgilio di Roma. Era stato consigliere ecclesiastoco all'ambasciata d'Italia presso la Santa Sede, ha accompagnato per anni i pellegrinaggi in Terra Santa come assistente ecclesiastico della Ivet. Era membro della Compagnia San Paolo fondata dal cardinale Ferrari. Aveva tradotto Gregorio Magno, studiato i grandi Padri della Chiesa primitiva. Amava Dante e la letteratura. Aveva amici in ogni dove e non dimenticava gli alunni del suo liceo, li seguiva nella vita con una presenza costante, fatta di parole e di lettere, due volte l'anno a Natale e a Pasqua.

Duecento di quegli alunni, uomini politici di primo piano, professori universitari, giornalisti e semplici cittadini hanno inviato una lettera a Repubblica per ricordarlo: "Estraneo a qualsiasi banalità", hanno scritto. Il vescovo di La Spezia, Bassano Staffieri, al funerale lo ha definito "sacerdote-monaco", il cardinale Achille Silvestrini "uomo sempre sulle orme di qualcuno". Ricorda il ministro dell'Interno Rosa Russo Jervolino, che studiò anch'ella in quel liceo rinomato alla fine degli anni '50: "Una volta ci accompagnò in Terra Santa e fece fermare la nave davanti all'isola di Cefalonia e celebrò la messa per i caduti italiani delle Divisione Acqui, massacrati dai tedeschi dopo l'8 settembre 1943". Per dire che non dimenticava mai nessuno, che ogni radice è buona per nutrire la nostra identità: storica, geografica, spirituale.

Conosceva don Primo Mazzolari che il 28 marzo 1942, giorno della sua ordinazione sacerdotale, gli scrisse: "Riguardo alla nostra inguaribile povertà non accorartene troppo". I suoi studenti del liceo, i suoi amici di tanti viaggi, hanno raccolto in un libro le lettere di Natale e Pasqua: A Dio che allieta la mia gioventù. Scorrendolo si capisce perché non meraviglia che possa aver aperto la porta ai suoi aggressori. Scriveva per la Pentecoste del 1967, nel venticinquesimo di messa: "Ho detto la mia prima messa in tempi di angustia e di paura, quando si mangiava un pane stentato e nero... Oggi che il mondo è cresciuto e va crescendo in maniera sbalorditiva la mia offerta è più ricca. Prima credevo più nel fare, adesso credo più nel patire".

Non ha mai cambiato idea sul sacerdozio. Ricorda il professore di Storia Beppe Ignesti, uno degli alunni che gli è rimasto più vicino: "Ripeteva spesso che avrebbe rifatto il prete. Ha orientato generazioni di studenti. Era un intellettuale. Poteva starsene a Roma a studiare. Ha frequentato i diplomatici. Eppure mai si è lasciato sedurre, da nessuno. Gli interessava solo il Vangelo. Nel '72 ha lasciato Roma. Era convinto di dover rispondere a una nuova chiamata: parroco a Levanto, poi a Bonassola e poi a Vernazza. Ci scriveva del suo amore per il Vangelo sine grossa, senza incrostazioni né sofisticazioni, come fu per Francesco. Anche don Emilio ha rinunciato, per la Parola, a ogni sogno di grandezza".

L'immagine di Chiesa che traspare dai suoi scritti è più simile a una tenda piantata nel deserto che a quella di un tempio sontuoso. Scriveva a Pasqua nel 1972: "L'unica vera soddisfazione consiste nel poter dire: il Signore si è voluto servire di me. Gli onori e i riconoscimenti umani sono soltanto fumo negli occhi. Ciò che conta è l'amicizia".

Tanti amici, credenti e non credenti

I suoi amici sono oggi più soli. Quelli credenti e, soprattutto, i non credenti. C'è un signore a Vernazza che il primo giorno dell'anno lascerà una sedia vuota alla mensa per don Emilio. Ha avuto un tremendo lutto anni fa. Don Emilio si è comportato con lui un po' come Gesù con i due discepoli sulla via di Emmaus.

Gli ha insegnato che "il silenzio di Dio è molto eloquente per chi sa interpretarlo", come aveva scritto agli studenti del Virgilio nel 1968. La morte era un pensiero che l'accompagnava e che lui cercava di spiegare: "Una vita compiuta è come una spiga colma, matura. Quando il grano è maturo, si miete. La mietitura è una festa. E la morte, più che la fine è da considerare il compimento. Riusciremo a convincerci che la nostra vera ricchezza nasce da questa spoliazione e che soltanto l'amore spinto alla follia, com'è quello della croce, è capace di attrarre a sé tutte le cose e di trasformare ogni strumento di morte in albero di vita?".

L'ultima lettera è arrivata due giorni prima che l'ammazzassero.

E' un piccolo libretto che reca in copertina ancora il romanico essenziale della Natività della chiesa di Notre-Dame-la-Grande di Poitiers. Scrive del secolo che se ne va e del nuovo millennio che viene: "Sia Roma che tutta la Terra Santa appare un grande cantiere, che molti non ritengono un segno positivo, mentre taluni sognano ancora una Chiesa trionfante e con nostalgia evocano una fede ai trionfi avvezza. Ma il Papa che vent'anni fa inaugurò il suo pontificato con il grido: "Aprite le porte a Cristo!", e che in un primo tempo andò per le vie del mondo impugnando la croce come una spada, da qualche tempo lo vediamo appoggiarsi ad essa senza nascondere la sua infermità e umana debolezza. Fa ricordare san Paolo che diceva: virtus in infirmitate perficitur. Sì, la forza si manifesta pienamente nella nostra debolezza. E ci soccorre il pensiero di sant'Agostino: "Attraverso strutture provvisorie, il divino architetto costruisce la casa in cui abiteremo per sempre"".

Qualcuno ha bussato alla porta di don Emilio prima della fine del millennio. Lui ha aperto, perché così vuole l'amore di Cristo e la nostra carità. Oltre ogni mistero.

 

Alberto Bobbio

  

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