Moisac, Abbazia di S. Pietro, Portale, La presentazione al tempio (circa 1120)

"Ora puoi, o Signore, lasciare andare il tuo servo \ secondo la tua promessa, in pace; \ poiché hanno visto gli occhi miei la tua salvezza, \ da te preparata a riguardo di tutti i popoli" (Lc. 2, 29-30). Il fedele che si appresta ad entrare nell'abbazia di Moissac trova subito nel portale il progetto di Dio. Il vecchio Simeone, uomo giusto e pio, quel giorno mosso dallo Spirito se ne venne al tempio e vide ciò che gli era stato promesso, il Cristo dei Signore. Non c'è più il colore delle vesti a mostrarci fondamentali codici simbolici, ma l'abbraccio dei vegliando al bambino evoca subito le tante rappresentazioni dei sacrificio di Isacco, che in quei secoli viene sempre ripetuto, come atto che annuncia la venuta dei Salvatore. E' evidente che la storia della salvezza giunge ormai al suo compimento: sull'altare si compie un sacrificio nuovo. Se Abramo si accingeva a sacrificare suo figlio per un atto di amore verso il suo Dio, qui è il Padre che sacrifica il figlio come atto d'amore verso "tutti i popoli". Sull'altare, schematicamente rappresentato da una colonna, il Cristo del Signore è riconosciuto, attraverso un uomo giusto e pio che aveva lo Spirito Santo presso di sé (Lc. 2,25), come, il Consacrato, il Santo, il Sacerdote unico e perfetto: "è Lui che mi ha mandato" (Gv. 8,42). Dio proclama già, attraverso Simeone, che "questi è il mio figlio prediletto" (Mt. 3,17). A sottolineare la solennità della scena stanno, appunto, le due colombe, che già annunciano il battesimo nel Giordano: "Ho visto lo Spirito scendere come una colomba dal cielo" (Gv. 1,32).

 

Lettera di Natale agli amici ~ 1995

In piena notte la gloria del Signore avvolge di luce i pastori che vegliano nei pascoli di Betlemme. Essi sono presi da grande spavento; ma la voce dell'angelo li rassicura: "Non temete, vi annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo". Questa grande gioia della nascita di un salvatore è prima di tutto per i più piccoli, ma dovrà diventare la gioia di tutto il popolo. Il lieto annuncio è questo: "Oggi è nato per voi un salvatore". Sì, per voi. Senza dubbio, la bella notizia dell'evento di Betlemme dovrà giungere agli estremi confini della terra, perché la grazia di Natale è destinata a tutti gli uomini. "Pace sulla terra agli uomini che Dio ama". Nessuno è escluso dalla grazia e dalla gioia di Natale, perché Dio ama tutti gli uomini. Questo bambino avvolto in fasce e deposto nella mangiatoia era stato annunciato più di sette secoli prima dal profeta Isaia come una grande luce nelle tenebre, come dono di Dio agli uomini, dono assolutamente gratuito e inatteso: "Un bambino è nato per noi". In che senso è nato per noi? In questo bambino, ci spiega san Paolo nella notte di Natale, "è apparsa la grazia di Dio, apportatrice di salvezza per tutti gli uomini ". E' una grazia che vuole educare gli uomini. "C'insegna a vivere in questo mondo con sobrietà, giustizia e bontà, nell'attesa della beata speranza e della manifestazione della gloria del nostro grande Dio e salvatore Gesù Cristo, il quale ha dato se stesso per noi". Siamo qui nel cuore dei misteri che si celebrano nel corso dell'anno liturgico, da Natale a Pentecoste: dal primo vagito nella grotta di Betlemme fino all'ultimo grande grido sulla croce, Cristo ha dato se stesso per noi. E ciò manifesta l'amore di Dio per gli uomini. Ben preciso è lo scopo per cui ha dato se stesso per noi: "per formarsi un popolo puro che gli appartenga". A questo popolo è destinato l'annuncio della grande gioia di Natale. Gli umili pastori di Betlemme sono la primizia del popolo di Dio.

Betlemme, dove Gesù nasce, vuol dire "casa del pane", e Gesù dirà di essere il vero pane disceso dal cielo per la vita del mondo; e tutta la sua vita si può riassumere in un solo gesto, quello di spezzare il pane, il gesto della comunione. E' da questo gesto che i discepoli riconobbero il Signore, ed è da questo gesto che si possono riconoscere i discepoli del Signore. Spezzare il pane significa condividere gioia e dolore, angoscia e speranza. Non si tratta di grandi gesti, ma di quei piccoli gesti di cui è intessuta la vita di ciascuno e la storia del mondo. Siamo tutti compagni di viaggio. Occorre riscoprire il significato eucaristico di compagni (cum e panis), perché l'eucaristia è precisamente condivisione dello stesso pane.

Quanti partecipano a quest'unico pane diventano un unico corpo, il corpo di Cristo: il corpo di Cristo animato dallo Spirito santo, che è lo Spirito dell'amore. Nessuno appartiene a se stesso, ma ci apparteniamo a vicenda. E ci apparteniamo davvero, se impariamo ad accoglierci l'un l'altro come il Cristo ha accolto noi, e per amore siamo disposti a metterci a servizio l'un dell'altro. Egli infatti, essendo nato per noi e avendo dato se stesso per noi, ha accolto ciascuno di noi in se stesso, è diventato solidale con ciascuno di noi. E da lui nasce la gioia del dono scambievole, il comandamento nuovo ("Amatevi come io ho amato voi"); il comandamento nuovo che ci fa uomini nuovi, capaci di cambiare il mondo.

I Greci avevano un grande concetto dell'amicizia. Erano arrivati a dire con Aristotele che "tra amici tutto è comune". Per essi quindi l'amicizia non era fondata sul calcolo, ma sulla gratuità. Come la grazia. Immettendosi in questo solco, Paolo dice: "Ciascuno deve dare come ha deciso nel suo cuore, non con tristezza né per forza, perché Dio ama chi dona con gioia". La liturgia bizantina si rivolge con insistenza a Dio come "amico dell'uomo". In realtà Dio non l'ha mai visto nessuno. Gesù ci ha rivelato il cuore di Dio, e la nuova alleanza, cioè il nuovo rapporto che Dio intende stabilire con gli uomini, è fondato totalmente sull'amicizia. Egli non vuole dei servi che eseguiscano degli ordini, ma vuole degli amici che condividano il suo disegno di amore e per amore sappiano mettersi al servizio gli uni degli altri.

Ma è ancora possibile l'amicizia in questo nostro mondo in cui sembra che sul senso del gratuito prevalga il calcolo che inaridisce il cuore, che sulla gioia di donare e di mettersi a servizio gli uni degli altri per amore prevalga l'affermazione individuale e il successo? Ma che cosa diventerebbe la terra senza il fiore profumato dell'amicizia, se non un deserto arido? Nessun guadagno può compensare la perdita di questa ricchezza: poiché uno è tanto più ricco quanto più ha degli amici. Non amici potenti, ma sinceri.

Spezzare il pane è il gesto della comunione. E i credenti non possono accettare la separazione fra culto e vita, tra quelli che entrano nel tempio e quelli che rimangono fuori, forse esclusi da chi ha la presunzione di essere detentore della verità. Anche della verità si può fare un idolo, dice Pascal. La chiesa pellegrinante non può non essere profezia di quel Regno "che solo amore e luce ha Per confine", Il Bambino è nato per tutti e perciò tutti sono chiamati, tutti sono invitati alla festa, e tutti si presentano a mani vuote a colui che ricolma di beni gli affamati e rimanda i ricchi a mani vuote. Tutti sono invitati a godere del dono che egli nascendo ha fatto di se stesso. Dalla sua pienezza noi tutti attingiamo. Dalla mangiatoia all'ultima cena - convito nuziale del suo amore - il suo è tutto un cammino nella logica dell'amore. Amore inteso come servizio e accoglienza, come attenzione agli altri cominciando dagli ultimi; egli accetta l'invito a nozze e siede volentieri alla mensa dei peccatori; accoglie gli emarginati e gli esclusi; abbatte ogni muro di divisione, per creare in se stesso un solo uomo nuovo.

La gioia dilata il cuore, mentre il dolore lo restringe. Quando il cuore è infesta si sente il bisogno di condividere la gioia con qualcuno, mentre la tristezza porta all'isolamento. Ma l'apostolo Paolo insegna: "Rallegratevi con quelli che sono nella gioia, piangete con quelli che sono nel pianto" (Rm 12,15). Il pellegrino Dante, ormai vicino a l'ultima salute, guarda in giù e vede questo piccolo pianeta come l'aiuola che ci fa tanto feroci. Amarezza, risentimento? Così può apparire anche a noi questa terra tanto contesa. E se imparassimo a guardarla come la guardò Gesù quando aprì gli occhi a Betlemme e quando li chiuse sulla croce? Egli pianse guardando la sua città. Ma chi l'aveva visto prima piangere davanti al sepolcro di Lazzaro, così aveva commentato le sue lacrime: "Come gli voleva bene!". Non diverso era il significato del suo pianto sulla città santa. E il suo sguardo non si limitava a Gerusalemme, ma era aperto a tutto il mondo, a questo mondo che Dio ha amato e ama al punto da dare il suo Figlio unigenito. C'è dunque ancora speranza per noi.

Roma, Natale 1995

 

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