Dina Bellotti, Studio per "Madonna con Bambino", matita

 

Lettera di Natale agli amici ~ 1997

Ho ritrovato dopo tanti anni la novella di Pirandello mai dimenticata: "Ciàula scopre la luna". Esattamente cinquant'anni fa mi trovavo a Lercara Friddi all'ingresso di una zolfatara, ad aspettare i minatori che stavano risalendo dal ventre della terra. Avrei dovuto rivolgere loro una buona parola; ma quando me li vidi davanti affranti e sfigurati da una fatica disumana, ogni parola mi morì in bocca. Il nostro dialogo si svolse quasi totalmente nel silenzio. Mi venne in mente anche Ciàula. Me lo vidi là seduto sul suo carico a contemplare estatico la luna, a piangere dal gran conforto, dalla grande dolcezza che sentiva, nella notte piena del suo stupore.

Come non pensare ad un'altra notte piena dello stupore dei pastori che nei dintorni di Betlemme vegliavano il gregge? Gente che, come Ciàula e i minatori siciliani, non contava nulla agli occhi dei potenti e che ad un tratto ricevettero l'annuncio inatteso di una grande gioia. Durante la veglia di Natale risuona l'oracolo d'Isaia: "Un popolo che camminava nelle tenebre vide una grande luce". Il profeta parla delle popolazioni della Galilea che nell'VIII secolo a.C. furono invase dagli Assiri, e sulle quali si addensarono fitte tenebre. In quelle tenebre rifulse la luce, quando Gesù fece sentire la sua voce, la voce dell'Evangelo, il lieto annunzio ai poveri.

Solo i poveri, che conservano lo spirito d'infanzia, son capaci di stupore. Essi soli possono credere veramente al Vangelo, perché il loro spirito è in sintonia con questo messaggio. Il loro cuore, libero da ogni seduzione terrena, è aperto al fascino del divino. Essi soli possono comprendere il segno misterioso di quella notte. Chi poteva immaginare che proprio quel Bambino avvolto in fasce e deposto nella mangiatoia era il salvatore di tutti gli uomini? Eppure nessun altro segno di riconoscimento vien dato loro. Né essi pretendono altri segni. Non pretendono segni straordinari di gloria, non aspettano un Messia potente che renda giustizia ai poveri facendoli diventare ricchi; ma accettano il segno della povertà e dell'umiltà in colui che essendo infinitamente ricco si fece povero per noi per arricchirci con la sua povertà. Da quel momento la povertà accettata e amata diventa titolo di vera nobiltà. Così appare in Francesco: "Oh ignota ricchezza, oh ben ferace! ". Se "nel crudo sasso intra Tevere e Arno da Cristo prese l'ultimo sigillo, che le sue membra due anni portarno", il primo sigillo lo ricevette quando si spogliò dei suoi privilegi per condividere la sorte degli ultimi.

Lo stupore accompagna sempre lo spirito d'infanzia, che è la capacità di accogliere il regno di Dio con l'animo d'un bimbo. Solo così lo si può accogliere, a questa sola condizione ci vien donato. Nessuno ha mai visto Dio e tanto meno può conquistarlo e possederlo con le proprie forze e la propria giustizia. Ma Dio, che è amore, dona liberamente e gratuitamente se stesso. Perciò può accoglierlo solo chi ha l'animo di un bimbo. Dio si è fatto bambino per noi e insieme a noi, dice Ireneo, coinfantiatum est nobis. E non è forse caratteristica del bambino lo stupore? Spontaneamente egli apre la mano per accogliere il dono, ma prima spalanca gli occhi per lo stupore davanti al dono e al donatore. La sorpresa suscita in lui lo stupore. Se poi, per sua sfortuna e non senza nostra colpa, arriva a pensare che tutto gli è dovuto, è segno che ha perduto lo spirito d'infanzia, e anche la gioia che fiorisce quando nel dono si scopre un atto d'amore. Anche la fede, nota Tertulliano, è sicura se è capace di stupore, secura si adtonita. La sicurezza d'essere amati poggia sulla speranza che non sarà delusa, sul dono immeritato e tuttavia sicuro.

"Oh se tu conoscessi il dono di Dio!", dice Gesù alla samaritana che è venuta al pozzo ad attingere acqua e alla quale egli ha chiesto da bere. Egli che è venuto per saziare la nostra concreata e perpetua sete, si presenta come assetato che chiede l'acqua dei nostri pozzi. Chiede quello che è nostro per darci in cambio se stesso. Come a Cana di Galilea, dove invitato a nozze, compie il suo primo "segno". Anche allora non dona il vino che allieta il cuore dell'uomo senza chieder prima di riempire d'acqua le anfore. Non avrebbe potuto donare direttamente il suo vino squisito? Ma così non avrebbe reso onore alla nostra povertà. Vuole convincerci che nella nostra povertà abbiamo sempre qualcosa da donare e quanto più siam poveri tanto più siam capaci di donare noi stessi.

Ricordo Severino, un bambino di Lerici, che nel presepe domestico aveva preparato il suo dono per i bambini più poveri nei quali imparava a riconoscere il piccolo Gesù. Era il Natale del 1943, un Natale di povertà e di paura. Ma quel giorno sulla tavola non mancava il dolce. Severino, pur essendo ghiotto come tutti, si affrettò a mettere da parte la sua porzione. La mamma insisteva perché non se ne privasse: c'era un altro pezzo che poteva donare. Ma Severino rispose che non era la stessa cosa. Aveva capito che non poteva donare se non ciò di cui liberamente si privava. Solo così gli sembrava di donare qualcosa di veramente suo, di donare se stesso. Proprio nella notte di Natale san Paolo mette in risalto il significato del gesto di Gesù, dicendo: "Egli donò se stesso". Per questo si fece povero, per non aver altro da donare che se stesso. Ci arricchisce con la sua povertà, e ciò appare chiaro a Betlemme, sulla croce e sulla mensa dell'altare.

Ricorre quest'anno il primo centenario della morte di Teresa di Gesù Bambino, autentico modello dello spirito d'infanzia e di quella povertà di spirito, che porta a scegliere l'ultimo posto. All'opposto del fariseo che nella sua presunzione arriva a ringraziare Dio di non essere come gli altri, Teresa chiede di poter sedere alla mensa dei peccatori. Ciò le costò il buio totale, che invase il suo spirito durante gli ultimi diciotto mesi della sua breve esistenza, lasciandola fino all'ultimo priva di ogni consolazione Queste sue parole rispecchiano bene il suo pensiero: "Alla sera di questa vita, io mi presenterò davanti a Te con le mani vuote, perché non ti chiedo, Signore, di contare le mie opere. Tutte le nostre opere giuste sono macchiate ai tuoi occhi. Io voglio dunque rivestirmi della tua stessa Giustizia, e ricevere dal tuo amore il possesso eterno di Te stesso. Io non voglio altro che Te".

Chi si presenta al Signore con le mani vuote, può dirgli con tutta sincerità: "Io non voglio altro che Te", sicuro che non sarà rimandato a mani vuote come i ricchi presuntuosi. Non ha nulla e si aspetta tutto. Agostino è divorato dal medesimo anelito, e come Teresa ha sempre presente gli altri, ai quali dice: "Io non voglio essere salvo senza di voi", E penso che Seneca, che scrive a Lucilio: "Nessun bene procura gioia se non è condiviso", non sia lontano dal regno di Dio.

Roma, Natale 1997

 

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